Referendum e oltre
"SE SI VINCE, NASCE IL POLO
LIBERALDEMOCRATICO"
Intervista a Mario Segni di Mauro Mazza

"Palazzo Chigi o Quirinale?". Mario Segni una domanda così non se l’aspetta, all’inizio dell’intervista. Allora sorride, resta in silenzio, guadagna qualche secondo. Poi si decide: "Non lo dico per scaramanzia, né per falsa modestia. Ma lo sa dove mi piace immaginarmi in futuro? A Stintino d’estate e su una pista innevata d’inverno". E tra una vacanza e l’altra? "Sono sincero. Io mi sento portato, da sempre, per le operazioni politiche. Sono immodesto: per grandi operazioni politiche. Ma per conquistare posizioni di potere no, non sono tagliato. E siccome sono anche un po’ snob, lo confesso: essere così come sono mi dà grande soddisfazione". Prendo per buona la risposta, ma l’intervista non finisce qui. Anzi.

Domanda - Quando capì, nella sua vita di politico democristiano, che era necessario imboccare una strada diversa per cambiare le cose? Quando cominciò a pensare al referendum elettorale come via maestra per le riforme istituzionali?

Risposta - Lo compresi nell’autunno del 1989. Da tempo cercavo, con alcuni amici, di imporre il tema della riforma delle istituzioni. Ci fu un dibattito alla Camera sugli enti locali. Si discuteva dell’elezione diretta dei sindaci, una proposta sostenuta da un vasto schieramento, che andava dal Msi a settori della Dc e del Pci, oltre ad alcuni laici impegnati con noi, come Mauro Dutto. Potevamo farcela. Ma Craxi pose l’ultimatum ai suoi alleati. Minacciò l’uscita dalla maggioranza e non accettò nemmeno l’ipotesi di compromesso che avevano studiato Bianco e Biondi per l’elezione diretta dei sindaci soltanto nei comuni con meno di diecimila aitanti. Ci rendemmo conto che la strada parlamentare per le riforme era impraticabile. E scoprimmo la via referendaria. Ricordo una riunione nella nostra sede proprio in quei giorni. Ci dicemmo che la scelta che stavamo per compiere poteva portarci anche fuori dalla Dc, anche contro l’intero sistema dei partiti. Discutemmo a lungo. Alla fine, andammo avanti.

Vorrei risparmiare, stavolta, la storiella del biglietto della lotteria che Lei vinse e che poi gettò via... Forse è più utile ricordare gli errori commessi, nel periodo a cavallo tra la seconda vittoria referendaria (1993) e le elezioni del 27 marzo ’94, che la videro alleato di Martinazzoli e sconfitto, come la sinistra, dal Polo di Berlusconi. Segni sbagliò nel cercare ad ogni costo un’intesa con Bossi, che la sconfessò dopo poche ore? E non fu un errore rifiutare l’offerta che le venne da Berlusconi, non ancora sceso in campo?

Non ha citato quello che io ritengo l’errore più grave, che spero di non ripetere nei prossimi mesi. Avremmo dovuto mantenere unito il fronte referendario dopo la vittoria del sì. Avremmo dovuto tenere assieme Occhetto e Pannella, laici e cattolici che si erano impegnati nella campagna per la riforma elettorale. Forse, se avessimo chiesto in quel momento, tutti assieme, un’assemblea costituente... Invece, alcuni avevano fretta di elezioni, erano convinti di fare il pieno... Personalmente, avrei potuto e dovuto fare un Polo alcuni mesi prima che lo facesse Berlusconi. Ci pensai a lungo, anche la ricerca di un accordo con la Lega aveva quella motivazione. Si trattò di un tentativo azzardato, ma generoso. Una volta fallito, si disse che era sbagliato. Ma anche nel rapporto con Bossi, si può dire che fui il primo a sbagliare: il primo di una lunga serie. Quella mia azione ebbe un limite: non me la sentivo di tentare l’intesa con il Movimento sociale. Non mi ci vedevo proprio, assieme ad un partito così lontano da me e dalla mia cultura, oltre tutto anche contrapposto nel referendum appena celebrato... Ecco, di tutte le cose che avrebbe fatto in seguito, a Berlusconi riconosco il merito di aver aperto alla destra, favorendo la nascita di Alleanza nazionale. Con il Partito popolare mi trovai alleato, di fatto, dopo la rottura con Bossi. Con Martinazzoli (era con noi anche La Malfa) tentammo l’impresa di portare all’approdo del bipolarismo almeno una parte della vecchia Dc. Ricordo che perfino Pannella trattò con noi fino a poche ore dalla presentazione delle liste elettorali. Si cercava di offrire agli elettori due possibili alternative alla "gioiosa macchina da guerra" della sinistra. Fu questo il nostro intendimento di partenza, anche se l’alleanza con il Ppi (nato sulle ceneri della Dc) impedì agli elettori di percepirci come il "nuovo". E perdemmo la partita.

Al termine di quella legislatura, nella primavera del ’96, Lei restò fuori. Non si presentò alle elezioni, piazzò alcuni suoi amici del Patto nelle liste dell’Ulivo. Come arrivò a quella decisione che, a vederla oggi, sembra un suo modo di prendere la rincorsa con rinnovato slancio?

Decisi di non candidarmi in pochi minuti. Ero convintissimo che la battaglia per le riforme sarebbe stata uno dei punti cruciali della lotta politica. E dubitavo che il Parlamento avrebbe avuto la forza e la capacità di affrontare il problema. Starne fuori era la premessa per tornare a fare qualcosa di utile e di buono. Per me fu un periodo molto bello, di letture e di riposo. Poi, lanciai la campagna per la Costituente, con i Cobac. La mia battaglia era favorita dallo spettacolo di ingovernabilità che, da subito, offrì l’alleanza tra Ulivo e Rifondazione. Era un limite intrinseco nelle mancate riforme, ne soffriva il centro-sinistra così come ne aveva sofferto il centro-destra. Perdemmo la battaglia contro la Bicamerale, ma proprio in quei mesi ci tornò l’idea di un nuovo referendum elettorale.

Poi venne la Commissione presieduta da D’Alema. Non solo le riforme, ma anche il destino della nuova legge elettorale era nelle mani della Bicamerale. Pensare alla soluzione referendaria era una specie di gioco d’azzardo...

Calderisi, un giorno, mi parlò di due ragazzi radicali che avevano pensato ad una sorta di uovo di Colombo, per evitare quel vuoto legislativo che la Consulta considerava il vero motivo delle sue bocciature. Si pensò ad un referendum che contenesse, nel quesito, una legge elettorale automaticamente in vigore in caso di abrogazione della normativa vigente. L’urgenza di lanciare una campagna era evidente. Si andavano moltiplicando le nostalgie del sistema proporzionale. Anche Berlusconi, più volte, si era mostrato sensibile al proporzionalismo. Partimmo in pochi: Adornato, Scoppola, Petruccioli, Barbera...

Ad un certo punto, irruppe il neo-senatore del Mugello e sul referendum ci mise il cappello.

Di Pietro fu la novità. Portò il dibattito sul referendum alla ribalta, fu attivissimo nella raccolta delle firme. Senza Di Pietro non ce l’avremmo fatta. Tutti percepirono l’importanza della nostra avventura, una sorta di mix tra vecchi e nuovi, una compagnia davvero trasversale: Occhetto, Martino, Taradash, Cossiga…

Già, Cossiga. Un anno fa eravate vicinissimi. Anzi, sembravate impegnati a creare una forza politica nuova nel fronte moderato. Poi cosa è successo: dialogo tra sordi o lite tra sardi?

Di mezzo, tra noi, ci si è messa l’Udr. Alla fine lo ha ammesso lo stesso Cossiga, che il suo progetto è fallito. In realtà, doveva nascere una cosa completamente diversa. L’idea originaria fu dibattuta una sera, a casa di Scognamiglio. Pensavamo ad una specie di commando dentro il Polo, ad una grande iniziativa che avrebbe scompaginato Forza Italia, l’avrebbe costretta a fare i conti con la politica delle idee, delle nuove alleanze. Si immaginava un colossale rimescolamento da cui sarebbe nata una coalizione completamente nuova. Il referendum sarebbe stato un passaggio decisivo: togliendo la quota proporzionale, tutti avrebbero guardato oltre i confini dei rispettivi partiti; sarebbero stati costretti a darsi una prospettiva unitaria. Questo dicevamo con Cossiga. Poi, la storia ci ha assegnato compiti e ruoli diversi. L’Udr è arrivata troppo presto e male, e rischia di finire peggio.

Intanto, la fine della Bicamerale accelera il progetto del referendum. Senza quel fallimento, che sarebbe stato della vostra battaglia?

Se la Bicamerale ce l’avesse fatta, noi non avremmo avuto speranza. Invece, eccoci qua. Il fatto è che il referendum è un cavallo di razza: quando scende in pista, è difficile fermarne la corsa.

Adesso ci siamo, questione di settimane, ormai. Vincono i sì, poi che succede?

Tanto per cominciare, la battaglia è tutta da combattere. C’è il rischio dell’astensionismo, c’è il fronte del no e c’è quello del ni… Ma insomma, alla fine, ce la faremo. Dopo, una legge si potrà fare, ma dovrà essere in linea con il voto del referendum. Sarà molto difficile far rientrare dalla finestra il proporzionale che la maggioranza degli elettori - spero - avrà cacciato dalla porta. Dopo il voto, chi si è impegnato per il sì dovrà decidere il da farsi. Ci dovremo chiedere, ad esempio, se il referendum è una battaglia che avvicina alla meta del compiuto bipolarismo, oppure se è una incursione in territorio nemico cui seguirà una potentissima controffensiva. Ma fermarci alla legge elettorale sarebbe un errore. Dovremo pensare, piuttosto, alla battaglia per il presidenzialismo, vero caposaldo di una democrazia efficiente e moderna.

L’Italia si conferma un caso anomalo. Altrove, le riforme delle istituzioni hanno preceduto, e non seguìto, nuove leggi elettorali. Almeno in questo, la Bicamerale seguiva un percorso lineare.

Mi pare un falso problema. E’ vero che le riforme istituzionali sono il cuore del progetto di innovazione, ma la storia non ha categorie logiche che si possano applicare sempre e in ogni luogo. L’Italia sta vivendo comunque un’avventura nuova, cominciata con i nostri referendum nei primi anni Novanta. Molti partiti da allora percepiscono l’innovazione istituzionale come un pericolo. Resistono, prendono tempo, sanno che perderanno. Craxi fu sconfitto dal referendum. Le stesse inchieste di Mani pulite furono possibili perché l’esito del primo referendum aveva liberato energie e lasciato intravedere una nuova politica. I magistrati trovarono testimoni e prove, a sostegno delle loro indagini. Qualche anno prima si sarebbero fermati, non avrebbero trovato nessuno disposto ad ascoltarli.

Lei parla di un bipolarismo compiuto. Come se li immagina, i due schieramenti contrapposti, tra qualche tempo?

Il movimento referendario 1990-93 venne interpretato come un soggetto politico unitario da gran parte dell’elettorato. Questa percezione fu un limite del movimento, perché in effetti il nostro non era un soggetto politico nascente. Eppure, lo si viveva così dall’esterno. Mi ricordo che, dopo il comizio di piazza Navona, nel ’93, si avvicinò un militante del Pds e mi disse: "Bravo Segni, tu sei proprio un bravo compagno". Noi eravamo, tutti assieme, una sorta di Comitato di liberazione che, dopo la prima e la seconda vittoria, si disciolse prima ancora di vincere la partita del cambiamento. Oggi mi pare che sia diverso, almeno in questo. Il nostro movimento si pone come una compagnia di esponenti politici uniti nel riformismo per cambiare non uno soltanto, ma tutti e due gli schieramenti di appartenenza. In tutti e due convivono voglia di cambiamento e istinto di conservazione. Bisogna che il cambiamento prevalga.

Chi vede irrimediabilmente dall’altra parte? Chi considera irrecuperabile tra gli attuali conservatori?

Nel centro-sinistra c’è una divaricazione sempre più netta tra il mondo ulivista e D’Alema. Da una parte, c’è il desiderio di far nascere un grande partito democratico che raccolga i progressisti; dall’altra parte, c’è l’idea del partito vecchia maniera. Prendiamo il Pds. Occhetto è stato un innovatore, è il leader che ha rotto con il passato, che si schierò dall’inizio per il referendum. D’Alema rappresenta l’altra storia della sinistra, ancora legata agli schemi del vecchio Pci. Veltroni si viene a trovare oggi in una posizione difficilissima: è referendario, ulivista, convinto bipolarista; ma è anche leader dei Ds, partito agitato da spinte diverse e contrapposte. Credo, però, che Veltroni saprà essere coerente in tutta la campagna referendaria. Quanto al Ppi, questo partito è l’erede della cultura partitocratica che visse nella Dc. Ne è rimasto prigioniero.

In queste suddivisioni, che posto assegnerebbe al presidente Scalfaro?

Scalfaro cominciò la sua vita politica nell’immediato dopoguerra. Non trovo scandaloso che, rispetto alle innovazioni possibili nella politica e nelle istituzioni, egli mantenga un atteggiamento prudente. Però a Scalfaro va riconosciuta assoluta estraneità rispetto alle dietrologie che ne avevano fatto bersaglio a ridosso della decisione della Corte costituzionale sul referendum.

Parliamo allora dello schieramento moderato, del Polo (o come si chiamerà tra qualche tempo) o "armata liberaldemocratica"... Lei pare decisamente collocato da questa parte. Facciamo anche qui la lista dei buoni e dei cattivi? Dicono che Lei ce l’abbia soprattutto con Berlusconi...

Non è vero. Berlusconi riassume in sé, nelle sue posizioni, spinte contrastanti. Dentro Forza Italia si stanno manifestando due strategie nettamente contrapposte: l’una porta al bipolarismo compiuto, anche attraverso il referendum (Martino, Taradash, Calderisi); l’altra conduce ad un centrismo politico, che ucciderebbe il bipolarismo ed il maggioritario (penso a Urbani, a Baget Bozzo, ora anche a Tremonti). Tenere assieme queste cose è difficilissimo. Non è per la presenza di Di Pietro che Berlusconi non è schierato nettamente con noi, ma per la sua necessità di non delegittimare una parte della dirigenza di Forza Italia. L’idea dell’armata liberaldemocratica vuole fare di quest’area il motore che guiderà il Paese alla fine della transizione. Il referendum è un’arma straordinaria, che permette di tagliare il campo al fronte dei conservatori. L’armata dovrà farsi carico delle altre tappe del cambiamento: presidenzialismo, federalismo, antistatalismo. Io sono sicuro che Berlusconi è su queste posizioni. Mi piacerebbe confrontarmi con lui, parlare di questa nuova fase che presto si dovrà aprire. Ma non riesco ad incontrarlo. E questo è un peccato.

In compenso, Segni e Fini ormai vanno a braccetto. Sarà mica anche questa strana coppia a giustificare qualche diffidenza da parte di Berlusconi? Non crede che il leader di An, in questa campagna referendaria, ci metta anche un po’ di interesse politico e personale?

E’ chiaro che convivono convinzioni profonde ed interessi tattici. Ma ricordo che la cultura presidenzialistica è nel dna della destra italiana, fin dai tempi di Almirante. Ho ricordato la comune battaglia parlamentare per l’elezione diretta dei sindaci. Evidentemente, An ha tutto l’interesse ad impedire che si formi un centro moderato al quale aggregarsi in posizione non paritaria. Io sono convinto di una cosa: l’affermarsi di un centro che voglia tagliare le ali alla destra (o, in teoria, alla sinistra) sarebbe nefando per il Paese. La storia di questi nostri anni ha dimostrato che il maggioritario giova ai due schieramenti perché spinge la destra e la sinistra su posizioni moderate. Una loro messa ai margini indurrebbe, invece, all’estremismo. Direi che An è interessata a costruire un vero bipolarismo, così come il bipolarismo è di aiuto all’evoluzione della destra.

I partiti politici come li conosciamo oggi avranno un futuro?

Sono già morti. Molti non se ne sono ancora accorti. Non li ho uccisi io. E nemmeno Di Pietro. Erano da tempo delle bucce vuote. Prendiamo i Democratici di sinistra: stanno pagando un prezzo altissimo per aver conservato troppo della vecchia struttura del Pci. Le adesioni all’avventura cominciata ora da Prodi dimostrano che anche una sinistra, che per decenni è stata comunista, sente prepotente la spinta al superamento delle gabbie partitiche.

Alle elezioni europee sarà candidato?

Lo giuro, non ci ho pensato.

Ci riprovo, con quella domanda iniziale. Formulata così: da dove pensa che possa essere meglio guidata la nuova fase della transizione politica e istituzionale: da palazzo Chigi o dal Quirinale?

Tutte le cose dette e le cose fatte in questi anni mi fanno ritenere che, ancora per i prossimi anni, il motore del cambiamento dovrà essere il governo. Non penso ad un esecutivo qualsiasi, ma ad un governo che dell’impegno riformatore abbia fatto il cuore della sua proposta agli elettori. Vinte le elezioni con questo programma, un esecutivo per le riforme potrebbe trasformare il prossimo Parlamento in una vera e propria Assemblea costituente. A quel punto, la rivoluzione istituzionale potrebbe finalmente essere completata.

Mauro Mazza


Torna al sommario


Archivio
1999