Vincitori e vinti
L'OCCIDENTE
SENZA PIU' IL NEMICO

di Giovanni Orsina

Il giorno in cui cadde il Muro mi trovavo a Londra. L’indomani mattina, uscendo dalla stazione di Holborn, avvistai l’amico con il quale mi dovevo incontrare, e, trionfante, gli mostrai da lontano il giornale che annunciava l’evento straordinario. Giuntogli più vicino, quell’amico – meno giovane di me e diversamente esperto delle regole della politica – mi disse: «Bada, che in questo mondo il Muro era un elemento di stabilità». A me, che avevo poco più di vent’anni, lì per lì quelle parole sembrarono fin troppo ciniche, e alquanto inopportune. L’episodio però non l’ho dimenticato, e da allora, di tanto in tanto, sono tornato a rifletterci su. A distanza di un decennio mi chiedo di nuovo: c’era davvero di che essere contenti in quel 1989? Oppure la caduta del muro di Berlino ha creato più problemi di quanti non ne abbia risolti? Dare a questi interrogativi delle risposte esaurienti, ne sono consapevole, è probabilmente impossibile. Sia perché fenomeni di tale straordinaria complessità  possono essere valutati in maniere molto differenti, e anche completamente opposte, a seconda del punto dal quale li si osserva; sia perché i processi storici ai quali il 1989 ha dato inizio sono ancora ben lontani dall’essersi conclusi. Oggi, tuttavia, abbiamo elementi di giudizio sufficienti per poter almeno cominciare a ragionare su quale sia stato il significato della “vittoria” occidentale, e quale, invece, quello della “sconfitta” comunista.

Non vi è dubbio che, con la fine del comunismo, il sistema istituzionale liberaldemocratico – insieme alla sua gemella siamese, l’economia capitalistica – sia rimasto l’unico fondato, per dirla con Guglielmo Ferrero, su un «principio di legittimità» vivo e vitale, ossia su un insieme di valori e di pratiche profondamente condivisi dai governati, e capaci perciò di dare al potere pubblico fondamenta solide e stabili nel tempo – tanto da permettergli di sopravvivere anche a eventuali insuccessi o fallimenti. Con il 1989 si è conclusa la lunga crisi che, iniziata parecchi decenni addietro, stava dimostrando con sempre maggiore chiarezza quanto poco utilizzabile fosse l’unico «principio di legittimità» alternativo rimasto: quello rivoluzionario. Il terzo, grande principio che, proveniente dall’età moderna, è riuscito ad avere un peso anche nell’età contemporanea, il principio ereditario di Antico Regime, è stato affossato in via definitiva già ottant’anni fa, dalla Grande Guerra. Il primo conflitto mondiale, allo stesso tempo, ha rilanciato – a sinistra, ma anche a destra – l’alternativa rivoluzionaria: l’alternativa di un regime che trova la propria ragion d’essere nel movimento continuo, nell’inanellare un’iniziativa dietro l’altra, nel combattere un’ininterrotta collana di battaglie contro un’altrettanto inesauribile teoria di avversari, nella perenne tensione verso la palingenesi del genere umano. A destra, la stagione della legittimità rivoluzionaria fondata sulla nazione o sulla razza, benché tutt’altro che indolore, è stata piuttosto breve: già nel 1945 la storia ha dichiarato intollerabile il sacrificio umano necessario ad alimentarla. A sinistra, radicata nell’idea di classe, la rivoluzione è invece riuscita a sopravvivere ancora per qualche lustro – anche se la sua nazione-madre, l’Unione Sovietica, stremata dal salasso immenso ch’essa richiedeva, ha ben presto finito per ripiegare su un modello costruito sulla stagnazione, e non sul movimento. Il 1989, dicevamo, ha segnato – almeno per il momento – la scomparsa del principio rivoluzionario. E, se anche possiamo rattristarci del fatto che l’umanità sia incapace di palingenesi, mi sembra tuttavia positivo che essa ne sia diventata consapevole.

Il collasso del contraltare rivoluzionario alla legittimità liberaldemocratica, d’altra parte, non ha inaugurato l’era del “pensiero unico” né, tanto meno, ha annunciato la “fine della storia”. Dopo il 1989, semmai, il mondo è diventato un posto più interessante, più dinamico e più difficile da gestire, perché più complesso e meno strutturato – e, di conseguenza, si è mantenuto assai articolato anche l’insieme delle ideologie che quel mondo cercano di interpretare e spiegare. Benché l’assetto politico ed economico dell’Occidente sia rimasto privo di alternative teoriche, ciò non ha affatto implicato la sparizione delle correnti culturali anche fortemente critiche nei suoi confronti. Già negli anni Quaranta Joseph Schumpeter aveva capito a perfezione, e magistralmente spiegato, come il capitalismo sia fatalmente destinato a generare esso stesso i propri avversari intellettuali. Certo, proprio perché scriveva negli anni Quaranta, Schumpeter identificava l’avversario soprattutto in quel comunismo del quale stiamo adesso celebrando le esequie. Eppure, il meccanismo di auto-delegittimazione intrinseco al capitalismo che egli aveva individuato non ha smesso di funzionare, ha solamente trovato percorsi critici differenti. E basti pensare agli itinerari culturali raccolti, con parecchia approssimazione, sotto l’etichetta del “post-modernismo”, che lavorano a “decostruire” i frutti migliori dello sforzo intellettuale dell’Occidente: a denunciarne la relatività dei presupposti, la parzialità dei punti di vista, e in ultima analisi il legame inscindibile con l’assetto di potere dominante – legame nel sostenerlo, o anche nel contestarlo. Il bersaglio polemico non è più, o non è più soltanto, il grasso capitano d’industria, com’era per i marxisti: può essere l’uomo bianco, o il maschio, oppure il detentore dell’autorità politica. Non importa – così come non importa, almeno in questa sede, se, quanto e in che cosa queste correnti culturali debbano essere accolte o respinte: importa però che il mondo liberaldemocratico continui a dimostrarsi in grado di generare, esso stesso, i propri detrattori.

Del resto, la tradizione ideologica liberale – così come qualsiasi altra ideologia – è tutt’altro che monolitica: è un insieme ricchissimo e confuso di concetti e teorie affastellati l’uno sull’altro, talvolta scarsamente o per nulla compatibili l’uno con l’altro, all’interno del quale è logicamente possibile disegnare, e sono stati storicamente disegnati, innumerevoli differenti percorsi interpretativi. Non si capirebbe altrimenti come abbiano potuto definirsi liberali così numerosi personaggi e così diversi, e perché l’Italia degli anni Novanta abbia assistito a una battaglia culturale tanto aspra su che cosa sia il “vero” liberalismo. Di spazio per discutere e per dissentire, insomma, per dare dello stesso fenomeno letture diametralmente opposte, e per proporre soluzioni politiche radicalmente differenti, anche dopo il 1989 ce n’è rimasto quanto se ne vuole. Certo, tutte queste correnti ideologiche tendono oggi a gravitare intorno a un “nocciolo duro” condiviso, fatto di istituzioni democratiche, pluralismo, libertà civili, e di un miscuglio in parti variabili di economia capitalistica e diritti sociali. Forse, è guardando a questo “nocciolo duro” che si può parlare di “pensiero unico”. In questo caso, d’altra parte, si tratta di un’uniformità di convinzioni della quale, personalmente almeno, sarei più propenso a rallegrarmi che a lamentarmi.

Se dal piano delle ideologie scivoliamo su quello della vicenda storica concreta, la situazione diviene senz’altro ancora più complicata. Con il 1989, infatti, il “principio di legittimità” liberaldemocratico ha raggiunto una posizione di monopolio teorico. Non ne discende affatto, però, che l’intero mondo debba allora, per via automatica e senza alcuna difficoltà, adeguarvisi nella pratica. E’ certamente da condividere l’affermazione dello storico John Lewis Gaddis, secondo il quale il crollo del comunismo, nelle sue modalità, ha dimostrato quanto siano importanti le idee. Altrettanto indubbiamente, però, il decennio successivo al 1989 ha visto la realtà prendersi la propria rivincita. Del resto, per capire quanto sia difficile passare dall’opposizione intellettuale nei confronti di un modello storico alla costruzione effettiva di un modello alternativo, basterebbe leggere le belle pagine che Predrag Matvejevic ha dedicato ai dissidenti dell’Europa orientale: persone abituate a muoversi esclusivamente su di un piano astratto, la cui identità era costruita “in negativo”, sulla base di quel che non volevano; persone che con la fine del comunismo hanno perduto il proprio punto d’appoggio principale, e che vinta la battaglia hanno perciò incontrato enormi difficoltà a capire che cosa dovessero farne, della loro vittoria, e a riconvertirsi da profeti perseguitati in quotidiani amministratori dei loro popoli. Per qualche tempo, l’euforia del 1989 ci ha fatto dimenticare quanto sofferti e difficili siano stati l’emergere e lo svilupparsi del “modello occidentale”, e quanti problemi, talvolta insormontabili, siano nati dai ripetuti tentativi di esportarlo in nazioni scarsamente o per nulla predisposte ad accoglierlo, fra le quali, per altro, andrebbe annoverata anche l’Italia. In un paese come la Russia, poi, caratterizzato per tradizione da una concezione assai poco anglosassone del potere, e reduce da ottant’anni di socialismo tanto reale da azzerare integralmente i capisaldi strutturali e psicologici della società civile, il caos di quest’ultimo decennio era senz’altro inevitabile. E’ relativamente irrilevante, in conclusione, che i regimi non liberaldemocratici vivano oggi nei fatti, ma siano privi di una legittimazione stabile: i regimi “di fatto” possono durare anche per decenni – salvo poi, quasi senza alcun preavviso, collassare.

Dotato di una straordinaria capacità di semplificare la varietà della vita politica, per decenni il comunismo ha soffocato, o almeno minimizzato, le passioni e gli interessi che non potevano essere ricompresi all’interno dei suoi schemi. La linea di frattura che ha diviso in due il mondo ha sovrastato le mille altre divisioni possibili, rendendole irrilevanti o scarsamente rilevanti. Così che, quando infine il muro di Berlino è crollato, è sembrato che si stesse davvero entrando in una nuova epoca, e che il 1989 chiudesse infine quel “breve” ventesimo secolo al quale la Grande Guerra aveva dato inizio. In realtà, non poche delle questioni che hanno caratterizzato il Novecento, e che sembravano o scomparse, oppure divenute insignificanti, erano soltanto “addormentate” sotto il peso del comunismo, e sono riemerse con la sua sparizione. Il caso più eclatante, ovviamente, è quello delle identità territoriali – nazionali, locali, etniche – per decenni subordinate alle identità di classe e alla conseguente “scelta di campo” fra socialismo e capitalismo. Che la crisi del comunismo facesse riemergere l’altra grande passione collettiva del nostro secolo, il nazionalismo, era del resto prevedibile: sia perché il diffuso bisogno di appartenenza deve in qualche modo essere soddisfatto, sia perché nei paesi ex comunisti si è riaperta la lotta per il potere, e le forze in campo hanno subito individuato nelle identità etniche o nazionali una risorsa politica di prim’ordine. Non solo non siamo usciti dal Novecento; per certi versi, e sia pure con enormi differenze, sembriamo essere tornati al suo punto di partenza: ci troviamo ancora una volta, come alla vigilia della Grande Guerra, ad affrontare la questione balcanica, e a trattare con una Russia che si schiera con la Serbia in nome della loro comune slavità; mentre c’è chi – con un eccesso, forse, di inquietudine – ritiene che con il consolidarsi dell’Unione Europea la Germania abbia infine raggiunto quella posizione di egemonia continentale che due guerre mondiali le avevano negato.

Questa essendo la situazione attuale, questa la complessità, storica e concettuale del mondo di fine millennio, non può sorprendere più di tanto che l’inumazione delle spoglie del comunismo si stia rivelando un processo lungo e difficoltoso. Non molto meno di quella liberale, la tradizione ideologica comunista è oltremodo articolata e diversificata: avendo attraversato un secolo e mezzo, essendo emigrata ovunque nel mondo, ha avuto modo di trasformarsi, di acquisire caratteri nuovi, di mutare il proprio appello a seconda delle circostanze, di generare solidi universi mentali e riflessi persistenti. Essendosi sempre appoggiata pesantemente sul mito sovietico, il collasso dell’Urss le ha dato un colpo certo violentissimo, forse mortale. Era inevitabile, però, che idee e valori che le sono appartenuti, atteggiamenti che l’hanno caratterizzata, strumenti concettuali provenienti dal suo bagaglio, o addirittura suoi interi e pesanti blocchi ideologici fossero destinati a sopravviverle. Basti pensare a quanto numerosi e diversi siano stati, dalla nascita della Repubblica a oggi, i volti che ha presentato il comunismo italiano: dallo stalinismo ortodosso alla democrazia progressiva, dalla “via italiana al socialismo” all’eurocomunismo. Moltissimi dei legati che formano questa eredità hanno superato indenni il 1989. Allo stesso modo, era inevitabile che, almeno in parte, il personale politico comunista riuscisse a rimanere sulla scena politica. Un po’ perché, in Occidente, già da tempo aveva tagliato o era sembrato tagliare i ponti con il “socialismo reale”; un po’ perché, nei paesi del Patto di Varsavia, semplicemente non esisteva una classe politica alternativa al regime; un po’ perché il gattopardismo non è un fenomeno soltanto italiano; un po’ perché la transizione degli anni Novanta ha comportato dei costi elevatissimi, tali da spingere molti a concludere che, in fondo, «si stava meglio quando di stava peggio» e a rivolgersi dunque di nuovo agli antichi governanti.

Per tutte queste ragioni, dopo il 1989 l’anticomunismo non ha certo perduto di senso. Eppure, adesso non si può essere anticomunisti come lo si era nei decenni passati. Il comunismo, nel suo insieme, è ormai delegittimato; e proprio perciò non può più legittimare, a contrario, le forze politiche che gli si oppongono. Prima del 1989 – ma anche allora, col trascorrere degli anni, sempre di meno l’opposizione al modello sovietico riusciva da sola a fare la fortuna di un partito. A questo si affidava, in Italia, la Democrazia cristiana, e anche per questo, crollato il muro al quale era appoggiata, si è rovinosamente disintegrata. Certo, costruire oggi una campagna elettorale sulla denuncia dei crimini comunisti potrebbe apparire un’operazione maramaldesca, e proprio in quanto tale sarebbe politicamente inopportuna. Piuttosto, sul terreno della lotta politica concreta, bisognerebbe cercare di sbarazzarsi dei numerosi e consistenti detriti che il comunismo ha lasciato dietro di sé: prima di ogni altra cosa, forse, quella concezione fideistica dell’appartenenza che spinge i politici a occupare senza scrupoli ogni spazio disponibile, gli intellettuali a tradire la propria missione, e tutti a fare del bene della propria parte una priorità indiscutibile e indiscussa, alla quale qualsiasi altra considerazione dev’essere sacrificata. Allo stesso tempo, sul terreno della cultura, ai liberali rimane parecchio lavoro da fare nell’esaminare, correggere o rifiutare la strumentazione concettuale marxista e il patrimonio di interpretazioni ch’essa ha generato. Ed è su questo piano, quello culturale, che si può avere ancora a che fare con il comunismo così come esso era prima del 1989: nella valutazione storica che se ne deve dare, e che resta a tutt’oggi materia di accesi dibattiti. Ma di valutazione storica, appunto, si tratta: gravida certo di significati politici, ma su di un altro livello rispetto al quotidiano scontro per il potere.

Giovanni Orsina


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1999