Partitocrazia senza partiti
LA PARTITOCRAZIA
SENZA I PARTITI
di Giovanni Orsina

Nata come facezia da salotto, la battuta di Winston Churchill secondo la quale la democrazia sarebbe il peggiore dei sistemi di governo, una volta però che siano stati esclusi tutti gli altri, si sta trasformando in una plausibile descrizione della realtà – almeno da quando la fine del comunismo ha sembrato eliminare ogni ipotesi alternativa di organizzazione del potere, lasciando così emergere i gravi difetti che tormentano i regimi democratici. Nel mondo occidentale le istituzioni rappresentative non sembrano più in grado di inseguire un’opinione pubblica eterogenea, volubile, attaversata da infinite differenti identità, esigenze, convinzioni. E inoltre consapevole e disincantata, capace di interpretare e smascherare senza grandi difficoltà quel gioco di mistificazioni e manipolazioni che rappresenta una componente normale ed essenziale dell’attività politica, e di reclamare quindi un’organizzazione del potere che si ispiri più da vicino ai princìpi fondanti della democrazia. Quelle istituzioni, d’altra parte, si stanno anche dimostrando straordinariamente resistenti. Le loro ancora considerevoli capacità di rispecchiare l’opinione pubblica, il patrimonio di legittimità che hanno accumulato nel corso di decenni – in alcuni casi di secoli – la loro perizia nel riformarsi e la loro efficienza, unite alla forza d’inerzia e all’assenza di alternative chiare e condivise, hanno finora consentito alle assemblee parlamentari e ai governi dell’Europa occidentale e degli Stati Uniti di conservarsi grosso modo immutati anche nel bel mezzo di una seria crisi di rappresentatività.

Le attuali circostanze istituzionali e politiche dell’Italia possono senz’altro essere interpretate secondo questo schema. Rispetto alla Francia, alla Gran Bretagna o agli Usa, però, il nostro Paese sta oggi versando in una condizione certamente più grave: maggiore la distonia fra l’opinione pubblica e i centri della decisione politica, e quindi ancora più profondo il deficit di rappresentanza; meno solida la legittimità delle istituzioni, inferiori le loro capacità di riformarsi, meno efficace ed efficiente il loro operato. Almeno alcune delle radici di questa crisi, nella quale l’Italia si sta dibattendo almeno fin dall’inizio degli anni Novanta, possono essere cercate nel ruolo che i partiti hanno svolto nella storia repubblicana, e nel rapporto che essi hanno costruito con le istituzioni politiche formali. Una ricerca che, partendo dall’approvazione della Carta costituzionale, passa attraverso la breve "età dell’oro" del regime partitocratico per giungere infine alla crisi di Tangentopoli e all’attuale, precaria, sopravvivenza di una "partitocrazia senza partiti".

Non vi è dubbio che, all’indomani della caduta del regime fascista, i partiti si sono quasi da subito impossessati del ruolo di protagonisti, tanto sulla scena politico-istituzionale dei rapporti con la Corona e della gestione del potere esecutivo quanto su quella politico-militare della Resistenza. È altrettanto indubbio, poi, che nel progettare il nuovo assetto istituzionale del Paese i costituenti avessero ben chiara la considerevole rilevanza politica che i partiti avevano ormai acquisito. Tanto la posizione centrale – e sia pure di una centralità "razionalizzata", nella quale, all’interno del nuovo apparato repubblicano, hanno collocato l’assemblea parlamentare – quanto l’opzione a favore del sistema elettorale proporzionale erano funzionali all’intervento politico dei partiti e, allo stesso tempo, per poter operare correttamente, lo presupponevano. Le scelte costituzionali del secondo dopoguerra hanno portato così a compimento, dopo la lunga parentesi fascista, il difficile processo di transizione che era in realtà cominciato all’indomani del primo conflitto mondiale. È nei primi anni Venti infatti che per la prima volta si era cercato, con esiti notoriamente disastrosi, di ricostruire intorno ai partiti un nuovo equilibrio politico – dal momento che i metodi tradizionali dell’Italia liberale non sembravano più in grado di garantire l’antico. Fin dalla fase della sua creazione e dei suoi esordi, nel sistema istituzionale repubblicano i partiti si sono incaricati di egemonizzare, e allo stesso tempo educare, un corpo elettorale ritenuto ancora immaturo e inadatto all’autogoverno. Nel timore di creare un nesso troppo stretto fra massa e potere, insomma, la democrazia italiana è stata incardinata su un rapporto di delega, e di questa delega le forze politiche organizzate hanno assunto la gestione e si sono fatte garanti. Il predominio assoluto che i partiti hanno acquisito nella stagione d’oro della partitocrazia, in ogni modo, non ha affatto rappresentato una necessaria conseguenza dell’assetto istituzionale delineato nella Carta del 1948.

Nella sua Storia del potere in Italia, pubblicata per la prima volta nel 1967, Giuseppe Maranini, che del regime partitocratico era un critico fra i più acuti, notava come nella Costituzione fossero in realtà previsti norme e istituti, quali le Regioni, la Corte costituzionale, la presidenza della Repubblica, che, se correttamente interpretati e sviluppati, avrebbero temperato l’eccessivo carattere assemblearistico del regime e riprodotto un equilibrio "virtuoso" fra i diversi poteri. Nella lettera costituzionale, in altre parole, coesistono due modelli diversi e inconciliabili: uno tende a concentrare tutto il potere nel parlamento, e consente così ai partiti di diventare i dominatori assoluti del sistema politico; l’altro, ben più fedele ai dettami del costituzionalismo liberale, prevede invece una rigida restrizione e suddivisione del potere, tale da rafforzare le istituzioni e arginare la prepotenza degli interessi di parte. È stato soltanto con il trascorrere del tempo che, sia pure con molti limiti, il primo modello ha finito per prendere il sopravvento sul secondo. Negli anni della prima legislatura repubblicana, fra il 1948 e il 1953, il carisma di De Gasperi, la dura contrapposizione ideologica che caratterizzava l’inizio della guerra fredda, l’assoluto predominio elettorale e parlamentare della Democrazia cristiana, e forse anche quel che restava delle prassi costituzionali dell’Italia liberale, hanno garantito il prevalere della presidenza del Consiglio sui partiti che componevano la maggioranza di governo. Dopo il 1953 però, fallito il tentativo degasperiano di rafforzare con la legge maggioritaria l’alleanza che sosteneva l’esecutivo ed entrati in crisi gli equilibri che avevano caratterizzato la breve stagione centrista, si è aperto lo spazio per un processo di profonda ristrutturazione politica, al termine del quale, dopo circa un decennio, i partiti hanno finito per occupare nelle istituzioni una posizione di assoluta preminenza.

Quali siano le caratteristiche fondamentali della partitocrazia – dall’occupazione bulimica di ogni spazio di potere ai princìpi rigorosi che regolano le spartizioni, dal predominio della politique politicienne all’assenza di spessore programmatico, dal clientelismo alla corruzione – è ben noto, e non è quindi necessario discuterne troppo a lungo. In questa sede mi interessa tuttavia notare come, in un regime partitocratico, gli organi costituzionali formalmente destinati a regolare l’interazione fra lo Stato e la società vengano completamente invasi, e quindi svuotati, dai partiti. Le forze politiche insomma, che dovrebbero amministrare il rapporto fra i cittadini e le istituzioni, garantendo rappresentatività a queste e rappresentanza a quelli, da comprimarie diventano protagoniste, e mancano di convertire il proprio consenso di parte in una risorsa di legittimazione per l’intero apparato pubblico. I soggetti formali della democrazia – soprattutto, ma non solo, gli organi di natura prevalentemente politica come il parlamento e il governo – perdono la propria autonomia simbolica e sostanziale, cessano di avere un ruolo, un’immagine, un’autorevolezza e una legittimità propri, e si trasformano in gusci vuoti, resi animati solo dai partiti. La partitocrazia, inoltre, distorce le relazioni fra un’istituzione e l’altra. Invadendo tutti i centri di potere, le forze politiche vanificano il sistema di contrappesi immaginato dal costituzionalismo liberale a tutela dei cittadini, e danno così vita a un regime potenzialmente, e anche tendenzialmente, totalitario. Se non diventa compiutamente totalitario è soltanto grazie alla pluralità dei partiti e alla competizione fra di essi. La difesa delle garanzie liberali, insomma, non è più affidata allo scontro "orizzontale" fra le istituzioni formali, ma allo scontro "verticale" fra le forze politiche.

L’età dell’oro della partitocrazia non è durata a lungo: cominciata alla fine degli anni Cinquanta, all’inizio degli anni Settanta mostrava già più di un segno di crisi. Le rigide contrapposizioni della guerra fredda si erano a quel punto molto attenuate, lasciando spazio a nuovi fermenti ideologici e culturali che le forze politiche tradizionali avevano difficoltà a gestire. La società italiana non era più quella dell’immediato dopoguerra, ma aveva acquisito un dinamismo e una maturità che ne rendevano sempre più difficile la costrizione all’interno della gabbia partitica. Negli anni Ottanta abbiamo assistito all’accelerazione e al completamento del processo di degenerazione: il sistema dei partiti è diventato fragile e precario, ha visto indebolirsi sempre di più le proprie radici e la propria legittimità, e appunto per questo si è fatto ancora più famelico e arrogante. Fino a giungere, nei primi anni Novanta, al collasso completo. Come sia arrivato a questo naufragio, quale sia stato il fenomeno che ne ha infine reso palese l’obsolescenza e fatto precipitare la crisi, è un dato nient’affatto irrilevante, che ha notevolmente condizionato gli avvenimenti successivi – l’aggrovigliata, vischiosa, interminabile transizione nella quale l’Italia si sta dibattendo ancora oggi.

A dare il colpo di grazia al regime partitocratico, nei primi anni Novanta, sono stati sostanzialmente tre fenomeni: l’offensiva giudiziaria di Mani Pulite, l’ascesa della Lega nell’Italia settentrionale e i referendum elettorali. A questi possiamo forse aggiungere, ma in una posizione senz’altro più defilata, le "picconate" del presidente Cossiga. Non vi è dubbio che, dei tre episodi, sia stato il primo quello che ha giocato il ruolo di maggiore rilievo – e non soltanto nella concreta realtà politica, ma soprattutto nell’interpretazione che di quella realtà ha dato la maggior parte degli italiani. Proprio il fatto che, a livello tanto materiale quanto simbolico, la crisi istituzionale e politica che ha travolto la repubblica dei partiti sia nata soprattutto dalle iniziative dei magistrati ne ha condizionato non poco, e in maniera negativa, il decorso successivo. I giudici di Tangentopoli hanno sospinto in primo piano, ed esposto al pubblico sdegno, le conseguenze etiche e penali, in verità particolarmente odiose e vistose, della gestione partitocratica della vita pubblica nazionale. E lo hanno fatto colpendo i protagonisti di quella gestione, quanti si erano individualmente resi colpevoli di atti che il codice considerava illeciti, e il senso comune immorali. Essendo questo il fronte sul quale è stato inferto il colpo più duro al regime, e questa la prospettiva nella quale soprattutto ne è stato letto il crollo, sono scivolate in secondo piano le componenti più propriamente politiche e istituzionali della crisi nella quale esso stava sprofondando ormai da molti anni. Mani Pulite, insomma, ha messo al centro la questione della moralità pubblica, e della punizione di chi personalmente l’aveva disattesa, distogliendo almeno in parte l’attenzione dal grave deficit di rappresentatività che aveva colpito i partiti, e con essi l’intero apparato costituzionale, e che prescindeva in gran parte dalle responsabilità individuali. Il fatto che il Partito comunista – proprio quello della "questione morale" – fosse il meno coinvolto nelle inchieste giudiziarie ha ulteriormente rafforzato l’impressione che il problema fosse di natura etica e individuale, non politica e sistemica.

Ma le conseguenze generate dall’orientamento giudiziario che il collasso della prima repubblica ha assunto non finiscono qui. Eliminati per via penale i protagonisti (o almeno alcuni dei protagonisti) del regime partitocratico, si è ovviamente posto con urgenza il problema di rimpiazzarli. In una normale crisi politica sono i vincitori a prendere il posto dei vinti. In questo caso, però, a prevalere non è stata un’entità politica, un gruppo esplicitamente e formalmente candidato alla guida del Paese, ma un settore particolarmente consapevole e aggressivo del "potere neutro" – ossia di quel potere la cui legittimità si fonda proprio sul suo carattere non politico. Trasformare il clamoroso successo di Mani Pulite in un’alternativa politica al regime partitocratico è dunque diventato il problema fondamentale dell’Italia degli anni Novanta. Uscita relativamente illesa dalla bufera giudiziaria, la sinistra postcomunista si candidava naturalmente a raccogliere i frutti dell’opera dei magistrati – anche perché, negli anni, era riuscita a costruire con il potere giudiziario un ottimo rapporto. Ma non vi è alcun dubbio che il Pci sia stato un protagonista del sistema dei partiti, e questo ha seriamente ostacolato lo sforzo dei suoi eredi di accreditarsi quali alfieri dell’antipartitocrazia. Più in generale, poi, i trionfatori di Tangentopoli hanno mostrato una (in verità comprensibile) scarsa propensione a lavorare per conto terzi, ossia a lasciare che la sinistra occupasse spazi di potere che essi avevano creato – come attestano le difficoltà che negli ultimi anni hanno caratterizzato le relazioni fra i Democratici di sinistra e i giudici. Per i protagonisti di Mani Pulite, d’altra parte, quella di trasformarsi essi stessi nella nuova classe politica si è rivelata un’operazione quasi impossibile. La loro immagine di imparzialità, come ho già accennato, era parte integrante del loro successo e del consenso che avevano raccolto – consenso, quindi, che non poteva essere convertito in una risorsa politica, se non a titolo personale, come è avvenuto per Di Pietro. Una terza possibilità era che i frutti di Tangentopoli fossero raccolti da quanti avevano cooperato, sia pure in qualità di comprimari, all’abbattimento del regime dei partiti: la Lega e il movimento referendario. Per diversi motivi, né l’uno né l’altro si sono però dimostrati politicamente all’altezza di questo difficile compito. Infine, quarta possibilità, un soggetto interamente nuovo riempisse il vuoto creato da Mani Pulite – e a svolgere questo ruolo si è candidata Forza Italia. Se però i magistrati erano riluttanti a fare il Cirano de Bergerac per la sinistra postcomunista, alla quale molti di essi erano tradizionalmente vicini, tanto meno avrebbero accettato di farlo per un movimento politicamente così distante da loro.

Per tutte queste ragioni, dalla crisi che ha definitivamente affossato la Prima Repubblica non è emerso un vincitore vero: un soggetto politico che sostenga un progetto coerente e completo di riforma delle istituzioni e abbia forza bastante per imporlo. Se si eccettua la revisione della legge elettorale, non a caso dettata per referendum, sette anni dopo l’inizio di Tangentopoli le norme e le strutture fondanti del potere pubblico italiano non hanno subito alcuna modifica di rilievo. Quelle norme e quelle strutture però, come abbiamo già visto, nel corso del cinquantennio repubblicano sono state progressivamente modellate dal regime partitocratico. Le forze politiche le hanno trasformate in propri strumenti, hanno dato loro un’anima e una ragion d’essere, ne hanno garantito la rappresentatività in un contesto di democrazia delegata. Eliminato con il terremoto dei primi anni Novanta il sistema dei partiti, delle istituzioni repubblicane è rimasto lo scheletro – uno scheletro scarso di autonomia e di legittimità, e collegato soltanto debolmente con il "paese reale". Né, a rimpolpare questo scheletro, potevano bastare l’unico fra i grandi partiti sopravvissuto alle indagini giudiziarie, oppure quelle formazioni politiche che, perché emarginate o perché non ancora nate, non erano entrate nel gioco partitocratico. A modo suo, il Pci è stato coinvolto nel lungo tramonto della repubblica dei partiti. Diversamente dai suoi avversari storici, non è stato travolto da Tangentopoli; ma questo non ne ha sanato i mali: ne ha soltanto prolungato l’agonia. Non è intorno agli eredi del partito comunista, allora, che può essere ricostruito il sistema politico italiano – come dimostrano le profonde difficoltà in cui quegli eredi si stanno oggi dibattendo. Ma nemmeno Forza Italia, Alleanza nazionale e Lega, benché "innocenti" di partitocrazia, sono riuscite a ricreare dei saldi legami di rappresentanza fra i cittadini e le istituzioni. L’alternativa che si sono trovate davanti era fra l’antico modello di partito, ormai superato, screditato e troppo costoso, e modelli nuovi, più agili e dinamici, ma scarsamente compatibili con l’assetto costituzionale che il Paese aveva ereditato dalla Prima Repubblica. In mancanza di una profonda riforma dell’apparato pubblico, nessuna delle due strade conduceva al successo. Un recente sondaggio ha indicato quale sia stato l’allarmante esito di queste vicende, tanto sul versante sinistro del sistema politico, quanto sul destro: meno del 5 per cento degli italiani si sente oggi rappresentato dai partiti.

Pur essendo decadute, le istituzioni della Prima Repubblica hanno tuttavia conservato intatte le proprie facoltà, continuando come sempre a regolare e gestire la vita pubblica del Paese. Il loro potere è anzi aumentato: in precedenza erano tenute a rispondere ai partiti, e per il loro tramite all’opinione pubblica; con Tangentopoli hanno smarrito i loro punti di riferimento tradizionali, ma hanno anche guadagnato spazi di libertà molto maggiori. Il caso della presidenza della repubblica è, in questa prospettiva, assolutamente emblematico. Rinnovata ogni sette anni – un periodo di tempo relativamente lungo – da un collegio di "grandi elettori", da un punto di vista democratico la presidenza è un organo debole, che si giustifica soltanto quando un efficiente sistema di partiti ne garantisca la rappresentatività e, allo stesso tempo, ne limiti il potere. Due condizioni che soprattutto con la crisi dei primi anni Novanta – ma in realtà già nel decennio precedente – sono venute a mancare. Private del loro contenuto partitico, le istituzioni continuano tuttavia a difendere con tenacia le proprie posizioni e i propri privilegi, e sono diventate un ostacolo quasi insuperabile per ogni ipotesi di ristrutturazione dell’apparato pubblico italiano.

Allo stesso obiettivo si sono anche dedicati i residui, gli spezzoni e i sopravvissuti delle forze politiche tradizionali. Tanto nel loro operato concreto, quanto nei loro interventi retorici, hanno continuato a sostenere la necessità della mediazione partitica fra cittadini e istituzioni, e a respingere – perché a loro avviso portatrice di germi "demagogici e plebiscitari" – qualsiasi ipotesi di riforma istituzionale che puntasse a rendere superflua quella mediazione. In maniera non molto diversa, negli anni compresi fra la fine della Grande Guerra e l’avvento del fascismo, la classe dirigente liberale difese a oltranza le prassi e i metodi che fin dall’unità avevano governato il sistema politico italiano. Allora come adesso, i campioni del tempo che fu non si sono resi conto che i sistemi da loro difesi sono appassiti e infine crollati non per colpa di qualche genio malvagio, ma da soli, per consunzione interna. Non è stata la proporzionale a distruggere l’Italia liberale, così come non è stato il maggioritario a demolire la Prima Repubblica: le riforme elettorali, in entrambi i casi, hanno cercato di risolvere una crisi che era già in atto da molto tempo, ed era ormai divenuta irreversibile. Tornare indietro in queste circostanze non è sbagliato, ma impossibile – perché dietro non è rimasto più nulla. Quanti continuano a sostenere oggi il sistema dei partiti con gli stessi argomenti che venivano utilizzati negli anni Cinquanta o Sessanta stanno magari difendendo la propria biografia, ma non stanno proponendo un’ipotesi politica plausibile.

La situazione di incertezza istituzionale nella quale l’Italia si trova fin dall’inizio degli anni Novanta e il regime di partitocrazia senza partiti che la sta oggi governando sono il prodotto di tutto quello che abbiamo descritto in queste pagine. Le istituzioni della Prima Repubblica hanno conservato intatto il proprio potere, ma, con il crollo del sistema partitico, oltre a un padrone hanno perduto anche l’anima. Non avendone mai avuta una propria, sono diventate il terreno di caccia dei più vari, aggrovigliati e irriducibili interessi personali e di clan. Come se ciò non bastasse, con la loro considerevole inerzia si oppongono a qualsiasi progetto complessivo di ristrutturazione costituzionale – un’operazione ostacolata anche dall’assenza di una forza politica dominante. Sopravvissuta a Mani Pulite, la sinistra postcomunista sta ugualmente vivendo un lento declino. Costruendo su una consolidata vocazione egemonica, ha cercato allo stesso tempo di rimanere un partito "all’antica" e di annettersi, ma in una posizione subordinata, l’opinione pubblica antipartitocratica. La candidatura di Di Pietro nel Mugello, la creazione dell’Ulivo, la designazione di Prodi a Palazzo Chigi sono state le tappe principali di questa operazione. Ammesso pure che la coerenza in politica non sia poi così importante, però, si trattava in ogni modo di un’operazione assai difficile, che richiedeva capacità progettuali ben maggiori di quelle, in verità non eccelse, dimostrate dalla leadership dei Ds. La particolare odiosità della crisi che ha abbattuto il governo Prodi e l’immobilismo dell’attuale gabinetto D’Alema danno chiara testimonianza dell’impasse nella quale si è cacciata la sinistra italiana. Sul versante opposto, il complesso rapporto con i consistenti residui della Prima Repubblica, difficoltà congiunturali di varia natura, profonde incertezze politiche e programmatiche non sembrano consentire la formulazione e la realizzazione di un progetto chiaro e coerente sulla cui base ricostruire un robusto rapporto di rappresentanza fra le istituzioni pubbliche e i cittadini.

Le conclusioni di quest’analisi non sono ottimistiche. I sistemi politici, come si è detto, li ricostruiscono i vincitori, ma questa partita sempre più intricata, autistica e incattivita nessuno sembra in grado di vincerla. Le forze della conservazione istituzionale sono ancora consistenti, e le tensioni riformistiche che pure sono presenti nella classe politica appaiono troppo incerte e contraddittorie per riuscire a imporsi. Il Paese non è contento di chi lo governa, ma, invece che con rabbia, reagisce dimostrandosi apatico, deluso e sfiduciato – e, d’altra parte, ha ben poche possibilità di incidere su una partitocrazia senza partiti la cui caratteristica principale è proprio quella di non essere rappresentativa. Certo, una vera crisi sociale o economica, tale da sconvolgere sul serio la vita quotidiana degli italiani, potrebbe colmare la misura del malcontento, e costringere il sistema politico a riformarsi in profondità. Ma dobbiamo davvero, per il bene d’Italia, augurarci una catastrofe?

Giovanni Orsina


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1999