Editoriale
SEGNALI DI SVOLTA

di Domenico Mennitti

Referendum, elezione del nuovo presidente della Repubblica, consultazioni europee: non saranno tre passaggi ordinari e c’è ragione di ritenere che, a fine giugno, la politica italiana possa esprimersi dentro un quadro nuovo di riferimenti e di prospettive. La speranza, insomma, è che si possa uscire dal pantano, rimuovendo una crisi che è diventata paralizzante. L’immagine di questo stato di cose è riscontrabile nell’inerzia del Parlamento, che è bloccato su qualsiasi proposta di riforma. Tanto è vero che gli stessi parlamentari, per scrollarsi di dosso l’impotenza che li opprime, riescono a trovare una capacità d’iniziativa fuori delle aule di Camera e Senato, dove possono mescolarsi ai cittadini comuni e partecipare alla loro volontà di fare, di non arrendersi, di puntare alla modernizzazione del Paese. Il referendum va visto in questo quadro di crisi sempre più grave della politica, rimasta nel guado dopo la grande spinta verso il cambiamento impressa agli eventi nel 1993. Ora come allora, non c’è partito politico che possa fregiarsi del titolo di espressione della volontà riformatrice. Protagonisti sono ancora i cittadini che, nella paralisi del Parlamento, hanno riassunto l’iniziativa e spingono nella direzione di un sistema maggioritario compiuto. Non è vero che sia stato il maggioritario a favorire la proliferazione dei partiti nati nel Palazzo: è la mancata realizzazione del processo politico, che la riforma elettorale aveva avviato, la causa della confusione sopravvenuta. Se le forze più rappresentative della volontà popolare avessero rispettato il mandato riformatore ricevuto, avremmo il quadro definito di due grandi aggregazioni contrapposte e la stabilità non la si ricercherebbe nell’impossibile quadratura di volontà segmentate, ciascuna portatrice di interessi di parte, talvolta proprio di piccole botteghe.

Tuttavia, dopo mesi di ricaduta in una logica che a tratti ha riprodotto tutto il malessere del consociativismo, oggi la situazione è in movimento, nel senso che si è attivato un confronto, che è ossigeno per una realtà rimasta troppo a lungo asfittica ed immobile. Il fronte dell’Ulivo attraversa una fase di scomposizione che sarebbe riduttivo ricondurre solo al tentativo di rivalsa di Prodi. In verità, in quell’area si stanno facendo i conti sul tavolo della politica ed anche della cultura. L’impressione è che il saldo vedrà ridimensionato il ruolo della formazione che fa riferimento al vecchio mondo comunista. Questo, infatti, in Italia era riuscito ad eludere la resa dei conti con la sua storia e, anzi, nel momento in cui cadevano tutte le prospettive indicate per anni con tono messianico, si proponeva come il nerbo aggregante di una maggioranza che si definiva riformista.

È stato l’effetto distorsivo di Mani pulite, strumento in una prima fase di repressione della corruzione politica e poi di discriminazione con l’arbitraria scelta dei reati e dei personaggi da perseguire, ad attribuire al Pds l’innaturale ruolo di candidato alla gestione del Paese. L’irruzione di Berlusconi, la formazione del Polo, il successo dei moderati, sono eventi intervenuti a sorpresa, espressione della volontà dei cittadini, subito recuperati dalla potenza della macchina burocratica e giudiziaria dello Stato. Ma i problemi rimossi prima o poi tornano sulla strada e diventano macigni, proprio come quelli che ostruiscono il cammino a D’Alema ed alla strana compagnia che si è insediata a palazzo Chigi.

Il referendum avrà il merito di rendere più evidenti le crepe del sistema di rapporti instaurato nel 1996 sotto il simbolo dell’Ulivo, operazione elettorale e non politica, come tale a rischio di cadute improvvise e rovinose. La tenuta è rimasta buona sino a quando l’obiettivo dell’ingresso nella moneta unica è stato ragione sufficiente per restare insieme; subito dopo la coesione si è sfarinata sotto i colpi dell’assedio al potere organizzato dai Ds, perché è venuta meno qualsiasi colla appena gli obiettivi personali e di partito sono stati divergenti. L’iniziativa di Cossiga d’aggregarsi al centro-sinistra non ha modificato la natura precaria della coalizione, se mai ne ha esaltato le incongruenze.

Che la sinistra viva il suo travaglio, però, non va visto solo nell’ottica della presunta convenienza elettorale di chi l’avversa. C’è una più lungimirante convenienza politica che va messa in campo e che riguarda la possibilità che si costruisca nel tempo e nel chiarimento dei ruoli una sinistra migliore, che sappia vincere o perdere rispettando sempre le regole del gioco. Vale per essa il rilievo che nel ’94 si rivolgeva ai moderati: cioè che una cultura nuova, perché si traduca in atti e comportamenti coerenti, non può essere evocata all’improvviso.

Quanto ai moderati, essi dovrebbero uscire irrobustiti dalla bufera che di recente sembrava li avesse investiti e qualcuno sperava potesse decimarli. L’attacco di Cossiga, che s’è portato appresso un po’ di deputati e senatori, nella realtà non ha prodotto gli effetti temuti. Ora l’Udr è dispersa in Parlamento e non ha attecchito nel Paese, segno non solo che il progetto politico e culturale era lacunoso e per certi aspetti pretestuoso, ma che il Polo ormai va considerato per quello che è, un elemento permanente del quadro politico nazionale. Tutti aspirano a raccogliere l’eredità di Berlusconi, ma il personaggio non ha proprio l’aria d’essere di passaggio sulla scena politica. Le interpretazioni capziose, le distinzioni fra leader e premier, i tentativi, insomma di ritagliargli un ruolo marginale durano lo spazio di un giorno, perché poi egli riemerge come la figura intorno alla quale l’aggregazione si ricompatta.

Tuttavia, il Polo non ha motivo di che adagiarsi, magari rassicurandosi dei guai dell’Ulivo. Ci sono carenze d’iniziativa e di contenuti politici ed organizzativi che meritano attenzione e destano allarme. Il referendum ha fatto registrare un’adesione con sfumature diverse, ma non è questo il problema. Bisogna, piuttosto, cogliere l’occasione per tornare ad interpretare e guidare la domanda di cambiamento. Ribadiamo con forza che c’è una prima fondamentale discriminante nella politica italiana, che precede quella degli schieramenti programmatici e riguarda chi vuole riformare lo Stato e chi, invece, ritiene che siano sufficienti alcuni emendamenti al sistema vigente. Quando nacque Forza Italia e diede vita al Polo, questa fu la sua fondamentale istanza, tanto è vero che sullo stesso fronte si ritrovarono i vecchi elettori di centro, disillusi ed ansiosi di nuove prospettive, insieme agli ex-missini, ai leghisti, ai riformatori di Pannella ed anche ad intellettuali che erano stati comunisti e, constatato il fallimento di quella ideologia, erano alla ricerca di nuovi percorsi.

È indispensabile che il Polo recuperi l’immagine di forza del rinnovamento ed avrà modo di farlo anche in occasione dell’elezione del presidente della Repubblica. È vero che non si deve mai chiudere la porta al dibattito e che sarebbe utile che salisse al Quirinale un personaggio in grado di recepire quel che il Paese chiede. Però la trattativa non può far passare in secondo piano alcune indicazioni che hanno assunto valore di simbolo. La prima, appunto, è che alla guida dello Stato assurga un uomo dotato della sensibilità del futuro piuttosto che un oscuro custode del nostro museo. Non c’è nulla da rinnegare del passato di ciascuno, ma il dovere, oggi, è rendere competitiva l’Italia nella nuova dimensione internazionale. Che è appunto l’oggetto della competizione europea, altro passaggio che affrontiamo con una legge elettorale alla quale non s’è potuto cambiare neppure una virgola e che rischia di rendere fragile la capacità di rappresentanza della delegazione italiana.

Si profila un calendario di scadenze, che sembrano premonitrici di una nuova svolta. L’augurio è di saperla cogliere ed orientare per chiudere il capitolo della lunga transizione italiana.

Domenico Mennitti


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1999