Una guerra europea
CARTOLINE 
DI GUERRA E DI PACE

di Pierluigi Mennitti

Tirana, 11 aprile 1999, diciannovesimo giorno di guerra. Ieri l’esercito serbo ha bombardato, per la prima volta dall’inizio del conflitto, i villaggi albanesi al confine con il Kosovo. In questi piccoli centri si addensano e ripiegano i soldati dell’Uçk, l’esercito di liberazione del Kosovo. Sono loro il bersaglio dei serbi. Bilancio dell’attacco: due morti e dodici feriti, tutti civili. La notizia rimbalzerà sui quotidiani del giorno dopo che titoleranno a caratteri cubitali sul rischio di un allargamento del conflitto. Eppure a Tirana, da giorni retrovia in fibrillazione di questa guerra, la vita sembra scorrere come sempre. In piazza Skanderbeg le caotiche file di Mercedes e Volvo che ormai ingorgano il traffico della capitale vomitano uno smog nero che strozza la gola. I clacson delle auto compongono una nuova colonna sonora, di tanto in tanto spezzata dal rombo degli aerei da guerra della Nato e dal canto roco e malinconico del muezzin che si leva dai minareti. Una giornata come tante altre a Tirana, mentre al confine nord impazzano i combattimenti e nei campi allestiti alla periferia si consuma la tragedia dei deportati, affluiti a centinaia di migliaia dal Kosovo.

Siamo venuti in Albania per vedere da vicino come vive un paese in guerra, una guerra moderna fatta di bombardamenti a distanza e di profughi usati come armi, una guerra del Ventunesimo secolo senza truppe di terra e con tecnologie sofisticatissime ma in uno scenario che offre il peggior campionario del secolo che si chiude: odii atavici, nazionalismi, comunismi, pulizie etniche, campi di concentramento e deportazioni. Abbiamo raccolto spicchi di verità e spezzoni di vita, un puzzle composito di azioni e reazioni, complesso e contorto come lo sono questi maledetti Balcani. Un puzzle terribile che da almeno dieci anni è entrato nelle nostre case, nelle nostre vite, anche se abbiamo tardato un po’ troppo ad accorgercene. Un puzzle con il quale siamo oggi costretti a fare i conti. Cartoline di guerra e cartoline di pace si alternano in questo reportage: le proponiamo ai nostri lettori come testimonianza e ricordo di questi giorni terribili.

Cartolina di guerra: i deportati

La pulizia etnica ha il volto di Valon, studente quindicenne del liceo ginnasio di Gjakova (Dakovica in serbo), fino a ieri tranquillo villaggio kosovaro, una cinquantina di chilometri a sud-ovest di Pristina, oggi ridotto a un cumulo di macerie fumanti dallo sporco lavoro delle milizie serbe di Arkan. Valon è ospite da giorni nel palazzetto dello sport di Tirana che funge da luogo di raccolta e prima accoglienza dei deportati. Fa lo sguardo duro di chi si sta costruendo una leadership all’interno del campo: zittisce un anziano che si inserisce nella nostra conversazione per maledire dieci, cento, mille volte Arkan, detta le condizioni dell’intervista ("No, il cognome non lo scrivete, vorrei restare anonimo") e racconta. Racconta una tragica storia personale che ricalca perfettamente quella dei tantissimi altri deportati ospitati nei campi o presso le famiglie albanesi. E’ la tecnica della pulizia etnica: irruzione dei soldati paramilitari nella sua casa, ordine di sgombrare entro un’ora, ricerca affannosa di qualche straccio e qualche ricordo da infilare in uno zaino, sguardi terrorizzati verso i propri familiari, quindi fuori, un’ultima occhiata alla propria dimora poi in fila verso la periferia della città. Qui il gruppo di Valon viene diviso: gli uomini da un lato, le donne i vecchi e i bambini dall’altro. Grida, disperazione, paura. Gli uomini salutano le proprie mogli, i propri padri, i propri figli e scompaiono. Gli altri riprendono il cammino. Una lunga fila dolente si incammina verso il confine indicato dalle milizie: per Valon si tratta di Kukës, il villaggio albanese che resterà simbolo di questa deportazione. Più volte vengono fermati da altri soldati serbi che costeggiano il percorso. Ogni volta qualcuno viene additato, chiamato fuori, rapito. Un giovane sfuggito al primo rastrellamento, una donna alla quale far saggiare il machismo del valoroso esercito serbo. Qualche altro lascia il gruppo volontariamente. Un vecchio che non ce la fa più a camminare, un bimbo che muore di stenti. Valon osserva tutto, registra ogni cosa, riempie il suo cuore di odio: "Voglio andare via subito di qui – dice mostrando le squallide mura di questo palazzetto – sto cercando di contattare quelli dell’Uçk per combattere con loro". I suoi quindici anni sono svaniti, i suoi occhi neri come il carbone vedono solo armi e battaglie, il suo orizzonte si ferma a Gjakova, la città che sogna di riconquistare alla testa di un esercito scalcinato.

Cartolina di pace: gli albanesi

Adriana Dedja ha le guance scavate e gli occhi gonfi di chi, da due settimane, non chiude occhio. Seduta dietro un lungo tavolo di legno nel palazzetto dello sport di Tirana, ricostruisce l’identità dei trecentomila profughi che arrivano dalla frontiera. Con il suo sorriso sdentato chiede pazientemente ad ognuno nome, cognome, data di nascita e luogo di provenienza. Appunta diligentemente i dati su un foglio che si trasforma nella nuova carta d’identità di ogni deportato. Adriana è una delle tante volontarie che si è buttata anima e corpo in questa emergenza. Dimostra assai più dei quarant’anni che dichiara ma dalle sue pazienti parole traspare l’orgoglio di chi, con pochi mezzi e con strutture inadeguate, sta facendo fronte a una delle più grandi tragedie umanitarie dal dopoguerra. "In questo palazzetto giungono tutti i profughi che troveranno ospitalità nell’area di Tirana. E sono la maggioranza perché molti di loro rifiutano di andare in altre zone. Noi li registriamo e gli offriamo la prima assistenza. Un piatto di fagioli, un tozzo di pane, una doccia, una visita medica. Poi li assegnamo ad un campo o li affidiamo a una famiglia albanese". I dati che Adriana ci comunica sono impressionanti: su dieci profughi, quattro finiscono nelle tendopoli, sei vengono adottati dagli albanesi. Le case di Tirana scoppiano, la popolazione è quasi raddoppiata, non c’è famiglia che non ospiti tre, quattro fino a dieci profughi. In case piccole e disagiate, il povero popolo albanese ha scoperto una solidarietà inattesa che inorgoglisce loro e commuove il mondo intero. O meglio, dovrebbe commuovere. Perché le notizie (vere) riportate da alcuni giornali occidentali sulle razzie ai convogli degli aiuti umanitari rischiano di offuscare questo slancio incredibile. E’ il solito luogo comune dell’albanese ladro e mafioso che si sovrappone alla realtà di un popolo povero ma infinitamente generoso che ha saputo trasformare una stamberga in un residence e un misero piatto di fagioli in una prelibatezza.

Cartolina di guerra: la storia di Jamila

Non è solo un piatto di fagioli quello che Besim può offrire ai suoi nuovi ospiti kosovari. Besim, quarant’anni, viene definito dai suoi amici un uomo d’affari. Ma in Albania il business è qualcosa che insospettisce l’occidentale abituato a manager in grisaglia o doppiopetto blu. Lui, al contrario, indossa una tuta da ginnastica dai colori sgargianti, utilizza il telefono cellulare come fosse uno scettro, governa il gruppo familiare con l’autorità di chi non deve chiedere mai. Non indaghiamo sul tipo di affari che svolge anche perché Besim accoglie nella sua casa due giovani kosovari, Jamila, una bella ragazza di sedici anni e suo fratello di tredici; e questo, ai nostri occhi, lo libera da ogni peccato. E’ orgoglioso di poter offrire ai suoi nuovi ospiti un po’ di quel benessere che riesce ad assicurare alla sua famiglia: "In questa casa non avranno problemi, giocano con i miei figli, mangiano alla nostra tavola, se sarà necessario andranno pure a scuola. Cerchiamo di fornire loro quel calore familiare che non hanno più". La casa di Besim è un palazzotto moderno, addirittura lussuoso per gli standard di Tirana. Trasuda nuova ricchezza da ogni angolo: mobili pacchiani ma comodi, caminetti sontuosi, riscaldamento autonomo (questo sì un vero lusso) e un angolo bar luccicante di bottiglie: "Il whisky è americano originale, l’ho comprato in Grecia, non è annacquato come quello che vendono qui in Albania". Jamila si sente un po’ a disagio in questa casa dove ogni cosa è posizionata per essere notata. Ma sta riacquistando, giorno dopo giorno, notte dopo notte, la voglia di vivere. Mentre il fratello discute di calcio italiano con il nipote di Besim, Jamila racconta le sue ultime giornate in Kosovo. Abitava a Peje (Pec in serbo), quasi al confine con il Montenegro ed è lì che i soldati serbi l’hanno presa assieme a tutta la sua famiglia: padre, madre e cinque fratelli maschi. Il film di quei momenti le scorre davanti agli occhi e il racconto è fra i più crudeli che abbiamo ascoltato. La famiglia raccoglie in fretta le cose più care, prepara fagotti leggeri ed esce di casa. Jamila prende per mano uno dei fratelli, quello che accompagnerà sino al confine di Kukës. La madre raduna attorno a sé altri tre fratellini, il più grande si attarda con il padre a chiudere la porta di casa. I soldati serbi li incalzano con il calcio del fucile, urlano, sputano, sembrano drogati. Il fratello più grande reagisce, ha un segno di stizza e loro lo freddano lì, sul portone di casa, di fronte al padre impotente. La scena si fa confusa, sangue, grida, pianti, il padre che invita il resto della famiglia a correre via, i soldati che lo afferrano e lo caricano su un camion, la madre che scappa verso la casa di alcuni vicini. Jamila, assieme al fratello tredicenne, s’intruppa nella lunga fila dei deportati che viene spinta da altre soldataglie fuori dalla città. Saranno lunghi giorni di cammino sotto la pioggia e il vento e, guardando i bei lineamenti di Jamila, sembra quasi un miracolo che sia scampata ad altre torture. Della madre e degli altri fratelli non sa nulla. La notizia che Besim è riuscito a raccogliere da altri profughi di quella città è che di Peje è rimasto ben poco. Ha tentato di rintracciare anche il padre di Jamila contattando alcuni "amici influenti" del Montenegro. Gli hanno consigliato di non cercarlo più.

Cartolina di pace: i campi di Durazzo

Appena fuori dalla città costiera di Durazzo, sulla superstrada dissestata che la collega a Tirana, appare a destra uno dei campi profughi allestiti dagli italiani, gli unici che hanno fatto seguire alle promesse un aiuto concreto. Il campo può accogliere solo un certo numero di persone, così proprio di fronte, sul lato sinistro della carreggiata, un gruppo altrettanto grande di deportati si è accampato con mezzi di fortuna. C’è chi utilizza lunghe strisce di cellophane per costruire un riparo di fortuna, chi si industria con assi di legno o frasche secche. Purtroppo qui è ancora inverno e ogni acquazzone mette a dura prova questo piccolo insediamento di nomadi per forza. Gli unici a restituire un po’ di allegria sono i bambini che sguazzano divertiti da una pozzanghera all’altra, gridano, si inseguono, giocano riempiendo di risate questo campo improvvisato. Dall’altra parte, nel campo organizzato, la vita scorre più scandita e monotona. Le famiglie vivono sotto le tende e, quando il tempo lo permette, escono sulla "veranda" a fare quattro chiacchere. Ad ore stabilite si mettono in fila per il rancio, ordinati, puliti. Qui non ci sono gli schiamazzi dei bambini ma il sordo e lento mormorio dei vecchi che si riuniscono attorno a un tavolo da campeggio per una partita di carte. Nel campo attrezzato e nell’accampamento improvvisato colpiscono la compostezza delle persone, la pacatezza dei gesti. Protestassero un po’, si lamentassero di qualcosa, almeno renderebbero il nostro rimorso meno atroce. E invece quei loro sguardi disarmanti, quei ripetuti ringraziamenti – quella sequela di: "faleminderit!" – sussurrati in ogni momento, colpiscono dritto al cuore. Come abbiamo fatto ad attendere così a lungo e a permettere che questi vecchi, queste donne e questi bambini venissero trattati come bestie da macello? Perché, nei mesi scorsi, abbiamo rivolto lo sguardo dall’altra parte quando ricominciava la pulizia etnica dei serbi? Per fortuna che ci sono i bambini che gridano, ridono e sguazzano nelle pozzanghere schizzandoci il fango sui pantaloni.

Cartolina di guerra: quando chiama l’Uçk

S’imbarcano sul traghetto Palladio, nel porto di Bari. Hanno percorso la penisola in treno, partendo dai luoghi storici dell’immigrazione balcanica: Germania, Austria, Svizzera, Italia del Nord. Volti stanchi e preoccupati, occhi buoni. Sono i volontari che l’Uçk, l’esercito di liberazione del Kosovo, sta richiamando in Albania per tentare di rinforzare la resistenza contro la Serbia. Gente abituata da tanti anni al benessere dell’Occidente che fai difficoltà ad immaginare con un kalashnikov in mano a marciare nel fango del Kosovo. Eppure ritornano, attratti dagli appelli degli ufficiali di un esercito che si conosce appena, i cui capi agiscono in clandestinità, la cui forza viene messa costantemente in dubbio dalle offensive delle milizie avversarie. Le troupe televisive tedesche si aggirano per gli ampi saloni del traghetto, filmando i volti spaesati di questi ragazzi e montando servizi spettacolari che raccontano di giovani duri che ritornano nei loro feudi medievali a brandir spade e insegne. A noi sembrano figli del nostro tempo, un po’ intimoriti, che avrebbero una gran voglia di rituffarsi nella bolgia di una discoteca di Zurigo il sabato notte. E invece si lasciano cullare dalle onde lunghe di questo mercoledì notte sull’Adriatico, immaginando montagne verdi da liberare. Una volta sbarcati sulla banchina di Durazzo verranno prelevati da ufficiali in divisa, caricati su autobus scassati e trasferiti nei villaggi del nord dell’Albania (quelli bombardati dai serbi). Qui troveranno le divise dell’Uçk, le armi generosamente fornite dall’Occidente e altri ufficiali pronti a istruire un corso accelerato di guerriglia. L’indomani si addentreranno in quel territorio dolce e terribile che è il Kosovo, una patria di cui avevano cominciato a dimenticare i contorni. E che Dio li protegga.

Cartolina di pace: la guerra delle tv

Da molte sere alle 23 in punto ogni televisore di Tirana viene sintonizzato sulle frequenze di Tele Arbëria, una delle tv private emergenti d’Albania. Lo "Speciale Kosova" inchioda fino a notte fonda i telespettatori alle poltrone. Tra un servizio in diretta, un’intervista telefonica, una presenza politica in studio e un salto sulle pagine internet dei giornali occidentali, i giornalisti riassumono le notizie principali della giornata, dibattono le questioni geopolitiche sul tappeto, informano sulle nuove strategie militari e sulle opinioni dei leader politici dei paesi Nato. La star del momento è Enkel Demi, 27 anni, un passato di caporedattore e direttore di quotidiani e riviste. Enkel è una specie di Santoro di destra, il Santoro dei bei tempi di Samarcanda, che rompe la paludata scena televisiva albanese stanando i politici locali dai loro gusci protetti e mettendoli di fronte alle loro responsabilità. E’ un giornalista di destra ma non c’è simpatia politica che tenga. Che sia di destra o di sinistra, il politico di turno deve rispondere a una serie incalzante di domande e, quasi sempre, ne esce con le ossa rotte. Il giornalismo schipetaro è nel complesso piuttosto accondiscendente con il mondo politico e questo atteggiamento spregiudicato di intervistare incanta la gente. "Più che a Santoro – dice Enkel Demi – mi piace rifarmi al vostro Minoli, uno che sapeva tenere un ritmo nelle sue trasmissioni". E di ritmo lo "Speciale Kosova" ne ha parecchio. Interviste a politici e giornalisti italiani (Sgarbi, Fini, Antonio Russo, l’inviato di Radio Radicale bloccato per giorni a Pristina e unico testimone delle atrocità serbe in Kosovo), immagini degli effetti dei bombardamenti Nato, aggiornamenti a ripetizione. Un uso sapiente delle nuove tecnologie e uno studio allestito con scenografie da Cnn, nonostante la povertà dei mezzi e l’imprecisione della regia. E’ l’alba delle tv private, che stanno spezzando il monopolio della tv pubblica e anche lo strapotere delle tv italiane. Alle spalle di Bruno Vespa, Gad Lerner, Enrico Mentana ed Emilio Fede spunta Enkel Demi, che da albanese racconta la guerra agli albanesi.

Cartolina di guerra: il muro di Tirana

Non c’è pace per questa capitale zuppa di pioggia nei giorni della guerra. Le notizie che giungono dal fronte nord sono, ogni giorno che passa, sempre più inquietanti e coinvolgono l’Albania direttamente nel conflitto. Negli ambienti politici schipetari, l’euforia del primo momento per i bombardamenti della Nato lascia il passo allo sgomento e ai proclami roboanti per gli sconfinamenti delle truppe serbe nel territorio di casa. L’Albania va alla guerra e si appresta a diventare la vera portaerei dell’Alleanza Atlantica, degli Stati Uniti, nell’ipotesi di un attacco di terra. Arriva lo zio d’America, e tutti sperano che, alla fine del conflitto, sia più riconoscente e generoso di quanto non sia stato lo zio d’Italia. L’Albania è in vendita al migliore offerente. E c’è una sorta di fatalismo tragico in questo "tanto peggio tanto meglio", come se la ripresa del paese potesse venire solo da un Piano Marshall, dal consolidamento del cosiddetto "corridoio otto" (la via del gasdotto che passerà da Durazzo) e da una sorta di militarizzazione del territorio. E’ paradossale per un paese così orgoglioso, nel quale i mille bunker costruiti dal dittatore comunista Hoxha, che ancora puntellano le vallate, ci ricordano che questa gente ha vissuto per quarant’anni nell’incubo paranoico di un’invasione. Ma tant’è. Brulica di gente il mercato nero del cambio, all’incrocio tra Rruga Myslym Shyri e Rruga Dësmorët e 4 Shkurtit, dove decine di uomini stazionano indaffarati maneggiando leke, dollari, marchi e lire. Si alza forte il vociare al Caffé dei giornalisti, dove gli abili commentatori dei bizantinismi della politica albanese annegano le loro penne nei bicchieri di cognac e fernet. Si anima il dibattito nei circoli dei giovani poeti e letterati, tutti impegnati a tradurre il meglio della produzione occidentale sulla bella rivista Aleph, diretta da Gentian Coçoli, un trentenne di Girocastro dai modi garbati ed eleganti. Insomma batte il cuore di Tirana, una specie di Calcutta europea, dove i palazzi in stile realsocialista privi di intonaco pencolano ai lati delle strade come scheletri in decomposizione, le strade sono asfaltate per metà e quella metà è piena di buche e quando piove salta la fragile rete fognaria trasformando le vie in fiumi maleodoranti. Per reagire a questa miseria, per superarla inseguendo ancora una volta il sogno irrefrenabile del benessere occidentale, qui a Tirana la guerra contro Milosevic è una benedizione e i suoi scopi appaiono chiarissimi: inglobare in maniera definitiva l’Albania nella sfera d’influenza occidentale, assegnarle un ruolo militare di primo piano nel complesso scacchiere balcanico, avviare un processo di integrazione territoriale delle aree etniche omogenee. S’intravvede la Grande Albania. E a nulla vale lo scetticismo e la paura di noi occidentali di fronte a questo progetto. Piuttosto che riempirsi le scarpe di fango e lo stomaco di fagioli, gli albanesi sono disposti a veder trasformare i Balcani in uno scenario tipo quello europeo dopo la seconda guerra mondiale: "Quanti anni sono rimasti gli americani in Germania dopo il nazismo?", chiede retoricamente Bledar Zaganjori, editorialista principe della Gazeta Shqiptare, il quotidiano più autorevole della città. Già, quanti anni? E quanti muri, quanti chilometri di filo spinato, quante torrette, quanti vopos? Abbattuto nel cuore dell’Europa, l’armamentario della guerra fredda torna di moda nei Balcani per suggellare nuovi equilibri e nuovi rapporti di forza scaturiti dalla guerra calda di questi mesi. E gli albanesi sperano, questa volta, di capitare dalla parte dei vincitori.

Pierluigi Mennitti


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1999