I dilemmi dell'eurosinistra
IL TRAMONTO DELL'UNITA'
POLITICA DELLE SINISTRE

di Eugenia Roccella Cavallari

Le divisioni che percorrono la sinistra europea sono molte, ma questo potrebbe non costituire un ostacolo insormontabile per l’individuazione di obiettivi e strategie comuni. Quello che rende davvero difficile la sintonia non è tanto la varietà delle rispettive origini storiche, o il confliggere degli interessi nazionali, ma una nuova urgenza: la definizione dell’identità della sinistra in epoca postmoderna, la costruzione di nuovi riferimenti in cui i diversi soggetti politici possano riconoscersi. Non è questione da poco, e non è questione che investa solo la sinistra. La postmodernità ha creato una cesura storica profonda, di cui si stenta a misurare la vastità, ed a cui la politica occidentale fatica ad adeguarsi; ma la sinistra, pur essendo al governo in gran parte dei Paesi europei, sembra in preda ad una confusione maggiore. A suo carico c’è la caduta, fisica e metaforica, del muro di Berlino, evento di sconvolgente forza simbolica che ha segnato la fine del secolo. Eppure il dissolversi delle antiche certezze ideologiche ha lasciato in piedi, come un guscio vuoto ma resistente, l’egemonia culturale. È alla sinistra che ancora appartengono le grandi aspettative ideali, è ai partiti di sinistra che ancora si chiede un futuro luminoso, o almeno qualche promessa in tal senso, e la delusione è un residuo amarognolo che rischia di allontanare i cittadini dalla politica. L’elettore di sinistra deluso è diventato ormai una tipologia da vignetta e da cinema, un’autoparodia interna alla propria cultura.

I motivi dello smarrimento sono abbastanza chiari se ripercorriamo, molto schematicamente, gli ultimi decenni. Con l’allentarsi della guerra fredda, la sinistra laburista, socialista, neokeynesiana, conquista un’identità sempre più forte e precisa nel mondo occidentale, parallela a quella comunista. Il confronto con il comunismo realizzato è fondamentale sia per i "partiti fratelli" dell’Occidente, sia per chi comunista non è, ma deve comunque misurarsi con un’utopia attiva. È, infatti, un’identità che si costruisce tenendo necessariamente conto dell’esistenza di un "altrove", di una possibilità concreta di alternativa al capitalismo, rappresentata dall’Unione Sovietica. Attraverso il Muro passano, sempre di più, storie di gulag e di massacri, ma l’utopia comunista resiste, si alimenta di rivoluzioni ancora più esotiche, e di nuovi contributi filosofici alla critica radicale delle società capitaliste. A tutto ciò la sinistra riformista contrappone miti di progresso, pace e giustizia sociale creati nello stesso Occidente, e incarnati da leaders carismatici come Martin Luther King o Kennedy.

Questo ampio ventaglio di posizioni ideologiche eterogenee, lontane e spesso ferocemente, sanguinosamente rivali, non solo coesistevano, ma concorrevano tutte a delineare il ritratto della sinistra. Come nelle famose "convergenze parallele" di Aldo Moro, il riformismo più cauto e moderato e l’estremismo rivoluzionario di classe avevano punti di contatto teorici e politici. Ogni elaborazione finiva con l’aggiungersi alle altre, in uno smisurato repertorio di testi e di concetti, contribuendo a creare quel tessuto connettivo ideologico che ancora oggi, pur slabbrato, costituisce l’ultima traccia di riconoscibilità della sinistra.

Per tutti gli anni Settanta, nonostante i segni di crisi siano ormai evidenti, la sinistra conserva in Europa una significativa leadership culturale e una grande capacità di iniziativa politica, anche quando è all’opposizione. Il ’68 e i movimenti di piazza degli anni successivi innescano, soprattutto sul versante dei diritti civili, effetti di modernizzazione, mentre il Welfare raggiunge forse il suo punto di massima espansione, certo quello di maggior fiducia dell’opinione pubblica nella lunga durata del sistema di garanzie statali. Eppure, le contraddizioni sono già in atto: sono gli anni della recessione economica, della crisi petrolifera, del ripiegamento dell’America, della crescita della minaccia terroristica, in Europa e non solo.

La destra, in tutto questo periodo (che potremmo, con ampia generalizzazione, situare tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli Ottanta), sembra invece perdere man mano ogni carica innovativa e trascinatrice, pur avendo nel contempo irrigidito la propria identità. La sua funzione di motore propulsivo dei valori dell’Occidente democratico, o quantomeno di diga anticomunista, una volta stabilizzati i rapporti Est-Ovest, si offusca; le rimane la tradizionale caratterizzazione conservatrice, in alcuni Paesi accompagnata da un deciso nazionalismo, ed a volte da tratti autoritari e pre-moderni. I partiti di area cattolica sfumano le loro connotazioni conservatrici, accentuando quelle centriste, e si rendono permeabili a sinistra grazie alla cultura solidaristica.

Gli anni Ottanta cambiano radicalmente la scena politica europea. È il primo impatto di consapevolezza che l’opinione pubblica occidentale ha con l’era postmoderna e, in questo momento, è un impatto euforico. La destra riesce a dare forma e rappresentazione alle nuove sensibilità, agli interessi emergenti e alle stanchezze dell’elettorato, uscendo dalla staticità. Grazie alla sintonia tra Stati Uniti e Inghilterra, ovvero Reagan e Thatcher, si crea, in Europa, una prima, profonda divisione, che resterà in eredità anche alla sinistra.

La politica thatcheriana, con la sua radicalità teorica e pragmatica, fa piazza pulita delle classiche strutture di sostegno del consenso laburista, oltre che dei luoghi comuni del neo-keynesismo. Nell’interpretazione del contratto sociale che la Thatcher divulga, è implicita la possibilità di essere continuamene "ricontrattato" a livello di mercato: si corrode così non soltanto l’immagine dello Stato assistenziale, ma anche quella, più antica, dello Stato come simbolo di continuità e di certezza. L’aggressività concettuale, linguistica e pratica della destra neoliberista, se negli Usa galvanizza la nazione e l’umiliato orgoglio americano, in Europa è uno schiaffo in faccia alla tradizione della concertazione. La Thatcher, molto amata e molto odiata, attraversa con stupefacente disinvoltura scioperi e rivolte di piazza, accompagnata dall’inorridita esecrazione delle élites culturali. Armata solo di borsetta, riesce a diventare un’ineguagliabile icona, modello, fra l’altro, di una femminilità del tutto atipica. Con intuitiva naturalezza, senza lo sforzo consapevole di costruire un’immagine, la "lady di ferro" (e già la definizione meriterebbe un’analisi a parte) diventa personaggio, affascina i media, campeggia, da protagonista, in centinaia di vignette. Il successo segnala la spontanea aderenza dello stile thatcheriano alle inesplorate esigenze della contemporaneità. È una trasformazione pionieristica (e forse anche un po’ rozza) che investe non solo i contenuti, ma anche il linguaggio della politica tradizionale, soprattutto così come è abitualmente concepita in Europa. Il neoliberismo si impone come nuovo elemento di confronto, mentre si sfalda il grande mito del comunismo e della rivoluzione: la destra anglosassone ha subìto un profondo rinnovamento che l’ha velocemente resa adeguata ai tempi, adottando nuovi stili espressivi e fornendo all’Europa un modello imitabile.

Il modello, troppo estraneo alla cultura e agli equilibri politici tradizionali dei Paesi mediterranei e del centro-Europa, non viene imitato, ma è ugualmente fonte di ispirazione. Francia, Spagna e Italia vedono, in quegli stessi anni, i partiti socialisti al governo, ma con funzioni dissimili da quelle tipiche delle socialdemocrazie nord-europee. Attraverso processi contraddittori, fluttuanti, diversi in ogni Paese, e con frequenti aggiustamenti politici e ideologici in corso d’opera, l’egemonia di Mitterrand, Craxi e González presenta però caratteri paragonabili, e si può cogliere come un fenomeno per alcuni aspetti omogeneo. Questi partiti hanno assunto un doppio ruolo, insieme stabilizzante e dinamico, aprendo spazi a nuovi ceti sociali ed a nuove forme di partecipazione, e garantendo tuttavia il vecchio ordine. La stessa dimensione della corruzione, soprattutto in Italia, si potrebbe leggere come il frutto deteriore di un’ambiguità invincibile: senza la possibilità di intaccare la gabbia legislativa e corporativa che assicura la permanenza dei vecchi assetti di potere, l’apertura ai nuovi ceti, alle nuove aree di attività imprenditoriale, ai nuovi livelli di scambi e di comunicazione, non può che avvenire in modi semi-legali, grazie a una parziale liceità di trasgressione.

Insomma, nel confuso intreccio tra partiti e società civile, i primi hanno consentito alla seconda un certo margine di evasione per leggi e regole che non potevano essere pubblicamente messe in discussione, pena l’instabilità. Non per tutti i Paesi considerati il meccanismo ha funzionato allo stesso modo, e là dove lo Stato godeva di più solide tradizioni lo spazio di mediazione dei partiti è stato molto meno significativo; in ogni caso, però, i socialisti hanno rinnovato le proprie clientele, hanno stabilito nuovi rapporti preferenziali, che poco avevano a che fare ormai con il loro elettorato storico. Va considerato, inoltre, il caso tedesco, che può sembrare in controtendenza, dato che negli stessi anni la Spd era all’opposizione. Ma Kohl, che del resto non si può ascrivere tout-court alla destra, ha contribuito a rafforzare, in quegli anni, il più ferreo e sicuro sistema di concertazione che esista in Europa, una variante di socialdemocrazia concepita da un democristiano.

Il modello anglosassone, dunque, non viene applicato, ma rimane come un’ombra proiettata su un Occidente che non può più rimanere uguale a se stesso. Gli equilibri italiani sono i primi ad esplodere: salvare capra e cavoli, cioè nuovi ceti sociali e vecchio ordine, non è possibile. Il Nord-Est, che secondo l’analisi di Giulio Tremonti (cfr. "Il nuovo blocco sociale", Ideazione n. 4/1998, pp. 38-47) è il laboratorio europeo d’avanguardia dei nuovi ceti produttivi, cerca di esprimere in proprio una rappresentanza politica attraverso la Lega nord. La crisi alimenta le mai sopite insofferenze antipartitocratiche e consente, grazie al coinvolgimento dell’opinione pubblica, una "rivoluzione" che includerà anche una regolazione di conti giudiziario-politica interna allo stesso establishment della Prima Repubblica. Ma l’Italia è un caso di frontiera: una provetta in cui interagiscono due diversi modelli possibili di sviluppo e sopravvivenza, il cui composto non si sa se esploderà o troverà, come ha fatto finora, stabilizzazioni chimiche sia pur provvisorie e in perpetuo aggiustamento.

Oggi, l’Europa della moneta unica si chiude sul tentativo di fronteggiare la trasformazione postmoderna con il minimo di cambiamenti possibili nelle strutture sociali e di potere, accettando di abbandonare le ideologie ma non le mentalità. L’elemento di cultura politica che accomuna le nuove sinistre di governo sembra essere una ricerca empirica di soluzioni che contemplino il rifiuto delle rigidità dottrinarie ma l’accoglimento rassicurante delle abitudini, delle pratiche diffuse, delle aspettative tanto a lungo coltivate. Di fronte alla pressante richiesta di conservare inalterate le sicurezze protettive di un tempo, la sinistra sembra promettere con fare paternalista: va bene, vediamo cosa si può fare. È un atteggiamento speculare rispetto a quello adottato dai socialisti degli anni Ottanta, il cui sforzo era teso a mantenere inalterato il primato della politica (o meglio dei partiti), cercando nel contempo di stabilire un rapporto con la società in movimento. Il cambiamento, allora, riguardava in primo luogo le abitudini e le mentalità, al traino di nuove possibilità di sviluppo.

Quello di cui oggi si ha timore è l’eccesso di movimento, la velocità di trasformazione che la paventata e ossessivamente ribadita globalizzazione impone. Si teme, insomma, che aprire troppi spiragli possa far crollare la casa, che trasformazione e sicurezza non siano facilmente conciliabili, perché nel mezzo, stretta fra questi due termini, c’è la società, ci sono gli individui con le loro paure. La sinistra di ieri andava al governo sotto la spinta di un’idea ottimistica di progresso e di allargamento del benessere collettivo, quella di oggi va al governo con una forte richiesta di conservazione e di tutela, a cui la destra, conservatrice o liberista, non sa rispondere. Si chiede alla sinistra che tornino le lucciole, anche se nessuno crede più nelle ricette di un tempo per farle tornare. Solo la sinistra, che ha garantito un futuro utopico, può garantire il mantenimento di un passato che sta già diventando utopico, là dove arcaismo e utopia si toccano. Il significato del crollo del Muro per il popolo di sinistra sembra alla fine essere: il paradiso era questo, era la socialdemocrazia occidentale e non ce ne eravamo accorti. Di là dal Muro non c’era nulla, ma quello stesso Muro serviva come barriera al dilagare di un capitalismo globalizzato ormai senza più argini.

La mediazione dei partiti socialisti del decennio rampante si è dimostrata fertile ma pericolosa: l’eccitazione delle nuove occasioni di arricchimento è passata, ed è rimasta, invece, la consapevolezza dei costi che ne derivano. In un’Europa sempre più popolata di anziani, serpeggia il timore per la vecchiaia e i "diritti acquisiti", l’ansia per il nuovo dovere di essere sempre in pista, sempre pronti alla riformulazione delle proprie competenze e disponibilità, all’elasticità della formazione, insomma, ad una giovanile e baldanzosa capacità di competere. E spaventa anche lo smodato allargamento di prospettiva sul mondo, che la postmodernità impone.

Eppure, proprio questo ricorrente tratto conservatore rende difficile una politica comune delle sinistre europee. L’afflato italiano all’unità di intenti (il governo si rivolge speranzoso all’Europa per risolvere i suoi casi nazionali, dalla disoccupazione a Ocalan, salvo insultarla quando mostra il duro volto delle regole) non trova una entusiastica risposta negli altri Paesi, per quanto fratelli e amici e cugini siano, per quanto condividano le 35 ore o la segreta voglia di allargare parametri economici ritenuti soffocanti.

Nessuno, infatti, desidera appellarsi a nuovi miti, a improbabili unità di bandiera, perché nessuno sa più che bandiera sventolare, e quanto uno slogan può durare. Anche i tedeschi sembrano afflitti da questo eccesso di empirismo privo di vero retroterra pragmatico, che induce a dichiarazioni buttate là e poi ritirate, più assaggi e sondaggi che scelte politiche meditate. In questa navigazione a vista, ogni nazione cerca di evitare le secche ideologiche in cui, pure, di tanto in tanto qualcuno si incaglia: vedi in Germania le questioni ecologiche e della cittadinanza, o in Italia e in Francia il demagogico e ingombrante vessillo delle 35 ore. La sinistra non può additare mete o approdi, perché è stata chiamata per fermare il tempo o almeno rallentarlo fino a renderlo inoffensivo, per prendere atto il più tardi possibile dei cambiamenti. Ma senza bandiere, senza più ideali da proporre, l’interesse nazionale torna ad essere la misura fondamentale di ogni scelta politica, appena temperato da un "interesse europeo" ancora troppo fragile per essere una variabile davvero significativa.

L’egemonia culturale della sinistra si basa sulla persistenza del desiderio utopico-progressivo, sulla richiesta di un futuro migliore, sempre più generico e indefinito, ma non per questo meno forte. La sinistra rispecchia ancora la tensione ideale verso la felicità e la bontà, proiettate sulla società e non affidate soltanto all’individuo. Il pragmatismo non è nella sua storia, se non nella versione degradata del togliattismo: per non deludere i suoi elettori, la sinistra deve mantenere un forte contenuto ideale. Ma questo, come abbiamo visto, è proprio quello che non può fare.

Gli unici che sembrano in una situazione diversa, sono i laburisti inglesi, rimasti peraltro con un piede fuori dall’Europa. Il tentativo di riformulare un’identità di sinistra è per Blair assai più facile. Se, come ha scritto Piero Ignazi, la caduta del Muro è stata, per i comunisti d’Occidente, più una liberazione che un trauma, per il Labour è stato liberatorio il ridimensionamento dei sindacati e l’improvvisa obsolescenza dello statalismo. Oggi il leader inglese può attingere alle diverse ascendenze culturali del suo partito, e combinarle liberamente con altre correnti di pensiero, creando una miscela originale. Può, come ha scritto Giacomo Marramao, partire non "dalla dialettica partitica ma dall’analisi delle trasformazioni della democrazia sociale, dove lo stesso mondo del lavoro vive mutamenti antropologici radicali". Ma avrebbero saputo, i laburisti, fare da sé quell’operazione di doloroso taglio di rami secchi, quel "lavoro sporco" che la Thatcher ha fatto anche per loro? Si può chiedere alla sinistra (e tanto più a quella post-comunista) di uccidere una parte di sé?

In Italia, al contrario, molti pensano, e dichiarano, che solo la sinistra, proprio grazie al suo stretto legame col sindacato, può fare la riforme necessarie senza turbare la pace sociale. In cambio del potere, cioè, D’Alema (perché è a lui che ci si rivolge) può accettare, e far accettare, un’auto-mutilazione. Se questo avverrà, lo verificheremo presto.

Intanto, l’Europa socialdemocratica sembra poco incline alla reciproca fiducia, a darsi mutuo soccorso in nome di battaglie ideali e consonanze ideologiche. Se le battaglie ideali vengono proclamate, vengono poi subito ritirate o annacquate (lo sta facendo Schröder, l’ha fatto Jospin, lo fa D’Alema). Si procede a tentoni, nel buio, e l’ordine di scuderia sembra: ognuno faccia da sé, e si salvi chi può.

Eugenia Roccella Cavallari


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1999