Modello nord.
Gli indipendenti del Polo
UN SINDACO
FORMATO ESPORTAZIONE
Intervista a Giorgio Guazzaloca di Mauro
Mazza
Quello che segue è il
resoconto di un colloquio di due ore con il sindaco di Bologna Giorgio
Guazzaloca. A differenza dell’eclissi solare dell’11 agosto, la sua
elezione è stata un evento assolutamente imprevedibile. Eppure, gli storici
dovranno occuparsi anche di lui, un giorno, per spiegare le ragioni di
un’eclissi politica così sorprendente, qual è stata quella della
sinistra a Bologna. Per la prima volta, Guazzaloca parla di politica. Indica
la sua esperienza come un modello esportabile altrove. Racconta il suo
rapporto con la città, con i partiti del Polo, con gli avversari sconfitti.
Parla di D’Alema e di Berlusconi, di quella signora che gli ha detto «c’è
un’aria più leggera, a Bologna». E lui, per poco non si commuoveva. Nel
corridoio, venti metri più in là, ci sono due coppie che attendono la
celebrazione delle nozze. I parenti già fanno festa. I primi giorni dopo la
sua elezione, due ragazzi rinviarono la data delle nozze perché non
volevano che fosse il Guazza a celebrare la funzione. Sembra passato un
secolo. Fuori c’è il sole. Due camionette dei carabinieri stazionano in
piazza Maggiore. Controllano che tutto fili liscio. Guazzaloca è
tranquillo. Si racconta senza riserve e senza remore. Se lo si sta ad
ascoltare, non viene da chiedersi come abbia fatto
a vincere, ma cosa si dovrà fare altrove per mettere a frutto la
lezione di Bologna. Il guazzalochismo ha un’anima e un futuro, per chi
saprà riconoscerne il passo e gli andrà incontro sorridendo, con l’uscio
già aperto al nuovo giorno che sta per arrivare.
In genere,
governanti e amministratori fanno un primo bilancio delle cose fatte dopo i
primi – più o meno fatidici cento giorni. Ha voglia di farlo anche lei o
considera troppo banale questa prima domanda?
Io sono soddisfatto
soprattutto di una cosa: in città c’è un clima diverso. Una signora alla
processione di San Petronio, giorni fa, mi ha detto: «Grazie a lei a
Bologna si respira un’aria più leggera». Mi ha fatto molto piacere. Io
credo che lo strumento dell’elezione diretta dei sindaci sia
effettivamente di aiuto. Può ricreare un circolo virtuoso tra
amministrazione e cittadini. In questa nuova fiducia e collaborazione
potrebbe esserci la variabile che consente di superare i problemi. E’ una
cosa che vale per tutte le città, non solo per Bologna. Certo,
l’autorevolezza e la credibilità si conquistano con i comportamenti. Sono
cose che la realtà virtuale che la politica s’è costruita attorno non
aiuta a vedere. Cento giorni, lei dice. Credo di aver creato le premesse per
fare delle cose utili alla città. Se non faccio nessun bilancio, è perché
non voglio avviare un dibattito accademico su quello che vorrei fare.
In questi primi
mesi lei è stato una specie di icona. L’hanno invitata ai raduni e ai
convegni. Lei ci è andato come una madonna pellegrina. Un’idea se l’è
fatta di sicuro. Chi è Guazzaloca, cos’è il guazzalochismo?
Giorgio Guazzaloca è
un tale che si è conquistato credibilità e autorevolezza fin dai tempi
della presidenza dei macellai bolognesi e della Camera di commercio. La
capacità di comprensione e di conoscenza dei cittadini è molto più grande
di quanto possa immaginare la politica dei professionisti. Io, in questa
avventura ho puntato tutto sull’intelligenza degli elettori. Gli altri
invece facevano affidamento sulla loro pigrizia, sull’abitudine,
sull’inerzia. Ne dicevano di sciocchezze. Una volta, la candidata della
sinistra, la Bartolini, se ne uscì con una roba del tipo: «Vogliamo una
città in cui anche i bambini possano contribuire alla creazione di nuovi
parchi». Io le chiesi se si rendeva conto dell’assurda banalità di
quanto aveva detto. Quelle cose non fanno più alcun effetto sugli elettori.
Semmai, lo allontanano. Ecco che cos’è il guazzalochismo: un percorso di
credibilità che si è offerto al giudizio degli elettori ed è stato
premiato. Non si inventa nulla. Guazzaloca non l’ha inventato nessuno.
Fino ad oggi lei ha
fatto lo slalom attorno alle trappole della politica. Distante da tutti. Più
o meno, D’Alema come Berlusconi, la sinistra come la destra. Insomma, ha
dato l’impressione di considerare irrilevante che la sua candidatura
l’abbia sostenuta il Polo. Poteva davvero accadere il contrario, come è
stato detto da qualcuno? Lei poteva essere sindaco coi voti della sinistra?
Un momento. Voglio
fare chiarezza. Le cose non stanno così. Io, un anno fa, avevo duramente
criticato l’amministrazione precedente. Il mio “no” era palesemente un
rifiuto dell’ideologia che ispirava la politica di quella giunta. Un
“no” all’ideologia del partito di maggioranza, il Pds. Non sarei stato
disponibile ad una eventuale proposta della sinistra. Io non ho mai detto di
essere un candidato a 360 gradi. Ho detto invece che il mio appello era a
360 gradi, rivolto a tutti gli elettori. Voglio dire un’altra cosa. Per la
prima volta, un candidato scaturito al di fuori del sistema dei partiti, non
ha fatto una campagna contro i partiti. Il mio rapporto con la politica,
finora, è stato quello di uno scapolo che non ha trovato la donna giusta
per la vita. Ma allo scapolo le donne piacciono, non le rifiuta. Chiaro? Io
rispetto i partiti, apprezzo l’impegno in politica. Ma credo che in questa
fase storica, per il bene della politica, i partiti devono trovare il ruolo
e la dimensione giusta: in questo ambito fare la loro parte, senza la
pretesa di fare tutto o di fare troppo. Quando un partito diventa
l’istituzione, il factotum, si autocondanna alla crisi e alla fine. E’
accaduto alla Dc sul piano nazionale. E’ accaduto al Pci-Pds a Bologna.
Cosa pensa, allora,
che la destra sia più aperta al nuovo, alle domande della società? Oppure,
senza troppi castelli in aria, ha più semplicemente compreso che Guazzaloca
era l’unico modo per sottrarre la città alla sinistra?
Quando ero
vicepresidente della Confcommercio, protestavamo perché al tavolo delle
trattative contrattuali il governo chiamava i sindacati e la Confindustria,
ma non la nostra organizzazione. Ora vedo che D’Alema, spesso, convoca
tutti, grandi e piccoli, attorno al tavolone di Palazzo Chigi. Bene,
l’assemblearismo di oggi è sbagliato come l’esclusione di allora. Perché
le decisioni, allora come oggi, vengono prese altrove. Non c’è niente da
fare. Il modello della sinistra è sempre lo stesso, non riesce a superarlo
nonostante la realtà – così complessa, così diversa dalle loro
convinzioni – smentisca continuamente luoghi comuni e convinzioni
radicate. Come non bastasse, ci aggiunga anche l’insofferenza dei
militanti della sinistra per i cambiamenti che i vertici sono costretti a
subire, ma che non sono frutto di riflessione. A Modena, alla festa
dell’Unità, ho preso un sacco di applausi quando mi hanno chiesto perché
la sinistra avesse perso a Bologna. Ho risposto: «Ha perso la spinta
propulsiva, con le stesse parole usate, per l’Unione Sovietica da Enrico
Berlinguer, un leader che la sinistra non ricorda più». Si sono spellate
le mani. Non era un applauso per me. Era la rabbia contro i loro dirigenti.
C’erano una volta
gli indipendenti di sinistra. Intellettuali, personaggi di spicco della
società, venivano candidati nelle liste del Pci e portati in Parlamento.
Spesso diventavano i più fedeli esecutori della politica del partito,
raramente una voce critica, quasi mai una rottura. Con Guazzaloca (ma anche
con Albertini, per intenderci) siamo di fronte all’inedita figura
dell’indipendente di destra? E’ un’esperienza che può diventare una
nuova modalità della politica?
Io credo che altri
Guazzaloca possano esserci in futuro, a condizione che vi sia la materia
prima (la sostanza umana, la persona giusta insomma). Finora non c’era
scelta: o il politico veniva dalla scuola di partito, era cresciuto a pane e
politica fin da bambino, una specie di pollo d’allevamento; o era il
qualunquista, l’antipartito, quello che «la politica mi fa schifo»,
l’uomo che s’è fatto da sé. La mia esperienza ha proposto sulla scena
figure diverse: soggetti che hanno una propria sensibilità, anche politica,
maturata lungo un percorso diverso da quello partitico. Queste figure ci
sono, esistono nella società. Basta cercarle e valorizzarle, senza
chiedersi se, quando vanno a votare, danno la preferenza a questo o a quel
partito. Se, come sindaco, scelgo di dare una determinata soluzione ad un
problema, lo faccio perché di questo sono convinto, non perché me lo dice
una parte politica o perché la parte avversa farebbe il contrario.
Altrimenti si ricade nella vecchia trappola: l’automobile è di destra, il
sostegno agli anziani è di sinistra. Qualcuno ha ancora nostalgia per
queste ridicole distinzioni? Io credo che negli Stati Uniti, nel mondo
anglosassone, queste verità non ci sia nemmeno bisogno di dirle, tanto sono
radicate nella mentalità comune. Lì governare significa dare risposte ai
problemi. E democrazia significa essere giudicati, alla fine, per le
risposte date e per quelle non date.
Allora, il
guazzalochismo si può esportare. Fino a che livello: presidenti di Regione,
magari anche presidenti del Consiglio...
Perché no? Da noi
sarebbe una rivoluzione. In America, invece, Reagan e Carter prima di lui
avevano fatto altre esperienze, per le quali erano stati apprezzati e
conosciuti. Considerare queste persone come dei marziani è un retaggio
ideologico negativo. Allo stesso modo, è una pessima eredità quella
dell’antipolitico: un misto di demagogia e di superficialità, che non può
produrre niente di buono. Occorre cercare persone affidabili, che abbiano
vissuto le loro avventure e che abbiano voglia di farne altre.
Lei ha partecipato
ad una riunione di sindaci, a Napoli, sul problema della sicurezza. Pensa di
ritrovarsi iscritto a quello che chiamano “partito dei sindaci”? Pensa
che sia utile una forma di coordinamento, a prescindere dagli schieramenti
di appartenenza?
Io mi sento ancora in
una fase di studio e di verifica. Sollecitazioni ne ho avute molte, di
diverso tipo. Ad alcune mi sono sottratto. Quanto alle riunioni tra sindaci,
quella volta è stata utile. Bassolino, per dire, lo avevo visto soltanto
alla tv. Ma parteciperò di nuovo soltanto se queste riunioni non avranno un
retropensiero politico.
Dicono che lei ha
vinto perché si è appellato alla bolognesità. Si è richiamato a Dozza,
sindaco comunista che sconfisse Dossetti: «Vogliono farci mangiare un pugno
di riso? E noi mangeremo tagliatelle!», diceva il primo contro
l’ascetismo ieratico dell’altro. Cos’è accaduto, che la sinistra ha
dimenticato come sono fatti i bolognesi?
Bolognesità vuol dire
consapevolezza della propria identità, non il ritorno nostalgico a certi
momenti o situazioni della nostra storia cittadina. Io mi sono richiamato
alle nostre radici come l’elemento vitale per tornare a crescere. Se si
conosce la lingua italiana, oggi, non basta. Se si conosce l’italiano e
l’inglese, è meglio. Ma – aggiungo io – se oltre alle lingue, io non
ho dimenticato il bolognese, sto meglio degli altri, sono più ricco e più
attrezzato. Mia madre votò per Dossetti, era democristiana convinta. Ma
diceva: «Dozza è davvero bravo». La sinistra ha dimenticato molte cose,
anche come sono fatti i bolognesi.
Secondo lei, la
sinistra al governo ha dimenticato come sono fatti gli italiani?
Forse questa perdita
di contatto con la realtà non è soltanto della sinistra bolognese. Voglio
dire una cosa precisa: non penso affatto che per mantenere questi contatti
sia necessario stare in mezzo alla gente tutto il giorno. E’
indispensabile, invece, avere percezione dei movimenti e delle aspettative.
Ci vuole orecchio, per la politica e per la musica. La sinistra italiana
dimostra di non avere orecchio. Vive e si macera in un mondo virtuale. E’
convinta che si possa fare politica, e magari vincere, solo grazie ai mezzi
di comunicazione. Il mio predecessore, Vitali, arrivava ogni mattina in
questo ufficio, leggeva le pagine locali de la Repubblica ed era convinto di
conoscere in questo modo la città e i suoi problemi. Non vorrei che
D’Alema a palazzo Chigi faccia più o meno la stessa cosa, pensando ai
giornali importanti, ai talk show televisivi. Io vengo al lavoro a piedi,
parlo con quelli che incontro, li ascolto, li saluto, rispondo quando mi
dicono buongiorno. Se vedo D’Alema in televisione, che per mostrarsi come
gli altri, sta lì a combattere col ragù e a scegliere i vini, penso che
non ha capito nulla. Così facendo, si riduce la politica ad una nicchia che
coinvolge al massimo il 20 per cento degli italiani. E gli altri, che sono
la maggioranza assoluta degli elettori, restano fuori dal circuito. E’
chiaro: la partita la vince chi riesce a parlare a tutti gli altri.
Ma allora
come lo spiega l’alto indice di gradimento per Silvio Berlusconi?
Non è tipo da andare in ufficio a piedi. In vacanza può scegliere tra la
barca ed un numero imprecisato di ville. Difficile immaginarlo simile ai
suoi elettori, reali e potenziali.
Tutto giusto. Ma
attenzione. Berlusconi è un uomo di successo che si è realizzato in campi
diversi dalla politica. Credo che rappresenti, per molti, l’incarnazione
di un modello che in tanti considerano proprio. Diversa nel suo caso, è la
quantità, l’intensità del successo ottenuto. Ma la qualità umana
predomina e forma il giudizio positivo. D’Alema invece incarna un soggetto
umano diverso. E’ figlio della sua storia e di quella del suo partito.
Erano come lui Longo, Berlinguer e Natta. Nonostante gli sforzi e i ritocchi
e lo studio per diventare “altro”, D’Alema è percepito per quello che
è veramente: un figlio della politica. Bravo, intelligente, capace. Ma
comunque figlio di quella politica e di quel partito.
A chi le chiedeva
di spiegare il suo rapporto autonomo rispetto ai partiti che la sostengono,
lei ha fatto l’esempio della convivenza tra moglie e marito. Francamente,
il primo requisito che viene in mente in un matrimonio non è certamente
l’autonomia di un coniuge rispetto all’altro...
Volevo dire che nella
vita di coppia, un margine di autonomia ci deve essere, altrimenti non si va
avanti. Dico di più. La forza di una convivenza sta proprio nell’ampiezza
e nello spessore di quel margine. E in quell’ambito che crescono fiducia e
rispetto reciproco. La differenza, rispetto al passato, non sarà più sulla
bontà di un progetto o nella capacità di confezionarlo al meglio, ma sulla
capacità di realizzazione che si saprà dimostrare. Il margine di autonomia
deve dimostrarsi tale rispetto a tutti, non solo nei confronti dei partiti.
Non sarà mai un’autonomia totale, al cento per cento. Ma, eccola la
differenza, farà meglio chi sarà autonomo al 40 per cento, rispetto a chi
lo è solo al 10 per cento. Perché sarà più libero di fare, al limite di
sbagliare rischiando in proprio. In futuro, chi governa dovrà avere il
coraggio dell’impopolarità. Se vince il modello-partito, sarà la fine.
Perché un partito cercherà per forza di compiacere il maggior numero di
elettori. E scontenterà tutti, per l’incapacità di soddisfare soltanto
una parte. In realtà ogni risposta divide e crea contrasti. Ma chi governa
deve cercare la soluzione migliore, non quella più popolare. Una volta
fatta la scelta, deve andare avanti, non ascoltare le sirene né i fischi.
Alla fine, si tireranno le somme. Nel frattempo, vorrei che i partiti che mi
sostengono capissero soprattutto una cosa: abbiamo vinto assieme perché ci
siamo collocati fuori dalla gabbia delle ideologie e delle appartenenze.
Dentro quella gabbia abbiamo lasciato gli altri, che stanno ancora lì coi
loro pregiudizi, ad abbaiare alla luna.
Lo sa che una certa
sinistra la considera tuttora un alieno, una parentesi nella storia di
questa città. Questo la fa sorridere o le fa rabbia?
Non hanno ancora
capito il perché della sconfitta a causa della loro presunzione originaria.
Siamo ad una fase infantile della politica. Pensi che Vitali, che era qua
prima di me, ha detto ad un dibattito che la sinistra ha perso «perché gli
elettori le hanno tolto la fiducia». Roba da La Palisse, da Catalano,
quello dei programmi con Arbore. Cercano delle risposte consolatorie al loro
problema, esorcizzano la sconfitta sognando che un domani, per incanto, le
cose cambieranno. La verità è amara, può far male, ma è una soltanto: la
loro classe dirigente è modesta, non è all’altezza né delle sfide del
presente né del loro passato di partito. Anche i loro elettori sono
maturati, sono molto più avanti di loro. Quando capiranno queste cose,
guarderanno alla loro crisi in modo diverso.
C’è una cosa che
le fa particolarmente piacere e che le fa pensare: «Non fosse altro che per
questo, ne è valsa la pena!»?
Mi piace quando la
gente mi incontra e mi augura buon lavoro. Me lo dice con amicizia. Ma sento
una cosa diversa. Si dimostrano premurosi, come se volessero proteggermi e
lasciarmi lavorare tranquillamente. Ecco, sentirmi coccolato dai miei
elettori mi piace da morire.
E una cosa che la
fa arrabbiare tanto da mandarla in bestia?
Sono le piccole,
ordinarie distorsioni delle cose che dico. Lo fanno alcuni giornali e alcuni
giornalisti in particolare. Lo fanno per mestiere e per scelta ideologica.
Mi arrabbio, ci rimango male. Ma non rettifico niente, non mando lettere ai
direttori. Prendo nota delle banalizzazioni e delle falsità. E aspetto che
mi passi.
Prima di diventare
sindaco, icona, indipendente di destra e madonna pellegrina, chi era
politicamente Guazzaloca?
Guardi, in questa città
non essere mai stato né comunista né democristiano è caratteristica di
una minoranza. Io ne ho fatto parte, con le mie idee laiche, le mie simpatie
repubblicane. Ma l’appartenenza ad un partito è una tentazione che non ho
mai conosciuto. La non omologazione è stata sempre la mia caratteristica. E
lo è anche oggi, che faccio il sindaco di Bologna. Sarà il mio mestiere
per quattro anni. Poi, andremo a vedere la classifica e sapremo se il Guazza
ha vinto il campionato oppure no.
Mauro
Mazza |
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