Il vento dell'89
UN VENTO
CHE SOFFIA ANCORA
di Stefano Folli

Lo storico del futuro, che vorrà interrogarsi sugli eventi dell’89 e sul decennio che ne è seguìto, non potrà fare a meno di domandarsi chi siano i soggetti che hanno contribuito a innescare il fenomeno; e viceversa chi sia che ha subìto passivamente il corso delle cose, non capendole o frenandole quando ne ha avuto l’occasione. Lo storico di domani tenterà allora di studiare la politica di Ronald Reagan e le “guerre stellari”, per comprendere fino a che punto abbiano dato il colpo di grazia al tronco marcio dell’Unione Sovietica. Oppure analizzerà il pontificato di Giovanni Paolo II per verificare se non sia piuttosto questo il fattore scatenante, un cuneo che fa saltare per primo il coperchio della Polonia e via via si allarga nel resto dell’Est europeo come un fermento vitale. O ancora si chiederà, il nostro storico, se all’origine dell’89 non ci sia piuttosto la spinta alla globalizzazione dell’economia, manifesta nella sua fase embrionale già alla fine degli anni Settanta. Spinta che non era solo mercantile, s’intende, ma era sostenuta in Occidente dal nuovo accento posto sulle questioni dei diritti umani. Come sa bene chi ricorda il duro confronto Est-Ovest che accompagnò la conferenza di Helsinki, nonché la predicazione politica di Brzezinski negli anni della presidenza Carter.

La risposta, è logico, consisterà in una miscela di tutti questi fattori e altri ancora. Ma un punto sarà chiaro. Il martello che ha abbattuto il Muro è stato manovrato dagli Stati Uniti, o magari dalla Città del Vaticano. Il ruolo dell’Europa, cioè dei singoli paesi non meno che dell’istituzione comunitaria, è stato modesto: con la sola e rilevante eccezione della Gran Bretagna della signora Thatcher, la più strenua sostenitrice di Reagan al di qua dell’Atlantico. Per il resto l’Europa è parsa preoccuparsi soprattutto di come garantire la stabilità del continente. Un assetto stabile e, di conseguenza, ordinato. Tale obiettivo politico all’insegna, diciamo così, del conservatorismo, ogni cancelleria l’ha interpretato alla sua maniera, ma in sostanza tutti l’hanno condiviso. Compresi i migliori esponenti della generazione a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta: a cominciare dal tedesco Schmidt e, almeno nei primi anni di governo, dal suo successore Kohl (fermo restando che nel programma dei democristiani tedeschi il tema della riunificazione era una bandiera, sia pure sventolata più per dovere che per convinzione).

L’89 è invece la vittoria della destabilizzazione contro la stabilità. Degli innovatori contro i conservatori. Della creatività politica contro la fedeltà ai valori consolidati, in forme anche imprevedibili. Nel periodo che precede il crollo del muro di Berlino, le categorie dei conservatori e degli innovatori non obbediscono più ad alcuna regola tradizionale. In Europa i più rigidi difensori dello status quo, a vantaggio oggettivo del traballante sistema sovietico, si contano nel campo delle sinistre. Non solo in quella che ancora si definisce comunista, ma nella vasta famiglia socialdemocratica: basti ricordare le polemiche che squassano l’Spd negli anni di Schmidt e il ruolo scopertamente favorevole all’Est svolto dagli “jusos”, i giovani. Uno dei loro leader di allora è oggi cancelliere della Germania unificata e da poco ha compiuto il trasferimento della capitale federale da Bonn a Berlino: a riprova di quanta acqua è passata sotto i ponti nel decennio conclusivo del secolo.

Nell’accampamento degli innovatori e dei destabilizzatori non possiamo certo annoverare la grande maggioranza degli intellettuali. Sulla scena europea troppi di loro si sono posti sulla difensiva, in un riflesso di tipica pigrizia. Hanno guardato con diffidenza ai primi passi del Papa polacco, bollato – chissà perché – come “reazionario”. Hanno contrastato senza risparmio l’ipotesi reaganiana dello scudo spaziale, senza intuire che si trattava di un “bluff” tecnologico dietro il quale, come in una planetaria partita di poker, si nascondeva uno scopo politico di sorprendente lungimiranza. In generale gli intellettuali si sono battuti, senza molta fantasia, per la salvaguardia del vecchio assetto Est-Ovest consolidato dai tempi della guerra fredda. Senza accorgersi che il mondo era cambiato e che la talpa della storia, quella evocata – guarda caso – da Engels, aveva fatto parecchia strada. Le eccezioni a questa tendenza sono state poche e naturalmente inascoltate. Che l’impero sovietico fosse vicino al tracollo già all’esordio degli anni Ottanta ce l’ha spiegato solo un esiguo numero di Cassandre, in genere zittite sia da sinistra sia da destra («Sopravvivrà l’Unione Sovietica dopo il 1984?» si domandava già negli anni Settanta un profetico, sfortunato Amalrik: e si sbagliava di poco). Da un lato si viveva un paradosso logico. Si capiva che il mito, quello della rivoluzione del ’17, era ormai in briciole, tranne che per qualche irriducibile. Tanto che in Italia anche il segretario del Pci Enrico Berlinguer, pressato dal dinamismo craxiano, si era spinto ad ammettere la fine della “spinta propulsiva” rappresentata per decenni dall’Urss. Ma tra il riconoscere il fallimento del dio e il trarne tutte le conseguenze (ossia concorrere, almeno augurandosela, alla caduta dell’Unione Sovietica) si apriva un abisso politico e culturale paralizzante per la sinistra. E non solo per essa. La verità è che un complesso di interessi militari ed economici aveva a sua volta motivo di difendere l’esistenza dell’Unione Sovietica, pur contrastandola, e anzi di presentare il regno dei Breznev e degli Andropov più pericoloso di quanto non fosse, negando che il gigante avesse i piedi d’argilla. Per cui anche la destra, almeno nei suoi filoni più classici, fino a un certo punto è guardinga e miope, incapace di cogliere i segnali nuovi. In definitiva quasi nessuno sa prevedere lo sconvolgimento dell’89 e pochissimi, specie tra i politici e gli intellettuali europei, riescono a interpretare lo spirito dei tempi. Tale circostanza chiarisce perché, almeno a parere di chi scrive, il decennio post ’89 sia stato un capitolo ricco di clamorose, tumultuose trasformazioni nella politica, nel costume, nel vivere civile, ma non sia stato né anticipato da alcun fermento culturale importante né accompagnato da un “motivo conduttore” in grado di fornire una chiave di lettura completa di eventi che si sono presentati sulla scena disordinati e vitali. Carichi di promesse, ma oscuri nelle loro reali prospettive. C’è stata una lunga fase di sconcerto e di frammentazione cui solo ora si tenta di sostituire una fase costruttiva. Del resto, la fine del mondo bipolare portava logicamente con sé l’eclissi della grande politica internazionale. La ricerca di obiettivi sostitutivi ha preso il suo tempo e appena adesso comincia a dare frutti: si veda la moneta unica europea, l’uso selettivo della forza militare su scala regionale (Kosovo), il ritorno in auge del progetto di difesa integrata tra i paesi del vecchio continente come strumento per arginare il peso degli Stati Uniti. Ma non siamo affatto certi che il vento dell’89 abbia finito di soffiare. Abbiamo visto i progressi della tecnologia, non collegabili se non in via indiretta agli eventi di dieci anni fa. Abbiamo conosciuto i vantaggi e gli svantaggi della globalizzazione e qui il nesso con il crollo del Muro è più percepibile. In numerosi altri campi, come nella cultura e nelle arti, l’impressione è che i dubbi e i ritardi intellettuali pre ’89 abbiano condizionato, e non in modo positivo, gli sviluppi del decennio. Solo oggi, ad esempio, Berlino si avvia a diventare un crocevia della cultura europea, ma è ancora lungi dal rappresentare quello che fu Londra nella seconda metà dell’Ottocento o Parigi nella prima parte del nostro secolo. Diamo tempo al tempo. Il vento, come abbiamo detto, sta ancora soffiando. E soffierà anche per l’Italia, il paese forse più refrattario di fronte alla novità. I più lesti a capire il senso del decennio sono stati, al solito, i piccoli e medi imprenditori, maghi dell’esportazione. I più lenti, i protagonisti della politica. Il Pci riuscì a cambiare nome all’ultimo istante, grazie ad Achille Occhetto, e fu travolto solo in parte dalle macerie del Muro. La Dc, i socialisti e quasi tutti i partiti dell’arco laico-moderato si sono invece fatti schiacciare da Mani Pulite, un episodio di “politica giudiziaria” senza precedenti che va visto in stretto collegamento con gli eventi dell’89. Non a caso il fenomeno politico più rilevante del decennio, per quanto riguarda l’Italia, è senz’altro la nascita e soprattutto il consolidamento del movimento guidato da un imprenditore di successo. E anche qui è evidente il nesso con la caduta del Muro e con le sue immediate conseguenze: Tangentopoli, il mesto afflosciarsi dei partiti di governo, la faticosa evoluzione della sinistra, la fine della contrapposizione statica tra conservatori e progressisti. Senza l’89 non ci sarebbe stato Berlusconi. Il resto è storia di domani. Sappiamo solo che lo sviluppo del sistema politico italiano è tuttora in corso. Con un ritmo talmente blando e snervante da allontanare dalle urne un numero via via crescente di elettori.

Stefano Folli


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1999