Modello nord.
Gli indipendenti del Polo
LA STAGIONE
DEGLI INDIPENDENTI
di Luciano Lanna
Quando nel 1973 il
cineasta americano Don Siegel celebrava sugli schermi la figura di Charley
Varrick, un “ultimo degli indipendenti” magnificamente interpretato da
Walter Matthau, eravamo nella stagione forse meno popolare per la metafora
esistenziale e politica dell’indipendente. E come nel film il protagonista
si trova coinvolto in una solitaria lotta senza quartiere contro
un’offensiva concentrica di Stato, potere bancario e criminalità
organizzata, così nell’immaginario dell’Occidente l’ipotesi di una
sfera politica sganciata dagli apparati di partito sembrava del tutto fuori
corso, contrastata e condannata all’isolamento. In Italia, poi,
l’egemonia concettuale del sistema politico-istituzionale sembrava tutta
giocarsi intorno alle categorie di collettivo, di organico e di primato
della forma-partito. Gli unici soggetti “indipendenti” ammessi e
concessi erano quelli cosiddetti “di sinistra”: da Parri a Rodotà, da
Ossicini a Spinelli, considerati i garanti dell’affidabilità democratica
del Partito comunista. Con alle spalle biografie politiche non comuniste,
fornivano alla sinistra quella legittimazione che la politica internazionale
poteva mettere in discussione. Indipendenti, quindi, ma in una accezione
riveduta e corretta. Si trattava dell’ennesima anomalia italiana, la quale
riusciva a far passare l’idea che quando la società civile e il mondo
della cultura si schieravano non potevano che farlo scegliendo la sinistra.
Gli indipendenti di sinistra erano la prova che la società civile, la parte
produttiva del paese, il mondo della cultura non potevano che stare a
sinistra. E anche da questo assioma nascevano ipotesi come il “patto tra
le forze produttive” di scalfariana memoria. Da qualche tempo la
situazione si è però invertita. Al termine della complessa transizione
politica italiana degli anni Novanta è emerso un nuovo soggetto politico:
parliamo ovviamente della figura dell’“indipendente di destra”.
Secondo Ernesto Galli della Loggia – che vi ha dedicato un editoriale sul
Corriere della Sera – si tratta della «vera novità scaturità dalle
ultime elezioni» e del fenomeno che può cambiare il profilo politico che
ha sinora caratterizzato il Polo delle libertà. Non è un caso che negli
ultimi mesi si è parlato di “ricetta Guazzaloca”, si è più volte
fatto riferimento al modello di amministrazione del sindaco milanese
Albertini, così come è stato rilevato il nuovo rapporto tra un certo mondo
imprenditoriale e molte amministrazioni regionali e cittadine del Nord.
Quello che è però sinora mancato è un tentativo di dare forma e senso a
questi processi. Anche perché solo una adeguata interpretazione di questo
nuovo modello può smantellare i tentativi già in atto per sminuirne la
portata e disinnescarne la forza politica. E’ quanto, ad esempio, si sta
già cercando di fare col sindaco bolognese Giorgio Guazzaloca attraverso
l’applicazione di un semplice teorema: il sindaco è una persona perbene,
proviene dalla società civile, ma è altro dalle forze politiche che lo
sostengono e che, pertanto, vanno isolate e fatte esplodere nelle loro
contraddizioni. Contro questa strategia potrebbe allora tornare utile
l’avvertimento di Galli della Loggia sul buon uso degli
“indipendenti”: un buon uso che, per la verità – lo ammette lo stesso
storico e politologo – la destra «mostra di stare facendo, di voler fare,
di apprestarsi a fare».
Una partita che si
gioca al Nord
Il primo dato dal
quale occorre partire è senz’altro geografico. L’area territoriale
degli indipendenti “di destra”, dove il fenomeno è emerso in tutte le
sue valenze e potenzialità, è quella dell’Italia settentrionale. In
particolare quella di un certo Nord dove il concetto di indipendenza si
presenta anche come una costante socio-antropologica. Una stimolante chiave
di lettura in questa direzione ce la fornisce Antonio Preto, consigliere
giuridico del Parlamento europeo e autore del recente Il Nordest in Europa
(Marsilio, Venezia, 1999), uno studio in cui, alla luce di un’ampia
documentazione, viene esaminato il rapporto tra lo sviluppo
economico-sociale settentrionale e il processo di integrazione europea. Ora,
in quest’area geografica emerge uno specifico processo che ha determinato,
in una prima fase l’emarginazione sociale e politica delle popolazioni
settentrionali e, successivamente, la loro emancipazione economica in
coincidenza con la progressiva apertura delle frontiere europee e
l’incremento degli scambi commerciali. In questo contesto si è
determinata un’attitudine sociologica alla libertà economica e civile e
all’indipendenza dagli apparati statalisti e partitocratici non
riscontrabile in altre parti del paese. Quest’area è quella del Nord
pedemontano, la realtà che, secondo la definizione di Ilvo Diamanti, «è
diventata paradigma del proprio modo di essere»: si snoda dalle Alpi alla
pianura padana, dal Piemonte al Friuli Venezia Giulia e, attraverso le
province di Varese, Lecco, Como, Bergamo, Brescia, Verona, Vicenza, Padova,
Treviso, Belluno, Rovigo arriva fino all’Emilia con Ferrara, Modena e
Bologna. È la grande area che si contrappone a quello che Giuseppe Turani
chiamava il “grande Nord”: quello del triangolo industriale, quello dove
si incarna la maggior parte della grande finanza italiana, quello che ha un
rapporto privilegiato con i Palazzi politici e sindacali di Roma, quello del
modello fordista di produzione. Si individua così nel Settentrione una
precisa dialettica dipendenza/indipendenza. Lo sottolinea chiaramente Preto:
è infatti dalle popolazioni pedemontane che negli anni si è definita, «attraverso
durissimi processi selettivi, una manodopera di primordine che è sempre
riuscita a conservare, l’indipendenza e la fierezza del piccolo
proprietario che si sente padrone del proprio destino e delle proprie cose».
Indipendenza come vocazione in senso weberiano e quindi come autonoma “via
al capitalismo”. E il risultato è indiscutibile: quest’area
geo-economica è riuscita a conquistare, per imprenditorialità diffusa e
reddito pro capite, uno dei primi posti della gerarchia delle zone più
ricche ed evolute d’Europa. Queste province settentrionali hanno espresso
tassi di crescita economica unici in Europa negli ultimi dieci anni, al
punto che la Commissione europea è arrivata a considerare quest’area
sullo stesso piano della Silicon Valley. Ed è anche questa una chiave dei
paradossi dell’economia e della società italiana: di fronte ad un
contesto nazionale nel complesso stagnante, che cresce meno della media
europea, vi è una straordinaria produttività pedemontana che registra per
le sue aziende una posizione preminente nei mercati internazionali.
Pensiamo, ad esempio, al ruolo dell’industria meccanica in Veneto e in
Emilia (Carrara, Ducati), o a quello dell’industria degli occhiali nel
Nordest (Luxottica), aziende i cui nomi sono noti in tutto il mondo. Ma è
qui che si registra l’odierna sfasatura italiana tra paese reale e paese
legale: anche se è indiscutibile che l’Italia deve in gran parte a
quest’area la partecipazione alla Moneta unica, la cultura politica
dominante è restìa ad ammetterlo. «Anzi – sottolinea Preto – taluni
opinion makers descrivono questa come una regione di barbari da civilizzare,
non conoscendo che la cultura qui non è salottiera, ma fatta di
concretezza, d’efficienza, di risposte ai bisogni. Le persone si misurano
su ciò che sanno fare, non su ciò che sanno dire». Insomma, ancora il
primato dell’indipendenza, ancora la forza del pragmatismo pedemontano.
Vocazione
all’indipendenza e rappresentanza politica
Storicamente, nel
secondo dopoguerra quest’area geografica e sociale viene rappresentata in
politica dalla Dc. In un certo senso si potrebbe anche sostenere che la
Democrazia cristiana, nella formulazione e nella prassi degasperiana di
“partito laico di ispirazione cristiana”, è stato, almeno nel Nord, un
“partito di indipendenti”. Assume, a differenza del Mezzogiorno, il
ruolo di forza politica che culturalmente garantiva la rappresentanza dei
ceti medi settentrionali, senza forzature ideologiche e primati della
forma-partito. Ed è targata Dc la prima svolta politico-economica a favore
di quest’area che si verifica nel dopoguerra, quando De Gasperi spezza il
“blocco protezionistico” attraverso la scelta europeista e la
liberalizzazione degli scambi, una svolta che segna il passaggio
dall’economia rurale all’economia industriale. Del resto nel
Settentrione uno strano mix di liberalismo popolare e cattolicesimo politico
aveva bene o male organizzato attorno alla Dc un sistema di rappresentanza
della società che aveva il suo cardine nella Coldiretti e nella Cisl e che
si collegava saldamente alla Confartigianato, alla Confcommercio e alla
Confapi. La Dc svolgeva un ruolo di rappresentanza: queste organizzazioni le
“inviavano” propri associati da inserire nelle liste del partito, per i
quali le varie categorie potevano votare. Ma è un ruolo che la Dc riesce a
svolgere fino alla fine degli anni Ottanta. Poi, accade qualcosa che agli
occhi dei settentrionali tramuta questo partito in una forza garante del
centralismo e dello statalismo antieconomici. Le difficoltà di fornire un
modello di sviluppo autonomo al Mezzogiorno d’Italia avevano infatti
determinato nel frattempo una meridionalizzazione dell’apparato pubblico e
della stessa Dc come perno centrale del sistema di potere. Ne sono un
sintomo evidente i decreti Stammati del 1979, provvedimenti che prendendo il
nome dal ministro delle Finanze che li propose, azzerarono i deficit dei
comuni che avevano speso largamente al di là di quanto consentissero le
loro entrate e stabilirono il principio che i trasferimenti dello Stato agli
enti locali dovevano avvenire sulla base della “spesa storica”, vale a
dire delle spese sino ad allora sostenute. Si chiudeva una fase e se ne
apriva un’altra. Soprattutto per il Nord.
Ad avvantaggiarsi di
questi provvedimenti, e della conseguente strategia politica, furono
soprattutto le giunte di sinistra, quelle che avevano largamente praticato
la politica della spesa assistenzialistica senza controllo. E ne furono
penalizzati i comuni del Nord, quelli che storicamente avevano praticato una
politica più rigorosa, modellata sul principio che l’ente locale doveva
essere amministrato come una famiglia e non doveva spendere più di quanto
entrasse nelle casse pubbliche; quelli, inoltre, radicati nel tessuto
socio-economico del miracolo pedemontano. I dati raccolti dalla Fondazione
Agnelli sul residuo fiscale delle regioni, vale a dire il rapporto fra ciò
che le regioni danno allo Stato e ciò che ricevono sotto forma di
trasferimenti, è illuminante. In questa graduatoria la Lombardia è la
prima con un contributo fiscale di oltre 5 milioni pro capite, seguita
dall’Emilia Romagna con 3,5 milioni, dal Veneto con 3 milioni, e dal
Piemonte con poco meno di 2 milioni; il Veneto poi è, secondo le
elaborazioni dello scorso anno della Ragioneria generale dello Stato, la
regione che con 6,3 milioni pro capite riceve in assoluto meno trasferimenti
dallo Stato. Vale a dire che in termini finanziari il risanamento della
finanza pubblica avviato negli anni Novanta è stato sopportato soprattutto
dalle regioni del Nord, sia in termini di pressione fiscale che di minori
trasferimenti. Consequenziale il rigetto, a partire dagli anni Ottanta,
del partito che fino ad allora aveva garantito gli strumenti e le
regole per un’economia di mercato da parte della società civile
settentrionale. Cominciano a conoscere popolarità concetti e idee-forza
come autonomia, federalismo, liberismo. Gli indipendenti cominciano a
cercare nuovi referenti dopo il “tradimento” del partito cattolico. Da
questo punto di vista Tangentopoli e il maggioritario non sono stati che il
colpo di grazia ad un equilibrio che era già saltato. Il voto alla Lega
Nord, succeduta nel 1992 alla Dc nella rappresentanza di quest’area, si è
manifestato innanzitutto come fenomeno di rigetto nei confronti del potere
centrale e come richiesta d’autonomia. Lo stesso antimeridionalismo o il
riferimento a improbabili richiami etnico-populistici non spiegano la vera
ragione del successo leghista.
L’espansione
elettorale del Carroccio parte nell’87. Ma il fenomeno acquista il
carattere dell’eccezionalità, con un ritmo che non ha precedenti nella
storia delle democrazie rappresentative occidentali, a partire dalle
elezioni amministrative generali del 5 maggio ’90 che segnarono il punto
di svolta. Significativo è il confronto tra le professioni dei
simpatizzanti e degli elettori leghisti prima e dopo queste elezioni, come
è stato attestato da una ricerca dell’Università Cattolica: gli operai e
assimilati scendono dal 21,5 al 13,8 per cento, mentre imprenditori,
dirigenti e liberi professionisti salgono dal 7,9 al 14,1 per cento. E’
l’onda impetuosa dei ceti medi “indipendenti” del Nord che cercano in
qualche modo una nuova espressione politica. E nel ’92, alle elezioni che
segnano la discesa della Dc sotto la soglia del 30 per cento, emerge una
classe parlamentare leghista che è lo specchio sociale di questa realtà
pedemontana: piccoli imprenditori, commercianti, liberi professionisti,
animatori delle marce anti-fisco che d’un tratto arrivano a sostituire in
Parlamento politici professionisti navigati di lungo corso. E’ il trionfo
degli indipendenti. Il ’93 è l’anno chiave: Marco Formentini diventa
sindaco di Milano. Decine e decine di sindaci leghisti vanno ad amministrare
i comuni del Nord. Ma da lì a due anni si appanna anche la fase leghista.
La Lega Nord non riesce a dare risposte concrete in termini di
rappresentatività e di efficacia amministrativa. Inoltre, accantonando la
volontà di rappresentare gli indipendenti del Nord e scivolando sul terreno
minato dell’indipendentismo e della secessione (e con una classe dirigente
non all’altezza delle domande sociali settentrionali) perde
rappresentatività e consenso. Con il congresso leghista del febbraio ’97,
quello che sancì la linea secessionista, il partito sceglie il populismo
padano e l’identità etnico-nazionalista. Perdono vigore i messaggi
federalisti e liberisti, prosegue la diaspora di parlamentari, quadri ed
elettori già iniziata alla fine del ’94 con la fuoriuscita dal governo
Berlusconi. Alla fine di quest’anno è una vera débàcle. I vari spezzoni
del Carroccio cercano una via d’uscita, per lo più ristabilendo un
rapporto con il Polo delle libertà. Vito Gnutti, ex ministro leghista
dell’Industria, è molto esplicito: «La Lega da fenomeno dei ceti medi è
diventato fenomeno di popolo e così ha perso la carica del ceto medio
produttivo del Nord». E conclude: «Le idee vanno tradotte in voti, i voti
del ceto medio e dei moderati». Ceto medio del Nord che, intanto, cerca di
individuare nuovi percorsi politici: Forza Italia, Lista Bonino e,
soprattutto, l’assunzione diretta di ruoli nelle amministrazioni locali da
parte di indipendenti schierati con il Polo. E’ il laboratorio
settentrionale del nuovo modello politico vincente dei moderati. Non è un
caso che la risalita di Forza Italia sia iniziata quando Berlusconi ha
rivendicato l’eredità degasperiana del 18 aprile 1948, eredità politica
che non è – sarebbe storicamente insostenibile – quella della Dc, ma
quella dei ceti, anche produttivi, che essa rappresentava. Allo stesso modo
i radicali di Pannella e della Bonino sono riusciti a offrire una
rappresentazione di nuovi segmenti sociali, quelli interessati a una società
più dinamica e flessibile attraverso contatti con i piccoli imprenditori
del Triveneto e la Life, il sindacato già vicino alla Lega Nord. Così, la
nuova fisionomia politica del Nord che emerge da amministratori come
Guazzaloca a Bologna, Albertini a Milano, Giustina Destro a Padova, è il
segnale di una tendenza che deve farsi consapevolezza politica. Né va
sottovalutato in questo scenario il ruolo di presidenti di Regione come
Formigoni in Lombardia e Galan in Veneto, per le loro aperture al mondo
cattolico, a quello imprenditoriale, a quello autonomista. E’ un universo
magmatico che attende però una sua politicizzazione in grado di anticipare
nuovi scenari nazionali. Si è parlato molto dell’asse
Guazzaloca-Albertini. Del resto i due primi cittadini “indipendenti” a
maggiore visibilità hanno molto in comune, non solo l’amicizia di Indro
Montanelli, che pure è un sintomo di novità. Il primo è stato presidente
di Federmeccanica, il secondo dei commercianti bolognesi, entrambi
provengono dalla trincea del lavoro, usano un linguaggio che è pragmatico e
concreto ma non antipolitico. Guazzaloca –
come emerge dall’intervista che pubblichiamo – è convinto che
tra la politica d’apparato e l’antipolitica qualunquistica esista una
terza via, incarnata da soggetti che hanno una propria sensibilità, anche
politica, maturata lungo un percorso diverso da quello partitico. E ammette:
«Queste figure ci sono, esistono nella società». Si tratta di ciò che la
società indipendente del Nord (e non solo) chiede. Significherà anche
questo, forse, il clima di intesa e collaborazione che ad esempio a Milano
si è stabilito tra Albertini, la Confindustria, Romiti e le varie
espressioni del mondo imprenditoriale. Le forze economiche sono infatti alla
ricerca di una nuova classe dirigente e di una politica in grado di
coniugare il localismo con l’Europa e la globalizzazione.
Gli indipendenti
come valore aggiunto per il Polo
Non si tratta solo di
pura teoria politica: il modello socioeconomico del Nord impone da un punto
di vista amministrativo risposte nuove in termini d’infrastrutture e
servizi materiali e immateriali necessari per la crescita e il funzionamento
dei network di imprese. Senza questa capacità non solo il tessuto
economico, ma anche il sistema della rappresentanza politica decade: è
quello che si è già manifestato negli anni scorsi con le amministrazioni
tardo-democristiane e leghiste. Gli imprenditori ne hanno preso pienamente
coscienza. Le associazioni imprenditoriali e di settore sentono la necessità
di una nuova classe politica e amministrativa, magari puntando ad esprimerla
direttamente dalle loro file. Interessante, a questo riguardo, la relazione
di Pino Bisazza, presidente dell’Associazione
industriali di Vicenza, all’assemblea 1998: «Il Nordest non ha
futuro senza politica […]. E’ necessario che il Nordest sia capace di
proporre, non solo di protestare […]. Per troppo tempo abbiamo
sottovalutato l’importanza della politica, convinti di potercela fare
senza politica, delegandola per questo ad altri senza preoccuparcene troppo,
e così abbiamo contribuito a costruire un clima sfavorevole intorno alla
politica, a distruggerne l’immagine […]. Il Nordest non è riuscito a
creare una classe politica a livello di quella imprenditoriale […]. Il
Nordest ha bisogno di persone capaci di amministrare il territorio, sia di
persone in grado di interloquire a Roma, a Bruxelles, a Francoforte. Di
rappresentare e tutelare gli interessi di quest’area». E’ un chiaro
programma di impegno politico. Ed è quello che prospetta Guazzaloca quando,
contestando i partiti che trasformandosi in istituzione «si autocondannano
alla crisi e alla fine», invita i nuovi politici ad «avere percezione dei
movimenti e delle aspettative sociali». E’ un rilievo che corrisponde in
pieno all’identikit di quella nuova classe politica che la società civile
settentrionale sembrerebbe oggi sollecitare e in cui consisterebbe la nuova
“conquista del centro”. Lo conferma un’editoriale apparso sul Foglio:
«La battaglia per la conquista del centro – è l’analisi del quotidiano
diretto da Giuliano Ferrara – non ha niente a che vedere, se mai l’ha
avuto, con le formazioni nate dal vecchio mondo ex Dc: riguarda la società,
i ceti emancipati dalle trasformazioni economiche di questi anni, le
piattaforme liberali costruite dal basso, nelle città e nelle regioni oltre
che nelle categorie non riducibili all’egemonia sindacale. Uno, cento,
mille Guazzaloca».
Luciano
Lanna |
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