Transizioni economiche
"UNA NUOVA FASE
PER IL SINDACATO"
Intervista a Sergio D'Antoni di Vittorio Macioce

E’ il 12 ottobre del 1999. I senatori e i deputati della Commissione Bilancio si sono riuniti da una decina di minuti. Il tema, come ogni autunno, è la Finanziaria. E’ tempo di audizioni: governo, banca centrale, parti sociali. Quel giorno tocca al sindacato. Prende la parola Sergio D’Antoni, leader della Cisl, che annuncia con tono distaccato la novità: «Abbiamo posizioni diverse sulla Finanziaria, quindi parleremo tutti». Non era mai accaduto. In passato la prassi era diversa: Cgil, Cisl e Uil si esprimevano all’unisono, una voce sola per definire dubbi, rifiuti, richieste sul provvedimento centrale della politica finanziaria e di bilancio. E’ quasi la fine di un mito, quello dell’unità sindacale. La Cisl boccia le scelte del governo D’Alema. D’Antoni parla di Finanziaria al “bromuro” e annuncia: «Il 20 novembre scenderemo in piazza». Cgil e Uil non ci saranno. Forse questa fine di millennio sta sgretolando davvero alcuni architravi del vecchio mondo sindacale. E’ da qui che comincia la conversazione con D’Antoni. Il leader della Cisl ha 53 anni. E’ nato a Caltanissetta e si è laureato a Palermo in Giurisprudenza. E’ al vertice del sindacato dal 1991. In questi anni ha firmato i patti sul lavoro del ’93, che in qualche modo hanno permesso di tenere sotto controllo l’inflazione. E’ sceso in piazza contro la riforma delle pensioni del governo Berlusconi. Ha accettato, senza troppi entusiasmi, la versione “leggera” ridisegnata da Dini. E’ stato, con Cofferati e Larizza, uno dei protagonisti della concertazione. E, insieme a loro, ha vissuto la stagione dell’approccio all’euro, la riduzione del debito pubblico, i tagli alla spesa, ma anche l’aumento della pressione fiscale, l’eclissi dell’occupazione, i segni di stanchezza di un paese che ha subìto una cura pesante, debilitante, ai limiti, disperata, tardiva. Ha visto il sindacato perdere consensi sociali, soprattutto tra i più giovani, e, quasi per paradosso, diventare più forte nei palazzi che contano, occupando un ruolo politico quasi istituzionale: cogestione delle scelte economiche. E’ un sindacato che aspira ad assumere responsabilità sempre maggiori, ma che si trova a fronteggiare anche una situazione socio-economica nuova: il tramonto del posto fisso, la flessibilità come strumento principe di nuova occupazione, i contratti atipici, le tante forme di precariato. E’ un sindacato che deve fare i conti con la società dell’incertezza, quella descritta dal sociologo Bauman Zygmunt, che nasce dalla crisi del vecchio modello di welfare. E’ la società delle due repubbliche del lavoro, quella degli invaders, i privilegiati arroccati nella cittadella del lavoro regolare e iper-protetto, e quella degli outsiders: i disoccupati, i precari, gli irregolari che dalla cittadella sono perennemente esclusi. E’ la legge di un sistema che lascia senza alcun sussidio il 60 per cento delle persone che hanno perso il lavoro. E non offre nulla, meno di zero, a chi il lavoro non lo ha mai trovato. E’ qui che il sindacato si gioca la propria credibilità, una sfida di fronte alla quale Cisl, Cgil e Uil si presentano divise, forse per banali questioni di concorrenza interna, di spazi politici, di “autonomia”, come sottolinea D’Antoni. «Autonomia significa mobilitarsi anche contro un governo di sinistra – dice – una risorsa che a quanto pare Cofferati non ha. Mi dispiace per la Cgil, ma sembra non capire che ci troviamo di fronte ad una stagione nuova, che ci impone una riflessione sul nostro ruolo. E’ necessario trovare un nuovo modello di democrazia economica».

Che cosa intende per nuovo modello di democrazia economica? Messa così sembra una sorta di Seconda Repubblica dell’economia?

Lasciamo perdere la Seconda Repubblica, che ormai è un concetto che sa di vecchio, un luogo comune. Qui ci sono in ballo questioni più concrete. Io penso sia arrivato il momento di prevedere per i lavoratori una partecipazione al capitale di rischio. In pratica si tratta di garantire l’ingresso dei lavoratori nei rami alti dell’impresa, ossia prendere parte alle decisioni e alle strategie aziendali. In questo senso noi abbiamo per ora un’esperienza che ha funzionato per l’Alitalia. Era un’azienda in crisi, con davanti delle scelte dolorosissime, che oggi si confronta con successo sul mercato mondiale. E’ un risultato che in gran parte si deve a questo modello di partecipazione, che ha portato in dote la capacità di ottimizzare capitale umano e capitale finanziario. 

La sua proposta è quindi estendere il modello Alitalia a tutte le aziende italiane?

Sì, soprattutto dove una scelta del genere non presenta grossi ostacoli e, in qualche modo, può essere considerata naturale.

Cioè?

In primo luogo nelle aziende che svolgono un servizio pubblico, dove il fattore umano è decisivo per fare qualità. Magari lo è dovunque, ma qui ancora di più. Bisogna pensare ad una partecipazione matura attraverso la quale chi lavora non è più un numero, non è più un oggetto, ma un soggetto che può prendere decisioni. Così, pur rispettando il rapporto tra capitale e lavoro si può realizzare una formula di democrazia economica senza precedenti. E’ un’occasione che, a mio avviso, non si può perdere. Le condizioni ci sono, soprattutto se si fa riferimento alle privatizzazioni in corso. L’Enel, per esempio, si presta molto a questo tipo di schema.

E’ un modello di privatizzazione un po’ anomalo: meno Stato, più sindacati?

No, lo ripeto. E’ l’occasione per dare ai lavoratori un ruolo più attivo nell’azienda.

Quello di lavoratori è un concetto che può essere vago. Detto senza giri di parole: sarà il sindacato a rappresentare gli interessi di chi lavora in azienda?

Il sindacato continuerà a svolgere il suo compito tradizionale. Gestire i lavoratori attraverso le formule democratiche che conosciamo. Fare da supporto, da assistenza, da aiuto. Non è l’aumento di richiesta di potere per il sindacato. E’ soltanto l’aumento di un potere da dare ai lavoratori nel momento in cui si chiede flessibilità, nuovi assetti, più rischi, maggiore incertezza. Quello che io propongo è uno scambio. Il lavoratore accetta il rischio della flessibilità, in cambio chiede di partecipare alle decisioni dell’azienda. Non possiamo ripetere esperienze, clamorose, come quella della Telecom. Abbiamo affidato tutto al mercato e alla fine ci siamo ritrovati con un’azienda bocciata da quello stesso mercato che avevamo così tanto evocato, con il rischio che le eventuali conseguenze di ristrutturazione vengano scaricate sui lavoratori. Questo è un sistema che non può funzionare.

Ma in questo nuovo modello di democrazia economica che ruolo avrebbe, allora, il sindacato?

Anche il sindacato deve prendersi responsabilità maggiori. E’ necessario rendere più forte la concertazione, attraverso l’incontro tra le parti sull’organizzazione del lavoro, sull’orario, sulle politiche dell’occupazione e su tutte le questioni che investono l’interesse del lavoratore e quello dell’impresa. L’obiettivo dovrebbe essere quello di trovare una giusta convergenza. Il sindacato deve cercare uno spazio di manovra più ampio. Una volta tutto si risolveva nel conflitto e nel rapporto di forza, oggi questa cosa è improponibile. Noi abbiamo dimostrato di saper accettare la sfida globale della competizione, ma dobbiamo anche puntare ad assetti di partecipazione politica, diffusa sul territorio, che garantiscano l’equità. Più rischi, più competizione, ma anche un ruolo più definito nella politica economica del paese, proprio per non lasciare che la parte più debole della società venga lasciata in balìa delle perturbazioni del mercato. Noi lo diciamo da tempo: competere con equità. Accettare la sfida della globalizzazione senza, però, rinunciare ad una visione etica dell’economia. Non è un concetto nuovo. Si inserisce nel solco tracciato all’inizio del secolo dalla Rerum Novarum e ribadito all’inizio di questo decennio dalla Centesimus annus. E’ l’etica sociale della Chiesa cattolica. Dopo il crollo del sistema comunista nel mondo, questo pensiero è emerso con ancora più forza. Se il liberismo lascia sulla strada troppe diseguaglianze e la socialdemocrazia non è in grado di affrontare le sfide di questo mondo, diventa necessario trovare una linea che metta insieme un modello di democrazia economica basata sul capitale e sul lavoro. Il principio di fondo è che tutto ciò che lo Stato cede non va indistintamente all’individuo, ma finisce alla società. Si fa un gran discutere di terze vie, ma la terza via c’è sempre stata. Era in quei testi e nel nuovo rapporto tra Stato e società, impresa e lavoro. Noi siamo convinti che bisogna approfondire quei solchi: distribuire equamente ricchezza, potere e sapere.

Il suo discorso, comunque, approda ad una cogestione dell’economia tra governo e parti sociali?

Si, non dobbiamo aver paura delle parole.

Ma la concertazione, in fondo, è proprio questo. Quale sarebbe la differenza?

Non è una questione di differenze, ma di passi in avanti. Io credo sia utile radicare la politica della concertazione al territorio, pensare a dei centri decisionali dove far incontrare e coniugare gli interessi dell’impresa con quelli del lavoro. E’ una politica che deve trovare riscontri anche a livello regionale, perché poi gli interessi e le necessità delle varie aree del paese sono diversi. Va ampliata e sviluppata l’esperienza dei patti territoriali, che stanno dando buoni risultati e rappresentano un esempio di come si possano gestire in maniera intelligente le politiche dell’occupazione e dello sviluppo. Il dialogo e la collaborazione tra le parti sociali, con gli enti istituzionali che svolgono un ruolo di garanzia e promozione, permettono di identificare e superare i problemi. Senza convergenze, senza l’incontro tra le parti sociali, si finisce per offrire lavoro dove non ci sono disoccupati e investire dove non c’è forza lavoro libera. Allora il problema è trovare delle regole, ecco la concertazione, che spostino gli investimenti dove ci sono i disoccupati, creando le condizioni per farlo. E’ chiaro che questo presuppone condizioni economiche e sociali favorevoli: vantaggi fiscali, salari legati alla produttività, buone infrastrutture.

Sono anni che la Banca d’Italia consiglia, per favorire lo sviluppo delle regioni meridionali, salari meno rigidi, legati alla produttività delle singole aziende e del territorio. Il sindacato ha sempre risposto con un “no” secco, rispedendo al mittente la proposta con l’accusa di voler tornare alle gabbie salariali e di voler minare la base della contrattazione collettiva. Non è più così?

Questa non è mai stata la posizione della Cisl. Non ci spaventa un modello contrattuale che avvicini sempre di più il salario alla produttività. Anzi, per noi questo significa valorizzare ciò che noi chiamiamo il secondo livello, quello aziendale o territoriale. E’ chiaro che se si vuole legare il salario alla produttività lo si deve fare anche nelle aree e nei luoghi dove la produttività si produce. In aziende e in territori dove è presente una forte concentrazione di piccole e medie imprese. E’ chiaro altresì che bisogna prevedere, a livello nazionale, una garanzia sia normativa sia di minimo salariale. Altri Stati hanno il salario minimo deciso per legge. Noi, che non abbiamo questa tradizione, potremmo invece optare per un salario minimo per contratto. Una garanzia nazionale, quindi, per tutti, aprendo nello stesso tempo la strada ad una distribuzione salariale legata alla produttività. In questo modo si renderebbe il sistema più flessibile e dinamico, in grado però di offrire a tutti una condizione di vita dignitosa. D’altra parte credo che questo sia un passo obbligato. Siamo in una fase in cui al Sud c’è un lavoro nero da miseria, per pagare di meno, e al Nord c’è un lavoro nero da abbondanza, per pagare di più. Non possiamo far finta di nulla e continuare come niente fosse. Purtroppo altre organizzazioni mostrano contrarietà, negatività e finiscono per bloccare tutto e reprimere la spinta necessaria a modernizzare questo paese. Ci tengo a dire che nel dicembre scorso, quando bisognava rinnovare il patto di concertazione, si pose questo problema, la Confindustria e la Cgil si espressero per il mantenimento dello status quo.

E’ arrivato il momento di affrontare la questione della flessibilità, termine ormai di moda. Il problema è che si sta andando verso un sistema che da un lato è troppo rigido, dall’altro si presenta quasi senza alcuna garanzia. Sono, appunto, le due repubbliche del lavoro. La sensazione è che il sindacato, alla fine, si interessi molto poco di tutelare i non garantiti, i precari. Non è strano che in Italia il 60 per cento di chi perde il lavoro si ritrovi improvvisamente senza reddito e con scarse prospettive di rientrare presto in gioco? Non è strano che l’unico “ammortizzatore sociale” di chi è in cerca di una prima occupazione sia la famiglia? Forse è questo il sintomo più evidente di un sindacato in crisi d’identità?

Non c’è dubbio, anche se io non parlerei di crisi d’identità, ma di difficoltà legata al momento storico che stiamo vivendo, un tipico momento di transizione. Intanto la questione della flessibilità bisogna riportarla in un ambito contrattuale. Solo se contrattata, la flessibilità, può diventare una risorsa, perché sempre trasparente, sotto controllo. Resta, certo, una questione delicata. C’è un problema di tutela che riguarda l’intero mondo del lavoro. Bisogna trovare il sistema per garantire anche chi ancora non lo è. E c’è solo un modo per farlo: creare lavoro. Gli aspetti positivi della flessibilità, ciò che lei chiama precariato, ricadono sulle zone più deboli del paese. E ancora una volta ci troviamo di fronte alla questione meridionale. Anche in un’area ricca, certo, ci può essere un problema di tutela, ma è comunque più facile trovare un altro lavoro. In un’area povera le sofferenze occupazionali si complicano. Non bisogna quindi pensare a nuove forme assistenziali, ma a nuove forme produttive. Noi abbiamo nel corso degli anni ereditato, per fare un esempio, tutta questa vicenda dei lavori socialmente utili, i quali non a caso oggi sono un grave tema soprattutto nelle regioni più difficili: Campania, Sicilia e così via. I lavoratori socialmente utili sono il tipico prodotto di una logica assistenziale, che rinvia il problema al futuro. Serve altro. Bisogna attirare gli investimenti, rendendoli efficaci con un piano di mobilità professionale e di formazione. La questione del precariato non si risolve con un sistema di assistenza generalizzato. Altrimenti si condanna il Mezzogiorno sempre alla stessa sorte. Non cadiamoci più.

Lei finora ha tratteggiato uno scenario in cui il ruolo del sindacato appare fondamentale, un perno centrale nella politica di sviluppo. Ma in questo momento il sindacato non appare certo come un blocco di granito. La frattura, soprattutto, tra Cisl e Cgil appare sempre più profonda. Cosa vi divide?

L’autonomia. Noi non abbiamo avuto problemi a dire che questa Finanziaria non è utile al paese, anzi è dannosa, comunque, insipida, scritta senza coraggio, superficiale. Il governo non coglie le grandi opportunità che ci sono. Non affronta il tema dello sviluppo e del lavoro. Sottovaluta il riemergere dell’inflazione. C’è bisogno di rilanciare la domanda ridando risorse alle famiglie. C’era la possibilità, a questo fine, di utilizzare i fondi, notevoli, recuperati con la lotta all’evasione fiscale. Nulla è tornato alle famiglie. Solo una promessa nel 2000 di restituzione parziale. La Finanziaria non ci piace. Siamo pronti alla mobilitazione e alla protesta. E non ci interessa conoscere il colore e la provenienza di chi siede a Palazzo Chigi. La Cgil e la Uil, evidentemente, non godono della stessa autonomia. Noi giudichiamo il governo non dal modo in cui sono composti, ma dalle scelte che fanno. Loro no.

E’ il tramonto dell’unità sindacale?

Io dico che siamo in una nuova fase, una fase di forte competizione.

Su un fronte, comunque, le tre confederazioni tornano a fare blocco comune: i referendum proposti da Pannella e dalla Bonino

E’ un attacco indistinto. Si finisce per colpevolizzare il ruolo del sindacato in questo paese. Un ruolo che invece è stato importante. Noi non crediamo alla via leggi contro leggi. Noi crediamo che le materie sindacali debbano essere affrontate nella sede naturale, la contrattazione e, appunto, il nuovo modello di democrazia economica. Le materie che riguardano il mondo del lavoro devono essere affidate alle parti, perché sono le uniche che possono garantire un equilibrio. Alla fine questi referendum si dicono fatti per la libertà, ma in realtà perseguono la tirannia della maggioranza. Noi vogliamo la libertà di tutti.

Siete disposti ad affrontare il tema delle pensioni?

Su questi argomenti non si possono avere atteggiamenti semplicistici, come spesso si è visto, anche da parte del governo. Si crea un clima di diffidenza, di paura. E’ l’esatto contrario di quello che serve in periodi di diffusa incertezza sul futuro. Noi abbiamo fatto una riforma nel 1995, con alcuni aggiustamenti poi nel 1997, per garantire un rapporto di equilibrio tra la spesa e l’andamento del prodotto interno lordo. Poiché non siamo fuori dal mondo abbiamo detto che nel 2001 avremmo fatto una verifica per vedere se questa riforma è sufficiente per garantire questo equilibrio oppure no. Ci atteniamo ad una linea di responsabilità. Non si può ogni anno cambiare le regole a seconda delle circostanze. Non è un problema di dinamismo o di conservazione. E’ un problema di serietà, perché su una materia come questa andare avanti a strappi è proprio quanto di peggio si possa fare. Si mettono in moto processi nella testa della gente che poi si pagano. Ci siamo assunti le nostre responsabilità nel ’95, siamo pronti a rifarlo su argomenti seri, non sulla base di sussulti, di voci che si susseguono a giorni alterni sulla base di chissà quali calcoli. Non serve avere questo tipo di frenesia. Nel 2001 ci si siede e si parla di pensioni, ma anche di quello che sta avvenendo sulla crescita della ricchezza, sull’occupazione. Non prima. C’è un appuntamento, rispettiamolo.

Vittorio Macioce


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1999