Editoriale
INTRODUZIONE
di Domenico Mennitti

Quando si chiude un capitolo di storia c’è sempre un fatto che assume valore simbolico. Così la caduta del muro di Berlino, avvenuta nel novembre dell’89, è l’evento-simbolo sul quale la memoria collettiva colloca la fine del lunghissimo dopoguerra e l’inizio di una svolta epocale. All’immagine della folla che travolge l’odioso confine, segue senza soluzione di continuità quella del varco aperto sul mondo occidentale: l’esultanza per la caduta dei vecchi miti trova ragione nella certezza che sulla libertà conquistata si possa subito edificare un modello nuovo di civiltà e di sviluppo. Progettando questo numero monografico a distanza di dieci anni dall’evento, Ideazione intende compiere un approfondimento sulle cause che lo determinarono, ma ancor più sugli effetti che esso ha provocato e promette di provocare nel mondo, avendo tutti noi consapevolezza di valutare una frattura storica, non un episodio pur di grande portata. Alla base di questo contributo, che si avvale della partecipazione di intellettuali e politici di diversa formazione e appartenenza, c’è la convinzione che, con la caduta del Muro ed il crollo dei regimi ispirati al marxismo, si è conclusa l’era bisecolare dell’onnipotenza della politica, utopia della quale soprattutto il comunismo è stato portatore nel secolo che sta per chiudersi. Finito il sogno (o l’incubo) ideologico giacobino, cioè l’illusione che l’intera società possa essere ricostruita razionalmente per via politica generando una specie di paradiso in terra, la realtà è tornata a trionfare. Ma la «rivincita della realtà», come la definisce Baget Bozzo nell’articolo che introduce la prima sezione, non ha aperto solo nuovi scenari geopolitici, ha posto anche l’esigenza di disporre di nuove chiavi d’interpretazione culturale.

Riferendosi agli avvenimenti dell’89, Joachim Fest ha scritto che «è nella natura delle fratture storiche che esse non solo modifichino la situazione generale, ma scompiglino anche i modelli concettuali e le categorie utili a comprendere gli avvenimenti in atto». Assume perciò autenticamente la connotazione di frattura storica quella determinata e simboleggiata dalla caduta del muro di Berlino, tanto che da allora si è cominciato ad interpretare gli avvenimenti del Novecento a seconda che si collochino prima o dopo tale evento. Da allora ha avuto fortuna il termine “transizione”, utilizzato per indicare sia il passaggio delle società dell’Est al mercato ed alla democrazia che la riorganizzazione delle società occidentali, non più obbligate a strutturarsi in reazione al comunismo. Il crollo del Muro, infatti, si è trascinato dietro tutto quel complesso mondo che ancora si riesce ad individuare bene chiamandolo “di sinistra”; con la sua cultura, i suoi miti, le sue strategie. Il comunismo si è lasciato alle spalle settanta anni di macerie, di sangue, di miseria, di sogni falliti che, nel loro insieme, hanno connotato il Novecento come il secolo delle rivoluzioni, del totalitarismo, della grande illusione. Esplicativi in questo senso sono i contributi di storici come Eric J. Hobsbawm con la sua teoria del “secolo breve” o Ernst Nolte con l’analisi della “guerra civile europea”. François Furet, dal canto suo, ha collegato la tragedia del nostro secolo proprio alla storia del comunismo, definendolo «il passato di un’illusione».

C’è chi sostiene (anche sulle pagine che seguono) che dare per scontata la fine del comunismo sia una grave imprudenza. A parte però alcuni casi di fortunato trasformismo, che tuttavia non sembra possano avere il respiro lungo, la sua uscita dalla scena mondiale è un dato di fatto. La stessa constatazione che, per sopravvivere, il comunismo sia costretto a mimetizzarsi testimonia la irrecuperabile perdita di dignità, l’impossibilità che possa costituirsi ancora. E la sua caduta sta imponendo la ridefinizione del modello occidentale, per troppo tempo aduso ad identificarsi per antitesi. La “ritirata” del comunismo sta imponendo una fase nuova alle liberaldemocrazie, perché le loro strategie erano condizionate dal nemico ideologico, politico, economico e militare che hanno dovuto fronteggiare per oltre mezzo secolo. Nel quadro della guerra fredda infatti si collocano iniziative come il Piano Marshall, la Comunità Europea e la Nato. Anche le teorie dell’economia sociale di mercato e dello Stato sociale furono elaborate da personaggi come Erhard, De Gaulle e Churchill, attenti a dotarsi di armi efficaci per contenere il fascino delle velleità rivoluzionarie e millenaristiche del comunismo. E’ stata così condizionante la cultura della contrapposizione che proprio nell’89, prima della caduta del Muro, un politologo nippo-americano, Francis Fukuyama (che partecipa alla nostra analisi con una interessante intervista), colto da eccessivo ottimismo, teorizzò una inevitabile “fine della storia”, ipotizzando una ricomposizione pacifica del mondo dentro i modelli economici e politici del mercato e della liberaldemocrazia. In verità, dopo la guerra fredda, il mondo ha continuato ad essere scosso da avvenimenti che hanno smentito questa previsione. Finito il bipolarismo Usa-Urss, sono tornate ad agitare la scena le guerre regionali, a partire da quella del Golfo; l’antagonismo comunista è stato presto sostituito da integralismi e populismi inediti; il dramma delle migrazioni dei popoli è esploso con modalità e forza clamorose; le stesse democrazie occidentali si sono dovute misurare con processi che l’ipertrofia ideologica della politica aveva tenuto ai margini. Insomma la storia ed il conflitto non si sono esauriti, semmai hanno subìto trasformazioni, si vanno ancora ridefinendo.

Si potrebbe piuttosto sostenere che la storia è ricominciata sulla spinta del grande evento. E questo compresero i paesi più immediatamente investiti dagli effetti della caduta del Muro. In primo luogo la Germania governata dal cancelliere Kohl, il quale si rese subito conto che bisognava darsi obiettivi concreti e ben scadenzati nel tempo per realizzare l’operazione di riconquista liberale e democratica di quella parte d’Europa che aveva subìto il dominio comunista e si ritrovava improvvisamente restituita alla libertà economica oltre che politica. Diritti difficili da conquistare, ma pure da esercitare in assenza delle necessarie condizioni. La scelta fu di imprimere una vigorosa accelerazione al processo di unificazione politica ed economica dell’Europa. Il fenomeno ha prodotto effetti in tutto il mondo, non solo nel senso che ha imposto di ridisegnare la geografia sulla base dei cambiamenti dei regimi (scenari ai quali dedichiamo adeguata attenzione), ma anche perché va prendendo la forma del veicolo che ci sta conducendo fuori dal Novecento per introdurci nelle grandi trasformazioni delle moderne società complesse, nelle quali i primati non sono più politici nell’accezione cui siamo abituati. La “rivincita della realtà”, per tornare all’origine del ragionamento, esige che persino il termine “democrazia” non sia un concetto mistico onnicomprensivo, ma esprima il significato storico della forma democratica di governo. Vale citare ancora Joachim Fest: «Tutte le aurore, tutti i soli dell’avvenire, tutte le nuove giornate mondiali, che per tanto tempo erano sorti nelle miserie del presente, sono finiti tra gli scarti come metafore antiquate. (…) Stanchi dei grandiosi mondi di sogno, gli uomini cercano di riconquistare nelle strade una cosa molto semplice ed elementare: una cosa che si trova al di qua di tutti i progetti ideali e che era venuta a mancare alle fantasie sul futuro alimentate negli ultimi due o trecento anni. Quel che si leggeva sugli striscioni portati nelle strade dell’Europa centrale e orientale esprimeva ogni volta, a suo modo, il bisogno urgente di uscire finalmente dall’ombra gettata sull’epoca dalle ideologie, l’esigenza di vivere la vita in quella bella, integrale normalità per la quale non c’è compenso». Ma il trionfo della realtà sull’utopia e sulla ideologia non è operazione senza costi: politici, economici, sociali e culturali.

In Italia gli effetti si sono manifestati con notevole ritardo. Ancora all’inizio di questo decennio nei palazzi del potere si sosteneva con ironia, ma anche con compiaciuta ostentazione, che c’era un muro idealmente eretto dal regime nazionale che mostrava maggiore consistenza rispetto a quello crollato a Berlino. In verità molti sono stati i fattori di resistenza collegati non solo all’ovvia constatazione della forza elettorale del Pci, il più consistente e radicato dei partiti comunisti che operavano sul territorio europeo. Dopo la contrapposizione dei primi anni successivi alla guerra che indusse De Gasperi a estrometterlo dalla maggioranza e dal governo, il Pci aveva intrapreso con pazienza e tenacia la strada del recupero dall’isolamento. E strinse accordi soprattutto con quella parte dei dirigenti cattolici più inclini ad interpretare la solidarietà come un principio da realizzare aggrappandosi prevalentemente all’intervento pubblico. Sul processo di degenerazione dello Stato sociale nel nostro Paese, l’influenza di questa parte del mondo cattolico non è stata inferiore a quella esercitata dai comunisti stessi e la persistente presenza di innumerevoli sacche di socialismo reale ha saldato un patto che resiste, sostenuto dalla specificità italiana del rapporto Stato-economia. Patto che ha funzionato in molti delicati settori della vita del Paese, dove l’azione di proselitismo comunista, agevolata dalla resa incondizionata di chi avrebbe dovuto arginarla, ha aggregato consensi e acquisito potere: dalla gestione della cultura a quella della giustizia, i due pilastri sui quali ancora fa affidamento la tentazione egemonica della sinistra. I comunisti italiani inoltre hanno beneficiato di almeno due condizioni favorevoli, grazie alle quali hanno potuto svolgere un’importante funzione di protagonismo politico, addirittura assumendo il ruolo di elemento centrale del nuovo processo di aggregazione, proprio nel momento in cui avrebbero dovuto fare i conti con la loro storia e dichiarare il fallimento dei loro progetti. La prima condizione può essere considerata un premio alla capacità manifestata dalla classe dirigente di anticipare gli eventi, imprimendo precipitosamente la mutazione genetica che ha consentito loro di accreditarsi con rapidità come post-comunisti, d’essere ammessi all’Internazionale Socialista senza offrire altra prova che la parziale modifica del simbolo, nel quale comunque campeggiano gli arnesi della vecchia ideologia. La seconda può invece essere considerata una vera e propria facilitazione, ricevuta in dono dalla magistratura che, scesa nel campo della politica seguendo i percorsi della giustizia penale per colpire la diffusissima corruzione, edificò una vera e propria cintura sanitaria intorno al Pci, mantenendolo estraneo alla resa dei conti, e che falcidiò invece le formazioni di governo – Dc e Psi in particolare – con le quali negli ultimi vent’anni il maggior partito dell’opposizione aveva costituito il regime consociativo e condiviso le responsabilità della gestione. Il “vento dell’89”, a parte analisi anche originali rimaste però nell’ambito dell’esercitazione culturale, in Italia cominciò a spirare tre anni dopo, quando si celebrarono le consultazioni generali politiche nella primavera del 1992. Basta riconsiderare quei risultati per comprendere quel che allora molti non capirono: che la crisi del nostro sistema era ormai irreversibile, che i vecchi equilibri erano irrimediabilmente compromessi e che la paralisi della politica avrebbe provocato interventi esterni. Fu come se dai varchi del Muro fosse uscita prorompente una forte domanda di libertà. Nessuno aveva immaginato che la sciatta e gratuita possibilità di esprimerci, della quale usufruivamo senza freni, fosse condizione insufficiente per sentirci autenticamente liberi. La ricerca del significato della libertà fu all’improvviso corale e partecipata, quasi stessimo scoprendo allora che – con tante piccole complici viltà – ognuno di noi aveva consentito che si costruisse in nome di una democrazia mai verificata un sistema politico, economico, sociale, culturale, che traeva forza dall’opprimente ragnatela di lacci, di ricatti, di condizionamenti, di limitazioni, ch’era stata tessuta sulle nostre teste. Tutto sotto controllo: politica, economia, cultura, addirittura tempo libero. Non abbiamo l’intento di criminalizzare in blocco la nostra storia recente, ma deve essere chiaro che Tangentopoli fu l’effetto, non la causa della fine della Prima Repubblica.

I referendum elettorali, il bipolarismo, la nascita di Forza Italia, il superamento della conventio ad excludendum, il successo del Polo, il ribaltone imposto al governo Berlusconi, la stagione dell’Ulivo, l’avvento del primo ex comunista a Palazzo Chigi, il fallimento delle riforme, l’elezione del nuovo capo dello Stato, gli esiti delle consultazioni europee, la fine del mito della buona amministrazione in città-simbolo della sinistra dove è cambiato il colore del governo: sono le tappe dell’impervio percorso del cambiamento italiano. Le indichiamo rapidamente perché esse hanno scandito il tempo del secondo lustro del decennio che stiamo esaminando, che coincide con il tempo del nostro impegno editoriale. Sono vicende che abbiamo vissuto sotto il segno di un “inebriante inizio” e che successivamente abbiamo visto invischiate nel pantano politico. Ma si deve pur sottolineare che in Italia la caduta del Muro sta producendo effetti con l’onda lunga, perché il primo impatto è stato attutito da specificità nazionali, in particolare dalla lunga intesa fra cattolici e comunisti, che è stata operante dalla stesura della Costituzione ed ha condizionato l’intero processo politico della Prima Repubblica. Merita attenzione la preoccupazione di Chiarini, il quale nella analisi che pubblichiamo segnala il rischio che per giustificare i pesanti ritardi ci si accomodi «a riclassificare il decennio nella sottospecie della transizione»; bisogna però considerare che, sulla spinta dei fenomeni scaturiti dall’evento Muro (fine dello Stato-nazione, mondializzazione dell’economia, flussi migratori, unificazione europea), soltanto oggi in Italia, dopo un decennio di cambiamenti anche clamorosi – quali la scomparsa dei partiti tradizionali e la decapitazione di gran parte dei loro dirigenti –, le conseguenze si stanno traducendo in realtà politiche ed istituzionali. Le consultazioni europee ed amministrative celebrate in primavera hanno obiettivamente un significato diverso rispetto alle analoghe elezioni precedenti, perché hanno portato in evidenza fenomeni che conferiscono una prospettiva nuova all’evoluzione politica del Paese: il radicamento di Forza Italia come movimento dei moderati italiani, la disfatta dei nostalgici del vecchio centrismo, la crisi di identità e di strategia della sinistra, il recupero da parte dei radicali di una fascia della protesta soprattutto giovanile. Può apparire una osservazione non pertinente, ma a noi sembra di grande significato il fatto che Il libro nero del comunismo sia stato il più grosso successo editoriale degli ultimi anni. Così la maggior casa editrice del Paese potrà valutare che non è importante solo pubblicare i libri di D’Alema.

In dieci anni il liberalismo è riuscito ad incarnarsi e radicarsi nelle attese e nelle dinamiche nazionali delle varie società europee, trasformandosi da prospettiva ideale e orientamento economico in prassi politica rappresentativa dei nuovi ceti medi, dei nuovi soggetti sociali scaturiti dalle trasformazioni economiche, degli individui, dei gruppi e delle famiglie che vivono la realtà contemporanea. Ora è chiamato a compiere una operazione di sintesi tra popolarismo liberale, liberal-democrazia e liberal-conservatorismo come alternativa europea alla social-democrazia. E’ la prospettiva dell’Europa dei moderati, che può archiviare il Novecento e segnare il trionfo finale della realtà sull’utopia e sull’ideologia.

Domenico Mennitti


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1999