Editoriale
MILLENNIUM BUG
di Vittorio Mathieu

Mi mancano ventritré anni al secolo per poterne fare un bilancio totale, come quello che Hans Georg Gadamer, nato nel 1900, ha potuto permettersi su la Repubblica (2 settembre), ricordando perfino il Barolo bevuto al mio matrimonio. Posso, ciò nondimeno, essere già considerato come una sinapsi della memoria storica, perché eventi registrati (male) dai libri di scuola li ho vissuti da bambino, da ragazzo, da adulto; e rimangono per me contemporanei. I film di Charlot, poniamo – non solo prima del sonoro, ma in polemica contro di esso – li ho visti al loro apparire, non in cineteca. E, quanto all’essere un laudator temporis acti, nonostante le meraviglie del nostro secolo, ciò non dipende dall’età, perché lo sono sempre stato. Molto prima di leggere Verlaine, ho conosciuto anch’io la sensazione che fa dire: «Je suis l’empire à la / fin de la décadence». Perché mai? Dopo tutto, il Novecento sarà ricordato e mai abbastanza valutato, dagli storici come il secolo che ha prodotto la seconda importante rivoluzione nel modo di vivere degli uomini, la prima essendo stata il passaggio dal paleolitico al neolitico. Nel paleolitico l’uomo usava la natura come gli altri animali; durante il neolitico viveva già esattamente come ora, nella “globalizzazione”. Le isole Eolie, ad esempio, si arricchivano esportando ossidiana in tutto il Mediterraneo; e andarono in rovina quando qualcuno inventò un modo economico per fondere il bronzo. Analogamente l’Italia del miracolo economico è andata in rovina quando – a imitazione dei piani quinquennali sovietici – privilegiò una vecchia industria, l’“industria pesante” (dove i sindacati controllano più facilmente gli operai), impiantando acciaierie nel momento in cui l’acciaio andava in perdita; e continuando poi, salvo straordinarie eccezioni, sempre con la “produzione dell’anno prima”. Se si continua a fabbricare crinolines, è incongruo lamentarsi della disoccupazione. Frattanto la seconda grande rivoluzione nel modo di vivere  – e, quindi, di pensare – è avvenuta, dopo millenni, con la nascita dell’informatica. Nuove tecniche di comunicazione hanno reso il telegramma utile solo per congratulazioni e condoglianze, e  hanno indotto a calcolare quanta informazione si possa trasmettere in un certo tempo nel cosmo (anche se poi le mete interessanti si limitano a São Paulo o Singapore). A tale scopo si trovò una unità di misura assoluta dell’informazione, il bit, dato dalla scelta tra due possibilità equiprobabili: ad esempio zero e uno, circuito chiuso o aperto eccetera.

Dunque, poiché tutto ciò che si riesce (non importa come) a pensare è traducibile in parole e tutto ciò che si esprime a parole, può prender la forma di una successione, per quanto interminabile, di due soli segni, tra cui si intercala ogni tanto uno spazio vuoto, tutto diventa una successione siffatta.  A una successione di scelte tra zero e uno, purché abbastanza lunga, possiamo ridurci anche noi (senza illuderci che l’uno implichi un valore maggiore di zero: è solo una possibilità diversa). Questa è la vera novità epocale del nostro secolo. Su un nastro magnetico sufficientemente lungo, in altri termini, si potrebbe riportare l’intera Biblioteca di Babilonia, immaginata da Jorge L. Borges, che contiene tutte le possibili combinazioni di parole e, quindi, tutto il sapere: non solo tutto il saputo, ma tutto lo scibile. Il logico inglese Alan Mathison Turing inventò anche la macchina atta a registrare le scelte successive tra due segni, collocati in una qualsiasi casella del nastro. La macchina di Turing non è una macchina reale, è una macchina virtuale; e tutto ormai, nel nostro secolo, tende a divenire virtuale. Turing (morto giovanissimo nel 1954) un giorno sarà ricordato come il padre della seconda rivoluzione importante dell’umanità, dopo quella del neolitico.  Le conseguenze immediate sono sotto gli occhi. Qualche anno fa chi volesse comunicare un numero, ad esempio 9, pronunciava un suono, o faceva un gesto per disegnare il 9 sulla lavagna. Oggi l’Atac, se vuol farci sapere che un certo autobus è della linea 9, accende e spegne un certo numero di lampadine che riempiono un quadro, in modo che le sole accese formino un 9. (Lo stesso sui quadri dell’ascensore, eccetera). Il primo modo di comunicare, analogo al gesto, si suol dirlo “analogico”, il secondo “digitale” (dall’anglolatino digit). Rendendo sempre più fitta la rete dei puntini, col procedimento digitale si può comunicare tutto con (quasi) tutta la precisione voluta. I nostri schermi televisivi ne sono un esempio.

Non so se ci si renda conto di quanto ciò sia atto a cambiare l’uomo. Qualcosa di simile era già avvenuto con l’invenzione dell’alfabeto, ma non in modo così radicale. I segni tra cui scegliere, in quel caso, si quantificarono convenzionalmente in poco più di venti, anziché di due, ma la differenza non è questa. Le lettere dell’alfabeto, in successione discreta, presuppongono il nastro fonico, e quest’ultimo è analogico: paragonabile al gesto continuo di disegnare. E l’unità del gesto presuppone una intenzione unitaria di dire qualcosa: un meaning (come nella scrittura ideografia cinese, per questo tanto più istruttiva che l’alfabetica). Nella comunicazione informatica, per contro, il continuo dell’intenzione va recuperato dal discontinuo dei segni: il numero 9 dall’insieme dei puntini accesi o spenti. Naturalmente, se informazione ha da esserci, deve aversi anche qui un meaning unitario, un’intenzione indivisibile. E’ diverso, però, pensare di partire dagli elementi (dai puntini) per costruire il concreto, o partire dal concreto per isolarvi gli elementi. Il primo procedimento è proprio della costruzione artificiale, il secondo della spontaneità naturale. La rivoluzione informatica cambia l’uomo perché privilegia l’artificiale rispetto al naturale. Facilita enormemente l’uno (la ricchezza oggi è data dal know how, non dalle materie prime) e fa impigrire l’altra. Se non si corre ai ripari, la natura è perduta, perché la realtà naturale non si lascia scomporre in elementi semplici primitivi, dati una volta per tutte, da cui partire per costruire il complesso. Gli elementi da cui partiamo ogni volta per costruire (i “mattoni”) sono primitivi solo in funzione di ciò che abbiamo progettato, non per natura. Nella natura il semplice precede il complesso. Così nessun discorso si costruisce a partire dalle lettere dell’alfabeto, benché si possano scomporre alfabeticamente discorsi che abbiano un senso. Per renderci conto delle opportunità e, insieme, dei pericoli che presenta l’informatizzazione, pensiamo a ciò che ha prodotto il precedente dell’alfabetizzazione. Se non ci fosse l’alfabeto, non potrebbe esserci nessun ruolo, cioè nessun “rotolo” su cui iscrivere i nostri nomi, per ordine, in modo da ritrovarli. A cominciare dal ruolo delle imposte. Il ministro Visco, senza l’alfabeto, non avrebbe alcun potere su di noi. Se, al contrario, il Ministero delle Finanze riuscisse a mettere in piedi un ordinatore sufficientemente capace per includervi tutto, il suo potere diverrebbe irresistibile. L’idea orwelliana del Grande Fratello è l’idea del grande ordinatore.

Che cosa vorrebbero, per contro, gli anarchici? Abolire l’ordine sociale. Ma per riuscire nel loro intento dovrebbero cominciare appunto dall’ordine alfabetico. Con ciò eliminerebbero lo stato civile, il servizio militare, le votazioni scolastiche. Oggi, per contro, ai modesti rotoli che han dato origine ai “ruoli”, con i nomi degli attori, dei soldati, eccetera, si intravede la possibilità di sostituire strisce interminabili, su cui elencare tutto. E’ una possibilità, si noti, che la teologia riservava metaforicamente al Padre Eterno: “Tutti i capelli della vostra testa sono contati”. Che cosa significa ciò? Significa che la rivoluzione informatica alimenta il delirio di onnipotenza, che mai come in questo secolo si è sviluppato. I secoli futuri si salveranno se la potenza offerta dall’informatica non porterà al delirio. Dato che in natura il semplice precede il complesso, è ovvio che nel secolo trascorso il concetto stesso di natura sia entrato in crisi. In superficie, la ragione è che una percentuale crescente di popolazione abita in grandi città, in cui non tornano più le rondini e, a volte, neppure gli insetti. Sugli alberi si perde qualche sguardo distratto. A volte le scuole elementari son portate in gita d’istruzione a visitare una stalla: gli scolari domandano se il vitello sia di plastica, o se il toro sia incinto, ma si dirigono con sicurezza sul processore. Se un altro diluvio si rendesse necessario, i rifugiati sul monte Ararat, vedendo arrivare l’arca, non si interesserebbero agli animali, bensì al pilota automatico che la guida. Per molti uomini e donne del Novecento l’unico contatto con la natura è rimasto il sesso. Ma debole, e perciò ossessivo. La preferenza dei raffinati va ormai alla fecondazione artificiale. Simmetricamente, la morte è occultata, perché nascita e morte rivelano, inconfutabilmente, che in natura il semplice precede il complesso: il complesso si disfa quando il semplice vien meno. Dunque, siamo tutti “creature di Prometeo”. Epimeteo, incaricato di distribuire i doni naturali, come è noto, si era dimenticato di noi. Mito antico, problema non nuovo, ma sempre in agguato, perché il rapporto dell’uomo con la natura è diverso da quello degli altri animali (oggi a molte orecchie, si noti, suona strano perfino sentir dire che l’uomo è un animale). Agli altri animali, la natura offre un equilibrio ecologico a suon di morti violente (si è calcolato che un pesce abbia una probabilità su centomila di morire di morte “naturale”); per l’uomo la stessa nicchia ecologica è artificiale, sotto molti aspetti. Sarebbe innaturale, per l’uomo, limitarsi a subire la natura anziché curarla, cioè mettersi al suo servizio lavorando artificialmente. Se gli ecologi recupereranno questa verità antica, diverranno i rappresentanti della scienza suprema, congiunta con la suprema saggezza. Per questo non dovranno lasciarsi paralizzare dalla testa di Medusa agitata dagli pseudoecologisti che, non solo ignorano tutto della natura, ma la negano nella sua stessa forma infraumana, non meno che umana. La testa di Gorgona serve, però, almeno a ricordare il problema. Il nostro secolo è stato il trionfo della chimica: assorbita dalla fisica, l’ha divorata; postasi al servizio della biologia, se ne è impadronita. E la chimica è scienza di morte. Ma ai disastri mentali e ambientali dei chimismi non “lirici” (come quelli di Ardengo Soffici, 1915) si può far fronte solo con un progresso della chimica, non con una sua impensabile soppressione. Infine, la parola è venuta: il chaos si può ordinare. Ne dà la buona novella un premio Nobel per la chimica (non per la fisica, notate) Ilya Prigogine che, forse, sarà ricordato come lo scienziato che ha concluso il secolo. (Einstein e i grandi intorno a lui avendolo aperto, in realtà, col chiudere i secoli precedenti).

 Al naufragio della natura fa riscontro (è ovvio) il naufragio dell’arte. Già il romanticismo si accorse che entrambe stavano per naufragare e pretese di salvarle insieme. Cosa ancor più strana, sembrò riuscirci. A lungo. Capire il romanticismo è importante per capire il Novecento e la sua fine, perché il Novecento è stato tutto una reazione al romanticismo; quindi, ancora romantico. Il romanticismo (parlo, naturalmente, del romanticismo autentico, non di quello delle dattilografe antecedenti al computer) ereditò tutto dal preromanticismo; e, ripensandolo, si pose il problema di ottenere artificialmente il naturale. E’ il programma esplicito della baronessa Eufemia negli Elisir del diavolo, di E. T. A. Hoffmann. Così il fotografo ci dice: “Assuma (artificialmente) un’espressione naturale”. Per primi i fratelli Schlegel cercarono la spontaneità nella critica, l’originalità nella storia, l’ingenuità nella dottrina. A un certo punto il Novecento non resse più. Non sopportò più un’estetica del “fanciullino” vista attraverso la cultura più raffinata. Da tempo si era passati dall’ironia spontanea di Mozart all’ironia di secondo grado di Rossini, a quella di terzo grado di Offenbach, di quarto grado di Stravinsky. Alla fine si pensò di dover rifare tutto: disintegrare l’armonia naturale, come poi l’atomo (l’analogia è di Thomas Mann), e proclamare una libertà tonale, così totale da rovesciarsi nella  prigione senza finestre della musica seriale. Di naturale son rimasti i cantautori, che stanno al loro precedente diretto, gli aedi preomerici, come un grano di polvere sta a una stella. All’inizio di questo secolo era ancora possibile essere dei “piccoli grandi”, alla maniera di Mascagni, di Cilea; perfino di Giordano. Oggi si può solo prendere atto delle ripetute proclamazioni della “morte dell’arte”, e della musica in particolare: Hegel, Gentile, Malipiero, Ugo Spirito, e potremmo arrivare fino ad Armando Plebe. Eppure non mancavano gli ingegni: il Novecento ha avuto più pittori dotati che i due secoli precedenti messi insieme. Ma, alle soglie del Duemila, esiste ancora una pittura? Esiste ancora una musica? Esiste ancora una natura?

Caduto dalla penna, il nome di Mascagni mi fa ricordare l’Accademia d’Italia. C’era lui, ma c’era anche, ad esempio, Enrico Fermi. Il nome di Pastonchi può darsi che vi faccia sorridere (o che non vi dica più nulla), ma Pirandello? Ora, immaginate di dover rifare oggi un’Accademia d’Italia. O anche del mondo. Chi ci mettereste? O supponete di dover rifare il semplice Istituto Accademico di Roma (che sulla carta esiste ancora): c’era un Montale, un Moruzzi, un Sergio Cotta, una Levi Montalcini, un Pier Luigi Nervi; o anche solo un Cassola. Oggi chi ci mettereste? Qualche matematico (sulla parola di altri matematici in grado di valutarlo, sebbene non di capirlo); qualche biologo molecolare; e, per le arti, qualche architetto. La residua grandezza di alcuni “architettori” (come li chiamava il Vasari) si spiega con quel che abbiamo detto. La natura stessa dell’architettura è produrre artefatti utili. Accade così qualche volta, nell’architettura contemporanea, che il semplice preceda ancora il complesso. Purché non lo si faccia apposta; perché allora, sulla possibilità del bello, accade che esploda il brutto. Il brutto è un fenomeno posteriore al bello e all’insignificante: un fenomeno più complesso, che cominciò con l’arte alessandrina, poi barocca, quindi romantica. E, essendo stravolgimento del bello, lo presuppone. Appunto perciò, nella musica “seria” d’oggi, dove trovare il brutto (di cui pure, quando volle, fu maestro un Beethoven)? Dove vi càpita di vedere un quadro “brutto“ se non in mostre-mercato per turisti? Solo in architettura il brutto si realizza, come non seppe realizzarlo neppure il cattivo gusto del secondo Impero francese. Segno che l’architettura è viva, perché solo ciò che è vivo muore. L’artificiale non muore. Questo è il problema che ci lascia il secolo: l’arte e l’artificiale sono legati. Ma non c’è arte se il semplice non precede il complesso. E, alla fine del secolo, sembra che di semplice non siano rimasti che i puntini. Il problema non è solo estetico, anche se, per l’esteta, questo è l’aspetto più importante. (All’inizio del secolo, ai mendicanti di Praga Kafka dava una copia manoscritta di qualche sua poesia: dono effettivamente prezioso, oggi, se fosse messo all’asta). Ma poi l’artificiale ci diede qualcosa di peggio dell’estetismo: il totalitarismo. Così diverso dalla tirannide, buona o sanguinaria che sia. Il totalitarismo è stato l’affermazione che l’uomo può e deve rifare artificialmente ogni natura, inclusa la propria. Qualcosa di simile avevano detto già filosofi conservatori, come Cartesio e Hobbes. Ma nell’Ottocento e nel Novecento quell’assunto divenne una “filosofia della prassi”: non importa se nel tentativo di praticarla, come nel marxismo, o solo di teorizzarla, come nell’“autoprassi” di Giovanni Gentile. Anche i Vangeli parlano di un uomo nuovo: ma l’uomo nuovo emerge dalla semplicità, simbolizzata nel bambino, mentre nella filosofia della prassi esso non presuppone altro che una “materia”, su cui metter le mani; e nella filosofia gentiliana dell’autoprassi non presuppone nulla. Per questo i genocidi ispirati dai totalitarismi, in particolare dal comunismo, differiscono profondamente dalle stragi d’un tempo. Quelle eran mosse da interessi egoistici, questi dalla benevola intenzione di rifare l’uomo buono dal suo interno, senza presupporre nulla, o senza presupporre altro che una materia, non intesa, però, nel senso del “materialismo volgare”, di cui parlava Marx nella sua tesi di laurea. Il risultato inevitabile è sopprimere se stessi, essendo questo il primo stadio necessario per “farsi”. “Farsi”: strana parola, caduta forse non per caso sotto la penna. Ricorda la “droga”: termine inglese che sta per “farmaco”, cioè veleno, atto a guarire o ad uccidere. Il farsi – e, quindi, il distruggersi da sé – del comunismo è la controparte del “farsi” e del distruggersi da sé dell’eroinomane. C’è identità, nell’opposizione assoluta, tra un attivismo stakanovistico e l’inattività assoluta. “Farsi”, che altro significa, se non abolizione della natura?

Questa l’eredità che il secolo spirante lascia al nuovo millennio; o al nuovo secolo; o al nuovo decennio. (Fate pure gli scongiuri: i liberali tollerano la superstizione). Una simile eredità richiederebbe il maleficio d’inventario. Riassumendo: da un lato, il Novecento è giunto alla radice dell’artificiale, sicché la realtà è divenuta virtuale, la ricchezza è divenuta know how, la macchina pura è la macchina di Turing, che non esiste, e il suo prodotto sono miliardi di puntini, che si accendono e si spengono (e potrebbero anche benissimo restare spenti tutti). Il “puntinismo” di certi pittori e musicisti del secolo è il caso particolare di un puntinismo universale. Noi stessi siamo un insieme di puntini accesi (o spenti). La teoria degli insiemi, a cui si è ridotta la matematica nel Novecento, è la teoria di questi puntini. E, quindi, anche di noi. Al tempo stesso il portare all’estremo l’artificialità dell’artefatto – ridotto ad un intersecarsi di “insiemi”, i cui elementi sono puntini, stratificati in sistemi di insiemi sempre più complessi – ha rivelato la necessità, mai apparsa prima così chiara, di un originario semplice. Semplice, non alla maniera del puntino: l’originario della natura. Senonché, la natura, uno non se la può dare: perché, se se la desse, diverrebbe artefatto. Questa situazione (volutamente contraddittoria) proposta dal romanticismo, di perseguire artificialmente la natura, ci ha tenuti in vita a lungo, in unità coronariche, ma ora il circuito si è interrotto, e bisogna provvedere. Se noi ci proponiamo di tornare alla natura artificialmente, la distruggiamo. Neppure, però, si può fare il contrario: rinunciare al nostro lavoro di enti finiti o, come diceva un tempo la religione, di “creature”. E questo è un modo di lavorare tecnico, artificiale. Un lavorare “con arte”. L’ambiguità della parola “arte” è il displuvio, da cui il nuovo secolo sembra destinato a cadere, da una parte o dall’altra. L’endiadi “arti utili” (pratiche) e arte bella (contemplativa) non va lasciata cadere. Essa non implica, peraltro, né identità, né esclusione reciproca, né reciproca indifferenza. Implica collaborazione tra il naturale e l’artificiale, ma sempre attraverso un dislivello che non va dimenticato, e che non possiamo annullare con le sole nostre forze, per quanto esse crescano.

La natura precede l’arte; e tentar di rovesciare la direzione – di perseguire artificialmente il semplice, il naturale, l’originario – ci irretirebbe in una contraddizione insolubile: in una di quelle antinomie pratiche, con cui si sono dilettati parecchi logici del nostro secolo. E, allora, che cosa si può sperare dal nuovo millennio? Quale frutto ci darà l’aver preso coscienza delle contraddizioni? Il frutto non può essere un’adorazione rituale della natura, o una retorica dei valori, o un misticismo della totalità e simili: può essere solo l’esortazione che già Erasmo e Voltaire trassero dagli antichi: “coltiva il tuo giardino”. Ossia: occupati artificialmente di piccole cose naturali, utili, gradevoli, divertenti, perfezionando la tua arte, perché le cose riescano bene. Tieni conto che il tuo giardino non è isolato, ma che è tuo. Ciò che fai risente di tutto il resto e ricade su tutto il resto; ma non volere per questo rifare tutto, tutto in una volta. Cerca, senza sapere come, che il tutto si faccia da sé: attraverso tanti individui che fanno ciascuno una piccolissima cosa; ciascuno entrando per questo in società e in conflitto con altri, che fanno altre piccole cose. Allora sarà possibile, sebbene non sicuro, che gli errori si elidano a vicenda, anziché potenziarsi entrando in risonanza. Che i tracotanti siano scoraggiati dall’organizzarsi degli umili, che, però, non si organizzano per cambiare il mondo e poi lasciare tutto com’è. La debolezza degli umili, che si maschera di compassione (la “morale degli schiavi”, deprecata da Nietzsche), è paura di ciascuno di essere se stesso, di sentirsi solo. Se questa paura, tipica del nostro secolo, verrà meno, la collaborazione si produrrà da sé, non come solidarietà retorica, ma come composizione attraverso il conflitto. Quanto più faremo piccole cose, e le faremo con arte, tanto più la natura verrà da sé, e il semplice tornerà a farsi luce attraverso il complesso. Questa non è una profezia: è una speranza.

Vittorio Mathieu


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1999