Nome, cognome e numero. Si firmano così,
indicando anche gli anni trascorsi nelle prigioni di Fidel, gli esuli
anti-castristi in giro per il mondo libero. Mario Chanes 30 piuttosto che
Eusebio Peñalver 28, ecco i timbri, indelebili, per ricordare a tutti che 40
anni di dittatura hanno lasciato il segno pure sul fisico di chi ha avuto il
coraggio di dire di no. Ma c’è un nome senza numero che fa più paura di
tutti gli altri, all’ultimo regime comunista dell’America Latina. È il nome
di una donna, anzi, di una pasionaria, che ha deciso di dedicare il resto
della sua vita per dare la caccia all’ex barbudo della Sierra Maestra. «Deve
subire lo stesso trattamento riservato a Pinochet». Ileana de la Guardia, si
chiama così la borghese che vuole portare Fidel davanti a un tribunale. Lei
non ha subíto l’onta della detenzione per le sue idee, che erano quelle del
regime. Non è finita dietro le sbarre, perché il padre e lo zio, ufficiali
di vertice, stavano dalla parte di chi incarcerava, non di chi veniva
incarcerato. Non ha neppure sofferto la fame – tanto la ragazza era inserita
nell’alta e privilegiata società – né l’è mancato l’amore, avendo conosciuto
e sposato Jorge Masetti, agente del controspionaggio cubano e figlio di
Ricardo, celebrato eroe dell’Avana scomparso tra le Ande in azione di
guerriglia nei primi anni Sessanta.
Ileana, già figlia, nipote e ardente fanciulla della rivoluzione, dall’89 ne
è diventata la più illustre orfana: il papà Tony verrà fucilato a
conclusione del noto e mostruoso «processo Ochoa» (dal nome del generale
Arnaldo Ochoa, considerato un simbolo della guerriglia in Africa), lo zio
Patricio sarà condannato all’ergastolo che sta ancora scontando. «Mia cara e
bellissima Ili», scrisse il padre alla figlia pochi istanti prima della
drammatica fine. «Non ho più tempo. Desidero solo tornare a dirti quanto ti
ho voluto bene e quanto tu hai significato per me, quanto mi hai insegnato e
mostrato al termine della mia vita... So che sarai un esempio per tutti. Ti
chiedo unicamente d’essere orgogliosa di tuo padre e dei tuoi fratelli.
Aiutali. Ti voglio un bene dell’anima». Tony de la Guardia invia l’ultima
lettera anche al «caro Jorge», marito dell’amata figlia: «Per me più che un
genero, tu sei un figlio. Innanzitutto perché sei figlio di un martire che
ho tanto ammirato e poi per le tue qualità di rivoluzionario
internazionalista, per il tuo disinteresse e la tua semplicità...». Il
colonnello Tony de la Guardia verrà riconosciuto colpevole dopo un
dibattimento-beffa. Lui e altri saranno messi al muro per narcotraffico.
Ileana s’accalora ancora, dieci anni dopo: «Secondo quel verdetto illegale,
i vertici della guardia costiera, i militari, i capi dei servizi segreti,
insomma in molti sarebbero stati a conoscenza del traffico in corso sulle
nostre coste. Ma a Cuba non si muove foglia che Fidel non voglia: possibile
che lui solo fosse all’oscuro di quanto accadeva alle porte di casa? Mio
padre è stato fucilato per coprire le responsabilità del regime. E io voglio
trascinare Castro davanti a un banco degli imputati per amore di giustizia,
non soltanto di libertà. Che siano i giudici ad accertare tutta la verità,
nient’altro che la verità».
Ileana parla ormai da europea, perché a conclusione di quel processo che
perfino una commissione delle Nazioni Unite dichiarerà, in seguito,
“illegittimo”, è stata costretta a scappare con Jorge prima a Parigi – dove
furono protetti dai servizi francesi, a conferma del pericolo corso dalla
giovane coppia, pronta a vuotare il sacco sulla e contro la dittatura – e
poi in un appartato rifugio a Madrid. Hanno un figlio di due anni, Antonio,
l’omaggio al papà ucciso. Jorge Masetti ha raccontato la sua vita, passata
tra guerriglie in tre continenti – America del Sud, Africa ed Europa –,
in un libro (El furor y el delirio), appena tradotto in spagnolo
dall’originale francese. Ma l’arma davvero segreta del giovanotto oggi
quarantaquattrenne è la donna che l’ha seguito persino in Angola, e che ora
ha il séguito dei tanti esuli, inizialmente diffidenti per questi convertiti
alla libertà con la stessa buonafede con cui predicavano la rivoluzione. «Da
piccola, a scuola, gli insegnanti recitavano ogni mattina lo stessa frase»,
ricorda Ileana. «Loro chiedevano, “pionieri del comunismo?” e noi alunni
dovevamo rispondere “Saremo come il Che!”.
Né ho dimenticato “el domingo rojo”, la domenica rossa, quando almeno una
volta al mese gli adulti dovevano lavorare l’intera giornata gratis per lo
Stato. Poi, più grandicelli, ci portavano alle esecitazioni: dovevamo sapere
usare i fucili perché il nemico americano era sempre dietro l’angolo...». La
figlia del colonnello non fa fatica a crescere nella crema di una società
che resta ideologicamente classista e chiusa («Ci avete fatto caso? I neri,
che pure rappresentano la metà della popolazione, non sono quasi presenti
nel governo di Fidel né ai vertici dello Stato. Che progressisti, i
comunisti!»). Proprio grazie agli studi, di buon livello, la giovane
comincia a dubitare del líder massimo. Da tipico totalitario qual è sempre,
coerentemente, stato, Fidel cancella gran parte della storia nazionale. Dal
1898, guerra d’indipendenza dalla Spagna, al 1956, l’anno in cui Castro
sferra il primo attacco a Fulgencio Batista, l’uomo forte che verrà deposto
tre anni dopo, quel che succede a Cuba finisce tra parentesi. Sessant’anni
eliminati all’ombra della rivoluzione, che depenna persino il passato di
progresso, persino i fatti più innocenti, come i primati. Negli anni
«tagliati», l’isola ebbe i treni prima ancora della Spagna, ma era meglio
non ricordarlo. Oppure ignorare l’esistenza di ben cinque catene televisive
negli anni precedenti l’insurrezione castrista, che ne consentirà e
controllerà rigidamente solo due, e di Stato. Ma è l’incontro con Jorge che
fa diventare Ileana pasionaria senza saperlo. Figlio anche lui di quei
salotti di regime, la ragazza lo accompagna in Angola. Da agente speciale,
Jorge ha l’incarico di rappresentare un’impresa di commercio.
Quattro mesi in Africa per diffondere il verbo castrista, perché bisognava
ovunque e comunque «creare uno, due, tre Vietnam», come diceva Ernesto
Guevara de la Serna, il leggendario Che, argentino di nascita e cubano
d’adozione, esattamente come Ricardo, quel padre di Jorge che Ileana non ha
fatto in tempo a conoscere, se non sulle insegne di scuole, strade e piazze
intestate alla memoria di quel mito scomparso per sempre – neanche il suo
corpo verrà mai più ritrovato – proprio tra le montagne argentine. Ricardo
ed Ernesto erano stati compagni d’università, oltre che compatrioti. Jorge e
Ileana, la coppia che non vacilla, s’abbevera a quella fonte. «La guerra, la
guerra, siamo sempre contro la guerra, ma una volta che l’abbiamo fatta non
possiamo più vivere senza di lei», scriveva Pablo Neruda, insuperato poeta
cileno, rivelando la confessione che aveva appena raccolto dalla viva voce
del Che. Neruda commenta: «L’ascoltavo stupito, perché per me la guerra è
una minaccia, non un destino». Ma i giovani avevano letto anche altro del
mitico comandante, «era la letteratura della nostra scuola», sottolineano
entrambi. «Credo nella lotta armata come unica soluzione per i popoli che
lottano per liberarsi e sono coerente con quello che credo», ecco
l’“ispirazione” del Che, che aggiungeva: «Molti mi diranno avventuriero e lo
sono. Soltanto che lo sono di un tipo differente, di quelli che rischiano la
pellaccia per dimostrare le loro verità». Sembra il ritratto di Ileana e
Jorge, sia pure completamente rovesciato, perché oggi essi mettono in gioco
la loro esistenza contro quella rivoluzione che in altri e archiviati tempi
li aveva inebriati. Ancora una volta era ed è, paradossalmente, il Che il
maestro di vita. «Siate sempre capaci – scriveva Guevara alle figlie poco
prima d’essere catturato e ucciso sulle montagne boliviane – di sentire nel
più profondo qualunque ingiustizia commessa contro chiunque in qualunque
parte del mondo».
È l’ingiustizia contro il padre, dunque, che spinge la donna a muovere il
mondo prima per cercare di impedire e poi per non far dimenticare quella
fucilata tra farsa e tragedia. Nell’anno in cui sarebbe caduto il muro di
Berlino, all’Avana si svolge ancora un dibattimento stalinista, con tanto di
confessione degli accusati, trasmessa “in diretta”, ma raccolta in
differita, cioè preregistrata, perché nessun dettaglio, nessuna sorpresa
“controrivoluzionaria” potesse saltar fuori. «Gli imputati erano colpevoli
in base al copione già scritto e pubblicato in anticipo da Granma, il
giornale del regime», racconta Ileana. «Testualmente si diceva: “Sapremo
lavare in modo esemplare oltraggi come questi”. Fidel incontrava ogni giorno
la pubblica accusa e poi, impudentemente, sosteneva che “non voleva
condizionarla”. Ma era così terrorizzato da questo giudizio, che lo seguiva
personalmente, da dietro uno di quegli specchi che impediscono d’essere
visti. Né voglio ricordare i maltrattamenti subíti da mio padre e da mio zio
in carcere, l’impossibilità di poterli abbracciare, le torture non solo
psicologiche a cui sono stati sottoposti i miei familiari». Dall’altare alla
polvere per i potenti fratelli-gemelli de la Guardia. Restano però gli
amici, a cui Ileana si rivolge nel disperato tentativo di salvare la vita
del padre. «Eravamo molto vicini allo scrittore Gabriel García Márquez, che
a sua volta era intimo di Castro», racconta. «Ci conosceva benissimo. Mio
padre amava dipingere e gli aveva regalato un quadro, che lo scrittore aveva
appeso alla parete della lussuosa residenza di Siboney, messagli a
disposizione da Fidel. A mio padre, “Gabo” aveva dedicato il suo libro Il
generale nel suo labirinto con queste parole: “A Tony, che semina il bene”.
Andammo da lui, all’una di una notte molto triste. Il quadro era sempre al
suo posto e la cosa ci sembrò di buon auspicio. Lo scongiurammo a
intervenire presso Fidel, che non incrociammo per puro caso: era appena
stato a colloquio col comune amico. Ci disse, Gabriel García Márquez, che il
processo l’aveva scosso e che era contrario alle esecuzioni. Ci assicurò che
ne aveva già parlato e che l’avrebbe fatto ancora con Castro. Ci offrì il
caffé. Poi, il giorno dopo partì per Parigi e non l’abbiamo, da allora, mai
più sentito. Venimmo a sapere che in giro per l’Europa lo scrittore era
intento a “spiegare”, quasi nelle veste di ambasciatore ufficioso, il
comportamento tenuto da Fidel Castro. Come se il processo-Ochoa fosse stato
un regolamento di conti tra militari e il líder massimo non avesse potuto
agire diversamente». Dunque, in guerra tra loro anche gli intellettuali. A
differenza dell’autore di Cent’anni di solitudine, coccolo della
“revolución”, il peruviano Mario Vargas Llosa ha da tempo liquidato Castro
con l’amara definizione di “decano dei dittatori”. Ma è il tradimento del
Capo quello che scotta di più. Ileana non si dà pace nel riferire uno degli
ultimi pensieri del padre: com’è possibile che Tony de la Guardia abbia
accettato il giudizio e la fucilazione senza ribellarsi? «Fu ingannato da
Fidel», risponde la pasionaria. «Il governo cubano era coinvolto in
operazioni delicate e non lecite. Castro andò a parlare con papà e gli
chiese che si assumesse la responsabilità di tutto. Altrimenti minacciava di
fucilarlo, e sarebbe diventato il capro espiatorio dello scandalo, perché i
superiori – diceva Fidel – non sarebbero stati tirati in ballo. In cambio di
una confessione piena, avrebbe avuta salva la vita e non ci sarebbero state
conseguenze per il resto della famiglia. Mio padre ha creduto nella sua
parola. Ma lui l’ha mandato al muro. Tony de la Guardia non era affatto un
trafficante di illeciti, era un funzionario del regime. Ha obbedito a ordini
ricevuti. E voglio che sia una Corte con tutte le garanzie di diritto negate
a mio padre, ad accertare finalmente la verità sotto gli occhi del mondo».
Resta poi il risvolto politico dell’intera opera di “pulizia”. Tra quei
militaroni additati a pubblico ludibrio, spiega Jorge Masetti, poteva
nascere la fronda al regime. Con un curriculum “rivoluzionario” di
prim’ordine alle spalle, dal generale Ochoa in giù potevano aspirare in
molti ad aprire un dopo-Castro durante il regno dell’Incontrastabile. Era
tutta gente forte, relativamente indipendente e piuttosto conosciuta nella
cerchia che conta, quella mandata sotto processo. Difficile pensare al
semplice caso nell’isola dove tutto è fatto su misura del Capo supremo.
La combattiva Ileana ha intanto presentato una denuncia al tribunale della
capitale francese contro Fidel in persona, e l’ha fatto nella sua qualità di
«erede di Antonio de la Guardia, fucilato all’Avana il 13 luglio dell’89».
Ileana l’accusa di gravissimi violazioni al codice penale, alle convenzioni
delle Nazioni Unite, alle stesse leggi francesi, alla dichiarazione
universale dei diritti dell’uomo. Castro a Parigi come Pinochet a Londra,
ecco il tentativo dichiarato dell’esile, ma irriducibile donna che non
dimentica. Sta consultando l’intero carteggio legale che per più di un anno
ha inchiodato l’ex dittatore cileno in Gran Bretagna per rispondere di reati
a lui attribuiti in patria dalla magistratura spagnola. Strada tortuosissima
sotto il profilo del diritto, che negherebbe il principio elementare e
universale del “giudice naturale”, ma che Ileana spera ora di percorrere per
contestare a Fidel le disumane violazioni nell’isola. Per ora i giudici
francesi interpellati hanno respinto il ricorso, non nel merito, ma nella
procedura: lo considerano non ammissibile, perché dovrebbe essere il
danneggiato del supposto illecito a fare la denuncia. «Ma io sono rimasta
senza padre per colpa di un processo illegale, che cosa c’è di più dannoso
di questo?», s’infervora Ileana, in attesa della pronuncia delle ultime e
forse più competenti, e comprensive, istanze parigine. Lei, nel frattempo,
promuove appelli, segue il marito nelle conferenze di presentazione del
libro autobiografico, raccoglie firme di parlamentari d’ogni paese europeo
per costringere il dittatore rosso, dal sempre più grigio destino, a
rispettare le dichiarazioni “democratiche” da lui firmate (l’ultima è quella
di Viña del Mar, di tre anni fa, in cui Castro s’impegnava ad affermare lo
Stato di diritto, il pluralismo politico, i diritti umani e via irridendo).
E sì che la coppia più ricercata del mondo da parte della polizia castrista,
s’era sposata sotto un grande ritratto del Che, «quasi a voler suggellare,
nonostante i dubbi, il compromesso di continuare a lottare per la
rivoluzione».
Non che all’ex ragazzo mancassero le credenziali necessarie. Aveva
partecipato a tutte le più spericolate azioni “contro la controrivoluzione”.
Ha assaltato banche a Buenos Aires per poter finanziare la guerriglia, ha
combattutto in Nicaragua per abbattare Tacho Somoza, il padre-padrone, e
doveva partecipare – ma si tolse all’ultimo minuto – all’attentato che a
colpi di bazooka costerà la vita al dittatore nicaraguense nel frattempo
rifugiatosi ad Asunción, in Paraguay. Per tre mesi Jorge Masetti prese parte
ai preparativi del controspionaggio cubano messi in pratica a Santiago
contro l’allora governante Augusto Pinochet: «Dovevamo attaccare la
residenza della Moneda anche per vendicare simbolicamente il bombardamento
del ’73 fatto dall’aviazione cilena contro Salvador Allende. Desistemmo solo
per il rischio altissimo di vittime civili, che la nostra azione, secondo
precisi calcoli, avrebbe comportato».
Oggi si ritrovano i figli dei due simboli della rivoluzione cubana. L’uno,
Ricardo Masetti, lontana origine bolognese, riposa da qualche parte tra le
nevi della Cordigliera, venerato come un eroe; l’altro, Tony de la Guardia,
è stato sepolto da un processo che l’ha giudicato come un traditore della
patria. Ileana, 35 anni, sta in mezzo a due storie ben più pesanti delle sue
spalle, che pure non sono fragili. La pasionaria vive tra l’immacolato
ricordo del suocero e la memoria sfregiata del padre, che vuole riabilitare.
Tutte le strade dei suoi sogni passano dall’Avana. Tra ricordo e memoria c’è
lo stesso obiettivo: Fidel Castro.
(c)
Ideazione.com (2006)
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