Il grande disordine
DALLE ROVINE
DEL MONDO BIPOLARE
di Franco Cangini

Karl Popper ne era entusiasta. Per il vecchio filosofo l’attacco dell’America all’Iraq di Saddam Hussein segnava l’inizio della nuova Storia. Un destino benevolo gli offriva, sul finire della sua travagliata esistenza di testimone del secolo, la visione d’un Orbe finalmente ordinato dalla forza al servizio della giustizia. L’aspettativa d’un nuovo impero universale sorgeva nel Golfo del petrolio, dalle rovine del vecchio mondo bipolare – un po’ libero, un po’ prigione dei popoli, un po’ caos sanguinoso – venuto giù insieme col Muro. Popper era persuaso che lo scettro del potere mondiale toccasse di diritto agli Stati Uniti. Perché forti abbastanza per reggerlo, ma anche perché avevano dimostrato di esserne degni. Quale altra nazione avrebbe celebrato la sua vittoria nel conflitto mondiale col finanziamento di un piano di ricostruzione e sviluppo dei suoi concorrenti? Quale altra avrebbe resistito alla tentazione di usare il monopolio operativo della bomba atomica, detenuto durante una dozzina d’anni, per imporre all’avversario la sua legge e il suo dominio?

Già Thomas More aveva immaginato uno Stato di Utopia, arbitro della retta conduzione politica degli altri popoli e quindi vocato all’espansionismo ideologico. A mano armata, se necessario. L’utopia rinascimentale di More discendeva dalla plenitudo potestatis dell’impero medievale, custode del diritto e della libertà contro i tiranni, nemici del genere umano. La sua era un’utopia piena di passato. Mentre la visione popperiana del ritorno dell’impero nell’ordinamento della terra era carica di futuro. Un’anticipazione del Ventunesimo secolo. Fantasticheria passatista al tempo in cui lo Stato moderno prendeva forma in Europa, la concezione d’un ordinamento spaziale “imperiale” guadagna concretezza cinquecent’anni dopo, nel crepucolo degli Stati nazionali e nella luce aurorale d’una ideologia universalistica in cerca di corrispettivo politico. L’ideologia dei diritti umani. Nella mente razionale di Popper, l’avvento dell’impero americano era una necessità storica. Dunque destinata a compiersi. Ma nella realtà dell’agire politico le cose non sono mai semplici. Gli allori mietuti nel Golfo per una buona causa non hanno risparmiato all’impero d’Occidente lo smacco somalo. Il disgraziato intervento in quel miserabile conflitto tribale ha volto in prosa la poesia dei diritti umani. Nel Corno d’Africa si è visto che proclamare il valore universale dell’ideologia umanitaria non è la stessa cosa che imporne il rispetto in tutto il mondo. Perché ciò accada, il problema che meno conta è quello che più ha fatto discutere: il cosiddetto diritto d’intervento. Ma l’intervento umanitario si legittima da sé, per l’evidenza della sua necessità e urgenza. Il fatto che esso sia o no autorizzato dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, è questione rilevante, ma inessenziale. Essenziale, invece, è la sussistenza delle condizioni politiche dell’intervento, alla fin fine riconducibili alla prosaica contabilità di costi e ricavi.

L’impatto emotivo delle trasmissioni televisive che documentano le sofferenze inflitte a intere popolazioni è condizione necessaria per disporre l’opinione pubblica della superpotenza democratica a favore dell’intervento, ma insufficiente a garantire la tenuta del consenso per tutto il tempo richiesto. Perché il consenso duri occorre che il prezzo di sangue dell’intervento sia minimo e la soluzione finale soddisfacente.

La prima condizione è del tutto ragionevole. Quando non si sente esso stesso esposto a una minaccia mortale, l’imperialismo democratico non considera nemici i popoli a cui rivolge le sue attenzioni. Al contrario, è mosso dall’intenzione di associarli alla propria ideologia e alla propria sfera di prosperità, liberandoli dalla tirannia di gruppi dirigenti oppressivi. Di conseguenza ogni sacrificio di vite umane (dei propri soldati, ma anche delle popolazioni a cui si porge un aiuto fraterno) appare in patente contraddizione con gli scopi dell’iniziativa. Da ciò il largo ricorso alla tecnologia delle “bombe intelligenti” e alle azioni aeree ad alta quota, che ha reso tatticamente così incerta la condotta delle operazioni Nato nel Kosovo, fino all’insperata dimostrazione finale che le guerre possono essere vinte dalla sola aviazione. Più difficile mettere in scena una soddisfacente soluzione finale dell’intervento. Nel caso dell’Iraq non si trattava tanto di assicurare i diritti umani a quelle popolazioni (obiettivo ambizioso…) quanto di salvaguardare l’indipendenza del Kuwait e rassicurare gli sceicchi da cui dipende la continuità dei nostri approvvigionamenti petroliferi. Risultato raggiunto. Nel caso della Somalia, invece, una precipitosa ritirata ha posto termine a un’impresa che non sarebbe mai dovuta cominciare. L’esperienza di quel fiasco africano ha probabilmente fatto passare la voglia di un intervento occidentale in Ruanda, per impedire lo sterminio dei tutsi.

Ci si è resi conto che l’intervento umanitario nelle faide tribali è a sfondo catastrofico se non può risolvere il problema derivante dall’ingovernabilità. Chi interviene deve avere il potere, internazionalmente riconosciuto, e la voglia di addossarsi il fardello del governo di altre popolazioni in regime di protettorato. Voglia e potere entrambi irreperibili.

Tutto considerato, oggi lo stesso Popper dovrebbe riesaminare criticamente il presagio di impero universale in lui suscitato dalla guerra del Golfo. Quella dei diritti umani è, sì, un’idea che ha trovato delle baionette, ma la sua forza espansiva è imprigionata nella camicia di forza della ragion politica. La Nato non sarebbe intervenuta in Kosovo, se l’Unione Europea non avesse sentito l’esigenza politica di irradiarsi nell’intero spazio balcanico. Donde la necessità di dare a quello spazio il medesimo principio ordinatore che ha già pacificato la comunità occidentale. Per l’Est europeo del dopo-Muro, l’ideologia dei diritti umani è il presupposto della conversione al sistema liberaldemocratico e – soprattutto – l’alternativa alla ricaduta nel caos sanguinario dei nazionalismi etnici.

Se l’Unione Europea ha sollevato il problema, è l’America che lo ha risolto con la forza delle sue armi. Come già accaduto in Bosnia. Ciò che platealmente riduce l’Europa, passata la sbornia della moneta unica, nei termini debiti di provincia dell’impero d’Occidente. Non proprio espressione geografica, ma non ancora soggetto politico. Per ritrovare, nel garbuglio delle convenienze politiche, il bandolo della questione di principio che ha motivato l’intervento umanitario, occorre adesso scongiurare il rischio che una guerra fatta per i diritti della popolazione albanese conculcati dalla Serbia, si rovesci nell’oppressione della popolazione serba da parte albanese e con la nascita di un altro staterello balcanico preda delle mafie. Difficile uscirne senza sancire un protettorato sul Kosovo per tutto il tempo necessario al compimento dell’opera di civilizzazione. L’ideologia dei diritti umani sopporta drastiche restrizioni della sua irradiazione universale, ma non sopporterebbe di essere identificata con la nuova maschera della vecchia politica di potenza.

Franco Cangini


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1999