Politica
LA VIA DALEMIANA
ALLA NORMALIZZAZIONE
di Domenico Mennitti

E’ proprio vero che in politica bisogna sempre muoversi con grande cautela, senza mai disperdere la dimensione umana dell’umiltà, soprattutto quando arride il successo. Perché spesso il momento di massimo fulgore coincide con quello di avvio della fase decadente. Massimo D’Alema vanta conti in attivo con la sorte, che gli ha consegnato cinque anni fa, senza che facesse gran fatica, la segreteria del vecchio Partito comunista. Era stato Occhetto a riverniciare l’immagine operando il coraggioso strappo della Bolognina, ma poi perse lo scontro elettorale con Berlusconi e fu sopraffatto dalla polemica. Sotto il peso politico di quel risultato si fece da parte, cedendo alle pressioni della classe dirigente, che proprio il “deputato di Gallipoli” gli aveva mobilitato contro. Il partito, interpellato nei suoi quadri dirigenti anche periferici, indicò come successore Veltroni, ma il comitato centrale gli preferì D’Alema: se non proprio una congiura, certamente fu un colpo di mano del Palazzo, evento premonitore di uno stile che avrebbe fatto tendenza  anche nei palazzi delle istituzioni. Ora di D’Alema si evidenziano soprattutto le contraddizioni, ma è bene non perdere di vista i tratti di continuità. Il più evidente è individuabile nella tenacia a seminare trappole piuttosto che a sostenere scontri a viso aperto. Inaugurò la sua segreteria frequentando osterie e visitando appartamenti di amici e soprattutto di nemici, per i quali ultimi a quell’epoca mostrò gran predilezione. Fu a casa Bossi che, sollecitando con pane e alici salate qualche bicchiere di vino, disegnò la caduta di Berlusconi ergendosi ad inventore del famigerato ribaltone. Sostenne Dini capo del governo nonostante l’avesse indicato alla piazza un mese prima come l’affamatore dei pensionati e cominciò a costruire l’aggregazione nuova da contrapporre a Berlusconi quando Scalfaro, intravvedendo i segnali della convenienza, avesse deciso di dar corso alle elezioni anticipate. La sorte, ancora benevola, gli mise sulla strada Prodi con in mano il ramoscello dell’Ulivo. Non era un segno di pace, ma fu il simbolo del successo. D’Alema non mostrò simpatia per il professore bolognese, che aveva gestito per tanti anni l’Iri e gli appariva troppo dotato di connotati democristiani; però Prodi si comportò come se l’adesione fosse scontata e gli fece ingoiare tutti i sospetti, gli spuntò tutte le armi, impose la leadership ch’egli non gli voleva riconoscere. L’Ulivo vinse e D’Alema partecipò alla festa ostentando entusiasmo, ma c’è chi giura che già la sera della celebrazione del trionfo, a piazza Santi Apostoli, il pensiero gli fuggiva in avanti, al giorno in cui si sarebbe liberato dell’ingombrante usurpatore.  Divenuto il capo del più forte partito della maggioranza, tornò al vecchio mestiere di seminatore di trappole. La cacciata di Prodi da palazzo Chigi e la sua sostituzione sono storia di un anno fa, ma è un tempo denso di amicizie tradite, di dichiarazioni solenni e di smentite spudorate. Guadagna il sostegno di Marini facendogli balenare l’idea di poter diventare capo dello Stato e poi lo molla; incoraggia Bertinotti a fare il killer di Prodi, ma poi non lo recupera alla maggioranza usando i voti dello scissionista Cossutta; per assicurarsi il favore di Cossiga e persino di Mastella disconosce l’Ulivo in nome del centro-sinistra. Scelta che rivendica sino allo scambio di lettere con il picconatore, perché il giorno successivo l’offerta dei prodiani di entrare nel governo lo determina a cambiare registro. Ulivo sì, centro-sinistra di nuovo in discussione per via di un trattino di troppo. Molla Cossiga ed abbraccia Rutelli, enunciatore del progetto prodiano: sostengono tesi contrapposte, che D’Alema sposa a giorni alterni, accettandole o respingendole nell’ottica della convenienza personale. Annunzia un rimpasto lampo del suo governo, ma poche ore dopo ci ripensa e sostiene che bisogna prima approvare la legge finanziaria. E’ inutile tentare di prevedere come andrà a finire: fanno fatica a seguire l’evoluzione schizofrenica della vicenda persino i quotidiani, che avevano aperto gli sportelli del “totoministri” e li hanno dovuti precipitosamente chiudere. Ad osservare con attenzione questo percorso c’è da riflettere e un po’ anche  da rabbrividire. D’Alema è giovane, ma le esperienze vissute ne fanno un personaggio già molto navigato. Sembra sgorgata dalla sua mente l’affermazione categorica che la linea più breve per congiungere due punti è quella curva. Ha l’aspetto di un uomo di princìpi, addirittura di buoni princìpi, ed il comportamento di persona inaffidabile. Anche nel rapporto con Berlusconi la lancetta degli umori è sempre sul variabile: disse che avrebbe voluto vederlo mendicare sdraiato sul marciapiede, si ricredette quando cominciò a frequentarlo. Ma ogni tanto, quando la polemica cresce e soprattutto quando crescono i consensi per l’avversario, l’originario pensiero torna a trovare asilo nella sua mente.

Non sappiamo dire come sia venuto questo “attacco” – che nel gergo giornalistico significa “avvio” – ad una riflessione che vorrebbe aiutare il lettore ad orientarsi nel labirinto politico in cui rischiano di perdersi anche gli addetti ai lavori. Ma pure il caso ha una ragione, individuabile questa volta nella constatazione che i comportamenti degli uomini  sono l’espressione della loro cultura, degli ambienti che frequentano, delle idee che professano. In questo affannoso procedere a zig-zag non c’è tanto la natura cinica e sospettosa di un protagonista quanto l’affanno di una generazione di politici, cresciuti nella scuola delle Frattocchie quando però il comunismo già viveva la stagione della sconfitta e mostrava la scia di settanta anni di miserie e di sogni falliti. Evidentemente in quelle aule non s’insegnavano più elementi di mistica marxista, ma si sperimentavano i metodi della sopravvivenza, ai quali – divenuti diessini – gli attuali dirigenti affidano tutto – tattica e strategia, forma e contenuto – coltivando l’illusione di poter barare con la storia. Non intendiamo sminuire la portata di affermazioni, rese note alla vigilia del congresso, che finalmente dichiarano la consapevolezza di gravi errori; e neppure vogliamo mostrare accanimento ad evidenziarne il vistoso ritardo; anzi, siamo interessati ad incoraggiare questi tentativi perché una sinistra più moderna, consapevolmente inserita nel contesto europeo, è necessaria all’evoluzione politica ed istituzionale dell’Italia quanto lo è una destra altrettanto affrancata dalle scorie del passato. Però gli errori debbono essere prima riconosciuti e poi superati  in un nuovo progetto. E’ un gran sollievo che Veltroni abbia riconosciuto l’incompatibilità fra il comunismo e la democrazia, ma bisognerà pur conoscere gli approdi di questa clamorosa ammissione che nessuno potrà sostenere sia giunta puntuale e tempestiva. Come si sostenne per la destra quando un po’ all’improvviso si scoprì quasi tutta liberale, a maggior ragione va oggi affermato per la sinistra comunista che non basta dichiararsi socialdemocratici per esserlo davvero. Oltre tutto la storia è da cinquant’anni che fa i conti con il fascismo, mentre i comunisti, ancora cinque anni fa, erano orgogliosamente gli stessi che si erano schierati accanto a Mosca quando questa aveva fatto scattare la repressione contro tutte le rivolte esplose nel nome della libertà nei paesi soggetti al controllo sovietico. Ha il sapore della truffa perciò il tentativo di traghettarsi da una sponda all’altra della politica, della morale, dell’economia, della cultura senza pagare costi e di giocare d’astuzia – in una fase di ridefinizione delle regole e dei riferimenti – per restare comodi al tavolo del potere, senza attendere che maturino i tempi della riflessione e della presa di coscienza delle nuove scelte enunciate. Si spiega così come un politico considerato avveduto nonostante l’anagrafe, mostratosi esperto nel governare le vicende interne al proprio partito, si manifesti incerto e prigioniero degli eventi e degli alleati una volta assurto al vertice del governo. Vale ripetere una osservazione corrente: di lui sappiamo quel che è stato ed ignoriamo quel che è. Un buco troppo grande, che non riguarda il singolo personaggio ma coinvolge per intero la forza politica determinante della maggioranza. Un vuoto che si deve colmare per liberarci tutti e definitivamente dalla ragnatela dei ricatti, dei dossier, dei blitz, dei complotti. Se la storia del recente passato è costretta a registrare in troppe pagine queste miserevoli vicende, l’impegno per il futuro deve essere indirizzato a ridurre  questi spazi.

Per i movimenti politici, come per gli uomini peraltro, la credibilità non si coglie nelle promesse, ma nelle imprese realizzate, in quel che si è riusciti a fare. La credibilità di ciascuno di noi è il nostro passato. Ed esso si può orgogliosamente rivendicare, correttamente superare, persino rinnegare. Non si può cancellare, come tentano goffamente di fare i diessini, che parlano ed agiscono come se avessero fatto irruzione sulla scena politica dopo il 1989. Il comunismo si è lasciato alle spalle quel che ormai tutti sappiamo, ma anche una tradizione di lotta che soprattutto i giovani hanno diritto di conoscere e chi vi partecipò ha diritto di riconoscere come un momento significativo della propria storia e di quella collettiva. Per uscire dalla pratica del ricatto ed aprire finalmente una prospettiva di civile contrapposizione politica, per occuparsi – per fare un esempio – dei problemi della modernizzazione piuttosto che delle liste delle spie, dobbiamo ricusare la tentazione di tagliare a fette la storia del paese, scegliendo ciascuno quella che più gli conviene. Perché la vita spirituale, morale, politica, sociale, economica di una nazione è un tutto unico, e si svolge in continuità, anche se talvolta per fasi alterne: è sempre la stessa nazione a viverla ed è sempre la stessa nazione che ne riassume in sé i frutti, negativi e positivi, esaltanti o avvilenti. La transizione italiana si trascinerà stancamente e pericolosamente sino a quando questi nodi non saranno sciolti ed è agevole constatare che in tale quadro la regola del potere per il potere restringe il campo delle iniziative, riducendolo ad un orto dove si possono coltivare solo gli interessi personali. Se fossero questi i frutti della “rivoluzione italiana” ci sarebbe ragione per essere disperati.

Domenico Mennitti


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1999