Editoriale 
    IL REALISMO DELLA POLITICA
    
     
    di Domenico Mennitti
    La sconfitta del referendum del 18 aprile sembra aver
    chiuso il ciclo delle riforme che un analogo referendum, svoltosi nello
    stesso giorno, ma di sei anni fa, aveva avviato. Quella che per più di un
    lustro era sembrata l’emergenza politica prioritaria del nostro Paese, la
    riforma del sistema istituzionale, è stata clamorosamente affossata dal
    giudice supremo in una democrazia: il corpo elettorale. Il politologo Angelo
    Panebianco, in un commento amaro e sconsolato, ha invitato politici e
    opinion leader a lasciar perdere, a prendere atto del disinteresse generale
    e a considerare ormai chiuso il libro delle riforme. Con maggiore ottimismo,
    un altro politologo, Giovanni Sartori, ha invece spinto gli stessi attori a
    non mollare e ad andare incontro alle aspettative di quel 40 per cento di
    elettori che, recatosi alle urne, ha comunque espresso la volontà di
    cambiare. Panebianco e Sartori, entrambi ospitati sulle pagine di Ideazione
    in questi anni di faticosa transizione politica, esprimono i diversi stati
    d’animo (dovuti forse a un diverso temperamento) di quanti hanno seguito
    con grande partecipazione i tentativi di rinnovamento istituzionale, sia
    quando essi si sono espressi all’interno del parlamento che quando sono
    stati rilanciati da iniziative esterne all’Assemblea. Per chi osserva le
    vicende politiche con l’occhio distaccato del commentatore è plausibile
    un momento di sconforto e di pessimismo. Per chi invece opera direttamente
    in politica, l’errore più grave sarebbe quello di considerare perduta per
    sempre una battaglia che può anche conoscere delle battute d’arresto ma
    che, ancora oggi, sembra l’unica in grado di restituire efficienza e
    funzionalità a un sistema altrimenti destinato a fallire. 
    Semmai qualche altra osservazione di fondo può essere
    avanzata nel merito. Certamente le preoccupazioni per la guerra hanno
    distolto l’attenzione degli italiani dalla competizione referendaria. E
    sicuramente alcune forze politiche avrebbero potuto sposare con maggiore
    impegno, se non i singoli leader referendari, almeno la causa generale di
    questa consultazione: quel cambiamento che resta alla base della carta
    d’identità di molti nuovi soggetti politici. Ma è doveroso sottolineare
    la profonda ambiguità che ha accompagnato il comitato promotore del
    referendum, il quale, dopo aver raccolto a fatica le firme necessarie alla
    presentazione del quesito, ha preferito arroccarsi in uno splendido
    isolamento, selezionando sulla base di interessi puramente politici le forze
    da aggregare alla campagna per il "sì" e giocando una partita che
    è diventata, giorno dopo giorno, sempre più politica. Per parlar fuori
    metafora, Segni e compagni hanno preteso che un partito politico, Forza
    Italia, e il suo leader, Silvio Berlusconi, si buttassero spontaneamente a
    capofitto in una competizione referendaria il cui esito, oltre alla riforma
    elettorale, sarebbe stato quello di disarcionarlo dalla guida del Polo e di
    rimescolare le carte nel centro-destra. Pare francamente un po’ troppo
    chiedere all’impiccato di fabbricarsi pure la corda. 
    Detto questo (e tralasciato molto altro) resta il
    fatto che Forza Italia avrebbe potuto superare tutte queste trappole
    sposando fin dall’inizio lo spirito del referendum e puntando a
    egemonizzare una rinnovata battaglia per il maggioritario che avrebbe avuto
    la fortuna di non doversi più scontrare con le resistenze imposte da
    quell’apparato burocratico che oggi governa il Paese e che ha visto in
    Oscar Luigi Scalfaro una sponda essenziale. L’uscita di scena
    dell’attuale presidente della Repubblica (consiglio a tutti di leggersi il
    libro di Riccardo Scarpa che Ideazione editrice ha appena pubblicato) sarà
    – ci si augura – uno degli elementi di chiarezza della prossima stagione
    politica. Occorrerà, insomma, che il nuovo inquilino del Quirinale non sia
    un nostalgico del vecchio sistema, dei ribaltoni e della par condicio ma sia
    un convinto sostenitore dei nuovi equilibri e accompagni il processo verso
    il bipolarismo che appare di per sé assai faticoso. 
    Le conseguenze della sconfitta referendaria si
    riflettono tuttavia anche sui partiti in procinto di competere per le
    elezioni europee. Il sistema elettorale proporzionale, ancora vigente per
    questo tipo di consultazione, favorisce la proliferazione di sigle e
    simboli, alimentando le speranze di ogni singolo gruppo di accaparrarsi le
    briciole necessarie a nutrire ambizioni personali e seggi a Strasburgo.
    Dalla stagione della flora a quella della fauna, il panorama politico si
    arricchisce non più di cespugli ma di cuccioli. Dall’asinello
    all’elefantino, la corsa alla frantumazione del quadro politico si è
    fatta più frenetica e, nonostante il sistema elettorale prometta di
    garantire qualcosa a tutti, il voto giungerà come un ulteriore elemento di
    chiarezza. I tanti, troppi partiti nati in questi mesi all’interno del
    Palazzo dovranno misurarsi con i consensi degli elettori ed è probabile
    (augurabile?) che molti di essi si ritroveranno più ricchi di prebende e
    poltrone nel parlamento italiano che di voti e seggi in quello europeo. Il
    problema è più generale e coinvolge l’organizzazione politica dei
    partiti maggiori, incapaci di coniugare un profondo e democratico dibattito
    politico interno con la tempestività e l’autorevolezza delle decisioni
    del leader, da cui dipende l’immagine e la forza dei partiti stessi. La
    classe politica non pare adeguata a filtrare e rappresentare gli interessi
    dei cittadini, soprattutto dei ceti medi produttivi che costituiscono la
    spina dorsale di ogni movimento moderato. E i cittadini manifestano continui
    e preoccupanti segnali di cedimento rispetto ad una politica che sentono
    sempre più distante. Sul versante dei partiti si diffondono le pratiche di
    trasformismo, tanto che oggi è impresa assai ardua indicare parlamentari
    che siano rimasti fedeli al mandato assegnatogli dagli elettori appena tre
    anni fa: non si dimette mai nessuno ma si transuma allegramente da un gruppo
    all’altro, spesso da un polo all’altro. Sul versante degli elettori
    cresce, di voto in voto, l’astensionismo, individuato come scorciatoia per
    esaltare la propria insofferenza. Andata in crisi la capacità di
    rappresentanza dei partiti, assistiamo a quel fenomeno che abbiamo chiamato
    "partitocrazia senza partiti", e che analizziamo in questo numero.
    Si tratta della capacità di gruppi oligarchici, notabili di partito,
    funzionari della burocrazia – tutti accomunati da un deficit di legittimità
    democratica – di installarsi nei gangli fondamentali del processo
    decisionale del nostro Paese e di condizionarne le politiche. 
    Per quanto riguarda lo specifico del voto di giugno
    (sarà bene ricordare che l’Europa è ormai il nostro orizzonte di casa) i
    partiti moderati sono chiamati a misurarsi con le nuove prospettive che la
    politica continentale offre. In questi ultimi numeri, Ideazione ha seguito
    con scrupolo le vicende dei partiti europei: le convulsioni dei conservatori
    alla ricerca di un riscatto elettorale e le difficoltà delle sinistre al
    governo in molti paesi. Abbiamo sprovincializzato l’analisi politica per
    chiarire come la dinamica continentale sia ormai prevalente rispetto a
    quella nazionale. Abbiamo ascoltato i giudizi di José Maria Aznar e siamo
    andati a sondare gli umori di Helmut Kohl. Abbiamo seguito il processo di
    avvicinamento di Forza Italia al Partito popolare europeo e quello di
    Alleanza nazionale ai neogollisti di Jacques Chirac. Oggi ritroviamo i due
    maggiori partiti italiani del centro-destra su posizioni quasi
    concorrenziali, pronti a sfidarsi in una battaglia che sembra sottintendere
    anche una lotta per la leadership del Polo. Il voto proporzionale fatalmente
    accentuerà le differenze e le contrapposizioni. Ma dopo il voto sarà bene
    ricordare che l’unità del Polo rappresenta la base necessaria per
    costruire una prospettiva di alternanza al centro-sinistra. La lezione di
    Aznar vale anche in chiave interna. Il Polo avrà bisogno di salutari
    scossoni, non di drammatiche lacerazioni.
    
     
     
    
    Domenico
    Mennitti
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