Una guerra
    europea 
    
    VINCERE O PERIRE 
    di Virgilio Ilari
    La guerra fredda è stata la terza guerra mondiale del
    XX secolo e si è conclusa con la cancellazione dell’Unione Sovietica,
    scomparsa esattamente come il Terzo Reich. Ma è stata combattuta contro la
    Russia, non contro il comunismo: così come le due precedenti sono state
    combattute contro la Germania, non contro il nazismo o il prussianesimo.
    Queste guerre hanno modificato l’assetto dell’Occidente, non più
    fondato sull’alleanza anglo-francese ma sull’egemonia americana,
    l’unica in grado di raccordare Europa e Giappone e di gestire l’eredità
    degli imperi coloniali europei. Dopo Eisenhower, Bush è stato il più
    "europeo" dei presidenti americani proprio perché quello
    maggiormente consapevole delle responsabilità "imperiali" degli
    Stati Uniti, fino al punto di subordinarvi gli interessi puramente
    nazionali. Alla cultura "geopolitica" che egli incarnava si è
    contrapposta con Clinton una cultura "geoeconomica", nazionalista
    e protezionista, che ha rafforzato l’economia americana a spese
    dell’Europa e del Giappone, indebolendo la potenza militare degli Stati
    Uniti e la coesione occidentale e mettendo a rischio la stabilità del mondo
    e la nostra sicurezza comune. La tragedia dei Balcani è la conseguenza più
    vistosa della strategia scelta dall’Occidente per consolidare la sua terza
    vittoria mondiale del XX secolo, vale a dire per "allargarsi" ad
    Est. La nostra sicurezza imponeva di pacificare e controllare in modo
    permanente la fascia critica delle guerre mondiali, che corre da Danzica a
    Sarajevo, ai Dardanelli e al Golfo. Cioè il limes orientale già raggiunto
    a Sud dall’Impero romano e a Nord dall’Impero germanico. 
    Il controllo del limes si poteva ottenere in due modi
    differenti. Nel novembre del 1989 l’Occidente poteva ancora decidere se
    comprarlo col mercato oppure occuparlo con le legioni americane.
    Allineandosi agli Stati Uniti durante la guerra del Golfo e scegliendo la
    stabilità monetaria anziché l’immediato allargamento fino alla Polonia e
    alla Turchia, l’Europa ad egemonia tedesca ha scelto le legioni,
    illudendosi di poterne scaricare il costo sul contribuente americano.
    Puntando sull’Euromoneta e raccontandosi la fiaba dei "dividendi
    della pace" e poi quella dell’Eurodifesa, l’Europa ha di fatto
    lasciato alla Nato il compito, irrinunciabile, di tracciare il limes
    baltico-danubiano: vom Finnland bis / zum Schwarzes Meer, "dalla
    Finlandia al Mar Nero", come dice l’inno nazista composto per
    l’"Operazione Barbarossa". 
    L’Europa non ha oggi alcun diritto di lagnarsi dello
    strapotere americano. Ringrazi Iddio che c’è ancora, sia pure in mano al
    peggior presidente del secolo (ma anche gli attuali governi europei, tranne
    quello spagnolo, sono i peggiori dal 1945). Colpa nostra se abbiamo
    preferito cullarci nel wishful thinking che guerra e geopolitica fossero
    archiviate per sempre, proprio quando, per la prima volta nella storia, è
    emersa la concreta possibilità di saldare sotto una sola autorità
    imperiale i settori germanico, balcanico e medio-orientale del limes. 
    Perché abbiamo distrutto la Jugoslavia? 
    Se l’Europa avesse scelto la strada del mercato,
    anziché la stabilità monetaria e le legioni, forse sarebbe stato possibile
    salvare l’unità della Cecoslovacchia e della Jugoslavia, ponendola come
    condizione irrinunciabile per l’ammissione dell’ex Impero
    austro-ungarico nel sistema occidentale. Beninteso integrare l’intera
    Jugoslavia nel mercato europeo sarebbe stato molto costoso e molto
    difficile. Ma integrarla nel limes militare era impossibile. Non perché la
    Nato fosse di per sé ostile alla Jugoslavia, anzi. Lo Stato multietnico
    creato a Versailles nel 1919 dalla Francia e dalla Gran Bretagna in funzione
    antitedesca e antitaliana e restaurato da Tito, fu infatti difeso proprio
    dalla Nato e dall’Italia ancora nei primi anni Settanta, quando l’Urss
    tentò di destabilizzarlo attraverso il nazionalismo croato. Ma nel 1991 la
    Nato non poteva associarsi l’intera Jugoslavia per la stessa ragione per
    la quale fallì il patto balcanico progettato nel 1951-54 dagli Stati Uniti
    e dalla Gran Bretagna: e cioè l’impossibilità di mantenere in una stessa
    alleanza turchi e serbi, islamici e ortodossi. 
    Beninteso la Jugoslavia fu travolta dal fanatismo
    etnico cinicamente sfruttato ed esasperato dai cacicchi, dagli affaristi e
    dalle mafie di Lubiana, Zagabria, Sarajevo e Belgrado. Ma l’indipendenza
    slovena, croata e bosniaca fu imposta dalla Germania e dal Vaticano,
    trangugiata dall’Europa filoserba e infine cogestita, nel peggiore dei
    modi, assieme agli Stati Uniti riluttanti. Col magnifico risultato di
    prolungarne e aggravarne i terribili costi umani, sermoneggiando contro la
    "pulizia etnica" proprio mentre si abbatteva uno Stato
    multietnico. 
    Se proprio la Jugoslavia non poteva sopravvivere,
    allora avevamo il dovere politico e morale di pianificare uno scambio
    concordato di popolazioni sotto il controllo militare internazionale.
    Sarebbe costato meno dell’esodo sotto le bombe e il terrore, ma ci avrebbe
    tolto la nostra falsa innocenza. Impensabile: meglio tromboneggiare nei talk
    show o firmare ai tavoli dei radicali. "Potere dei più buoni" e
    fondamentalismo umanitario sono la faccia tartufesca e la faccia farisea del
    medesimo coccodrillo. 
    Perché siamo nemici della Serbia? 
    L’Occidente aveva calcolato che almeno vent’anni
    di strapotere sulla Russia sconfitta e umiliata, sarebbero stati necessari
    per poter costruire il nuovo vallo atlantico. Ne ha spesi metà per
    inglobare Polonia, Cechia e Ungheria e per garantire indirettamente anche il
    Baltico, l’Ucraina e gran parte dell’antico limes costruito
    dall’Impero asburgico contro quello ottomano. Si noti che per tre secoli
    un buon tratto di questo limes, quello croato, fu presidiato proprio dalle
    colonie militari serbe, i famosi "reggimenti confinari", simili ai
    cosacchi, che fino al 1878 circondavano la Bosnia ottomana e che dopo
    l’occupazione austriaca e l’asse germanico-ottomano furono sostituiti
    dalla fanteria bosniaca, perpetuata nella seconda guerra mondiale dalle due
    divisioni musulmane delle SS. 
    Nel 1991 gli eredi di queste colonie serbe formarono
    la Repubblica serba della Krajina (che vuol dire appunto
    "confine"). Nel 1995 furono estirpati dall’aviazione alleata e
    dalla fanteria croata, sia pure con un’offensiva in gran parte virtuale e
    concordata. Abbiamo però il dovere di ricordarci che l’aviazione
    atlantica ha indirettamente contribuito a deportare in Serbia 750 mila serbi
    dalla Slavonia, dalla Krajina e dalla Bosnia. 
    Perché, invece di esasperare il conflitto con
    Belgrado, non abbiamo cercato anche noi di integrare la Serbia nel nostro
    confine danubiano, invece di respingerla verso Mosca? La ragione non è che
    Milosevic è pazzo e/o criminale, ma che l’Occidente (Italia inclusa) deve
    conciliare il suo naturale filoserbismo antigermanico con l’interesse a
    puntellare il bastione anatolico contro l’espansionismo russo (ricordate
    la guerra di Crimea? ricordate, a proposito, l’effetto che produsse il
    pugno di piemontesi caduti alla Cernaia? Il calcolo geniale di Cavour oggi
    lo sta facendo il governo polacco). Se Churchill volle nel 1915 il
    disastroso sbarco di Gallipoli fu per impedire che fosse la Germania a
    saldare il confine danubiano col bastione anatolico e mediorientale. Se da
    anni andiamo gridando nieder mit den Serben ("abbasso i Serbi")
    come fecero nell’agosto 1914 gli studenti viennesi, è perché stavolta,
    per la prima volta, tanto gli ex Imperi centrali quanto l’ex Impero
    ottomano giocano nella nostra squadra. Se servisse una riprova, ricordiamoci
    che lo scorso autunno l’Italia, vale a dire il paese più apertamente
    filoserbo della Nato dopo la Grecia, ha rischiato la rottura diplomatica con
    Ankara sul caso Oçalan. 
    Perché volevamo il Kosovo? 
    Dei due bastioni avanzati che restano alla Russia
    verso l’Occidente, quello bielorusso è il più forte ma anche il meno
    minaccioso. Esso non ha impedito, ma semmai facilitato l’ingresso della
    Polonia nella Nato e una indiretta associazione dell’Ucraina, legata alla
    Polonia da un accordo bilaterale di sicurezza. Quello più insidioso, che
    Mosca esita giustamente a sostenere, è la Serbia. L’Italia proponeva di
    aggirarlo, sostenendo l’estensione della Nato alla Slovenia e alla
    Romania, il che avrebbe portato il confine atlantico sullo storico Vallo di
    Traiano. Il nodo della minoranza ungherese in Transilvania e forse il
    timore, non soltanto tedesco, di rafforzare l’influenza italiana nei
    Balcani hanno indotto l’Alleanza ad aggiornare ogni decisione. Una volta
    rifiutata l’opzione romena, per turare la falla tra il settore
    polacco-magiaro e quello turco della nuova frontiera atlantica non restava
    che stabilire un cordone sanitario attorno alla Serbia, affidando alle
    truppe il compito di collegare territori Nato non contigui. Una soluzione
    precaria, azzardata ed irta di enormi difficoltà giuridiche e militari. Ma
    la relativa facilità con la quale la Nato era riuscita ad installarsi in
    Bosnia e Macedonia, occupando le ali del cordone, ci ha indotto a
    sottovalutare la difficoltà di occupare anche il centro, che non si limita
    al Kosovo, ma include anche il Montenegro. Per questo un anno fa ci siamo
    decisi a giocare la carta della spartizione del Kosovo, mascherando il
    nostro vero obiettivo dietro il sostegno all’autonomia e
    all’autodeterminazione dei kosovari. Con tutta evidenza il vero nodo di
    Rambouillet non era la questione dell’autonomia, ma la richiesta
    occidentale di stanziarvi un corpo d’armata, cerniera tra quelli già
    presenti in Bosnia e Macedonia e anticamera della secessione montenegrina. 
    Come si poteva pensare che Belgrado potesse
    pacificamente sottoscrivere una tale rinuncia alla propria sovranità, oltre
    tutto senza alcuna sostanziale garanzia circa la spartizione della provincia
    e il diritto a serbizzare la parte settentrionale ricca di miniere, cioè la
    Metohija? Infatti si poteva ipotizzare che su questo punto Belgrado e la
    Nato potessero alla fine giungere ad un compromesso. Ma come arrivarci, come
    poter ottenere il consenso del popolo serbo ad un simile accordo senza un
    sia pur limitato spargimento di sangue, che consentisse, come era avvenuto
    in Bosnia, di acquisire reciproci pegni territoriali e far nascere il nuovo
    confine interkosovaro da una linea di "cessate il fuoco"? 
    Perché la Serbia non si arrende? 
    La forza massima è quella potenziale. Usandola si
    consuma, anche se può essere consumata per rigenerarla e moltiplicarla.
    L’ultimatum assomiglia al potlach. È un passo estremo, perché, assumendo
    l’iniziativa sul terreno strettamente militare, in realtà l’attaccante
    cede al difensore la decisione politica della guerra. Sta in ciò la
    paradossale superiorità della difesa sull’attacco, ben spiegata da von
    Clausewitz. Il fattore "tempo" lavora contro l’attaccante e a
    favore del difensore. Ma la difesa è possibile soltanto se il difensore ha,
    relativamente alle capacità dell’attaccante, il modo di guadagnare
    "tempo". Ciò avviene in genere cedendo "spazio" (anche
    in senso metaforico) quanto più lentamente possibile. Infatti la conquista
    dello spazio genera "attrito", riducendo la potenza dell’attacco
    e allungando tempi e costi. Ad un certo momento si determina il "punto
    culminante" della guerra, quello in cui le potenzialità dell’attacco
    e della difesa si equivalgono. In questo momento si decide la sorte della
    guerra, per quanto a lungo possano ancora durare i combattimenti. 
    Apparentemente la Serbia non ha spazio da cedere,
    visto che, tempo permettendo, siamo in grado di bombardarla tutta e di farlo
    contemporaneamente. Perché allora non capitola? Semplicemente perché
    continuiamo a conquistare lo spazio sbagliato, quello aereo, del quale la
    Serbia non ha bisogno per perseguire il suo scopo di guerra (serbizzare la
    Metohija e, se possibile, l’intero Kosovo). Quanto alla distruzione delle
    armi pesanti e del morale dell’esercito serbo, ammesso che riusciamo a
    conseguire questo obiettivo in tempi ragionevoli, non servirà a niente
    finché non ci decideremo ad impiegare le forze terrestri, nostre e/o
    kosovare. 
    Ostentando fiducia nell’efficacia psicologica e
    compulsiva della propria strategia indiretta, la Nato ha sinora continuato a
    dichiarare che stiamo bombardando il futuro della Serbia, che l’abbiamo
    fatta già regredire di vent’anni, che le abbiamo già inflitto danni per
    100 mila miliardi di lire. Ma il futuro a medio termine che stiamo
    bombardando non è il futuro a lungo termine scelto dieci anni fa dalla
    Serbia quando si è consegnata al nazionalismo e ha accettato l’economia
    di guerra. Non è Milosevic che ha accettato questo prezzo, ma la Serbia. Né
    il Paese né l’Armata si sono ribellati. Al contrario, il regime si è
    consolidato e ha riassorbito ogni opposizione e dissenso significativi.
    Senza contare che perfino l’impiego delle forze aeree è stato a dir poco
    sconcertante. Visto che siamo stati noi a prendere l’iniziativa, perché
    abbiamo scelto la stagione meno adatta e cominciato le operazioni con una
    quantità di aerei e missili insufficiente? Sembra infatti che in un mese
    abbiamo potuto mandare a segno duemila tonnellate di esplosivo contro le 88
    mila impiegate durante la guerra del Golfo. 
    Perché nel 1991 abbiamo vinto e oggi stiamo
    perdendo? 
    È difficile trovare nella storia militare un
    difensore in condizioni più vantaggiose di Milosevic. Finché ci limitiamo
    a bombardarlo, l’unica fatica che deve fare è continuare a dire
    "no". Il precedente della guerra del Golfo non calza, perché
    quella guerra non fu vinta dalla sola aviazione. Fu vinta perché
    l’obiettivo, la liberazione del Kuwait, era chiaro, limitato e
    legittimato, la credibilità militare dell’Occidente molto elevata e
    l’impiego del "Potere Aereo" razionale e adeguato. 
    L’offensiva aerea fu infatti preceduta da sei mesi
    di accurata preparazione diplomatica e di mobilitazione militare,
    propagandistica e finanziaria e seguita dall’attacco terrestre, breve ma
    intenso, la battaglia delle "cento ore". Prima di lanciare
    l’ultimatum, Bush schierò 13 divisioni corazzate e meccanizzate (armate
    con il surDaily residuato dalla guerra fredda e comunque destinato alla
    rottamazione o alla vendita a subpotenze regionali). Inoltre Bush si fece
    legittimare dall’Onu e riconoscere il supremo potere decisionale dalla
    coalizione anti-iraqena. Infine ottenne la copertura quasi dell’intero
    costo finanziario (180 mila miliardi di lire) da parte della Germania, del
    Giappone e soprattutto dell’Arabia Saudita e degli Emirati. 
    Nessuna di queste precondizioni è stata rispettata
    nella guerra attuale. Invece, per giustificare la mera prosecuzione dei
    bombardamenti e mobilitare un tardivo, generico e momentaneo consenso, i
    nostri imbelli e insipienti governi sessantottardi sono andati vociando di
    voler incriminare lo stesso uomo al quale hanno consegnato il dado della
    pace e della guerra. Un momento prima dichiarano che mai entreremo in Kosovo
    con la forza. Il momento dopo giurano che vogliono trascinare Milosevic al
    Tribunale dell’AJa. 
    Combatteremo sino all’ultimo kosovaro? 
    La "pacificazione" della Krajina serba e
    della Bosnia è stata una perfetta applicazione del modo di combattere che
    l’Occidente ha ereditato dall’Inghilterra: combattere fino all’ultimo
    francese, usare gli indigeni come fanteria appoggiandoli con le forze
    aeronavali, per poi occupare con le nostre fanterie il confine raggiunto
    dagli indigeni. Tutto sembrava indicare che intendessimo fare la stessa cosa
    con il Kosovo. Invece abbiamo consentito ai serbi di sloggiare l’Uçk e
    inseguirlo oltre il confine albanese. 
    Perché, allora, abbiamo bombardato lo stesso? Perché,
    con tutta evidenza, il nostro scopo era di imporre a Belgrado non già
    l’autonomia ma la spartizone del Kosovo, consentendo a Milosevic di
    serbizzare la ricca Metohija in cambio di un protettorato atlantico sulla
    parte meridionale, interessata dal futuro gasdotto. Era e resta un obiettivo
    "ragionevole" ed equo, tenuto conto che sono gli interessi
    strategici vitali a dettare i princìpi giuridici e i diritti umani e non
    viceversa. Ma la situazione non consentiva di raggiungerlo senza un pugno di
    morti sul terreno, senza un duello al primo sangue. 
    Purtroppo era necessario versarne un po’ anche del
    nostro, non soltanto di quello serbo e kosovaro. Invece i nostri governi,
    incapaci quanto vili e protervi, hanno creduto di potersela cavare con una
    guerra a zero morti (nostri) pur avendo spensieratamente accettato un duello
    con regole feroci e ineludibili. Non serve che adesso le chiamino barbariche
    soltanto perché non sono neanche riusciti a barare. 
    L’impressione di viltà è aggravata dalla
    speculazione propagandistica sulla tragedia dei kosovari. Che gli abitanti
    della Metohija, già scacciati dalle loro case, sarebbero stati quanto meno
    espulsi non appena ne avessimo fornito il pretesto, non era semplicemente
    prevedibile, ma anche necessario per poter realizzare l’accordo
    spartitorio implicito nella nostra strategia. 
    Ma allora avevamo il dovere di predisporre i campi di
    accoglienza, prima di ritirare gli osservatori dell’Osce e prima di aprire
    le ostilità, oltre tutto concentrate nei primi giorni esclusivamente sulla
    Serbia. Finora soltanto l’Italia e la Grecia hanno prestato qualche
    soccorso ai profughi, per quanto anch’esse l’abbiano fatto soltanto dopo
    che la tragedia prevista e calcolata si era verificata. I kosovari morti di
    fame, di freddo, di epidemie dopo aver varcato il confine macedone o
    albanese pesano sulla coscienza di chi ha cinicamente calcolato che la loro
    tragedia sarebbe servita a giustificare la guerra che l’ha aggravata. 
    Avevamo alternative militari all’offensiva
    aerea? 
    Il calcolo sui profughi è forse uno dei motivi per i
    quali in ottobre la Nato ha scartato l’ipotesi di aprire le ostilità con
    un attacco di sorpresa. In Macedonia la Nato aveva soltanto 12 mila uomini.
    Ma predisponendo le riserve e agendo di sorpresa sarebbero bastati per
    penetrare fino a Pristina, tagliando fuori le forze serbe situate nella
    parte meridionale della provincia. Queste ultime avrebbero potuto formare
    sacche di resistenza, ma non contrattaccare, mentre avrebbero dovuto
    vedersela con la reazione della guerriglia kosovara, ovviamente armata,
    sostenuta e inquadrata dalle nostre forze speciali. 
    Un attacco di sorpresa poteva riuscire, perché la
    colonna corazzata avrebbe incontrato soltanto una parte delle forze serbe in
    Kosovo (circa 30 mila uomini) e l’aviazione avrebbe potuto colpirle prima
    che potessero attuare il diradamento antiaereo, raggiungere i capisaldi e
    fortificare il confine con sbarramenti, campi minati e scudi umani. Inoltre
    le retrovie macedoni sarebbero state sgombre dai profughi e avrebbero
    consentito il rapido afflusso di rinforzi e rifornimenti. Infine le forze
    aeree e missilistiche avrebbero avuto un ruolo decisivo, anziché
    interlocutorio come quello che hanno giocato finora. Sarebbero state
    impiegate esclusivamente contro forze e non contro città, soltanto in
    Kosovo e non in Serbia, a massa e non a spizzico, a bassa e non ad alta
    quota. Avrebbero dovuto svolgere contemporaneamente tre compiti:
    controaviazione, interdizione e appoggio diretto, per impedire l’afflusso
    di rinforzi e rifornimenti dalla Serbia e ogni velleità di controffensiva e
    per sgombrare la strada alle forze terrestri. Avrebbero subìto gravi
    perdite, limitando però quelle delle forze terrestri. 
    È possibile adesso un attacco terrestre? 
    Dopo un mese di bombardamenti strategici, la base e la
    direttrice di un eventuale attacco terrestre non sono cambiate, ma il prezzo
    da pagare è cresciuto enormemente. Anzitutto le possibilità di sorpresa si
    sono praticamente azzerate. Anche ammettendo che un sesto o più delle armi
    pesanti e contraeree serbe sia stato distrutto, quelle superstiti sono
    adesso appostate nelle aree e nei capisaldi di resistenza scelti da un
    nemico valoroso e feroce, che a differenza degli alleati combatte non solo
    per la propria patria ma per la propria pelle e conosce perfettamente il
    terreno e ogni segreto della guerra di montagna. Gli assi di penetrazione e
    scorrimento sono già stati minati, sbarrati e difesi. Il morale delle
    truppe serbe è galvanizzato dal successo sin qui ottenuto, dalle esitazioni
    alleate e dall’epurazione dei comandanti irresoluti o incapaci. Le già
    scarse capacità di autodifesa della popolazione kosovara sono azzerate,
    mentre le masse di profughi intasano le linee di comunicazione alleate. 
    Per un attacco terrestre su Belgrado si calcolano
    necessari almeno 200 mila uomini, un quarto dei quali si trova già in
    Bosnia, Albania e Macedonia. Ma per aprire un corridoio umanitario su
    Pristina ne bastano 50 mila, il doppio di quelli che già si trovano in
    Albania e Macedonia. I 19 paesi della Nato ne hanno sotto le armi 4 milioni
    e mezzo, un decimo dei quali forma le "Forze di Reazione Rapida".
    A parte un ricorso suicida alle armi nucleari, la Russia non è in
    condizioni di reagire con effettive contromisure militari, salvo un appoggio
    alla Serbia che sarebbe comunque limitato e ininfluente ai fini operativi.
    Ma nel corso del decennio trascorso dalla guerra del Golfo la capacità e
    rapidità di approntamento, proiezione e ricostituzione delle forze alleate,
    soprattutto terrestri, si sono sensibilmemte ridotte. Il lentissimo
    spiegamento degli elicotteri Apache e della "Forza Mobile Alleata"
    è un segnale allarmante. 
    Ma le difficoltà maggiori restano quelle decisionali.
    Se un rapido successo iniziale avrebbe potuto tacitare le proteste dei
    governi macedone e greco, isolare le tendenze pacifiste e disfattiste, e
    prevenire aperture dilatorie e disgregatrici da parte serbo-russa, ora
    questi ostacoli si rafforzano di giorno in giorno, innescando fatalmente una
    lotta contro il tempo. Per coprire la sotterranea preparazione
    dell’attacco terrestre, la Nato ha alzato il livello dei bombardamenti, ma
    quanto più li intensifica tanto più spinge Belgrado a calare il suo asso:
    vale a dire accettare una forza di pace dell’Onu a condizione però di
    escludere i paesi della Nato o, peggio ancora, i soli anglo-americani.
    L’unica invocazione giunta sinora alla Nato è quella dell’Albania, ma
    dall’Albania non è possibile sferrare alcuna offensiva per
    l’insufficienza dei porti e della rete stradale, la presenza dei profughi,
    le caratteristiche del terreno da attraversare e la distanza da Pristina. 
    La base di partenza ottimale resta la Macedonia, ma è
    dubbio che, anche ammettendo di ottenere il consenso greco e macedone, il
    porto di Salonicco e gli aeroporti locali possano sostenere lo sforzo
    logistico necessario. Sarebbe inevitabile, come del resto sta già
    avvenendo, ricorrere al territorio bulgaro e romeno, pagandolo con la loro
    inclusione nella Nato. 
    Inoltre è oggi illusorio sperare che Belgrado
    "collabori" con la Nato per limitare il conflitto al Kosovo e
    fissare una linea di "cessate il fuoco". È molto più probabile
    che approfitti dell’offensiva terrestre per allargare le operazioni alla
    Bosnia, al Montenegro e alla Macedonia in modo da ottenere nuovi pegni
    territoriali e puntare ad un accordo di pace assai più ambizioso, cioè lo
    scambio tra Grande Serbia e Grande Albania, due opzioni che sconvolgerebbero
    tutti gli equilibri regionali, riaprendo il contenzioso sull’Epiro, la
    Transilvania, la Vojvodina. Per poter vincere è necessario attaccare. 
    Ma per poter attaccare è necessario riprendere il
    controllo dell’allargamento del conflitto, di fatto già avvenuto,
    strappandolo dalle mani di Milosevic. Per questo, mentre rinforziamo il
    fronte macedone, dobbiamo rinforzare anche quello bosniaco e predisporre in
    Puglia le basi e le forze per un rapido intervento in Montenegro, lasciando
    all’Uçk e alle forze speciali il compito di fissare le truppe serbe sul
    confine albanese. 
    Cosa può accadere se accettiamo di perdere? 
    Contrapporre la politica alla guerra è il modo
    migliore per favorire la spiralizzazione della guerra. Difficilmente la Nato
    potrebbe sopravvivere ad una soluzione negoziata che la escludesse dal
    Kosovo. Ma sarebbe ancor più difficile rifiutare un piano di pace
    dell’Onu accettato da Belgrado a quest’unica condizione. Proprio questa
    temuta eventualità sembra spingere inglesi e americani verso
    l’incriminazione di Milosevic, allo scopo di escluderlo come controparte
    negoziale. Il prezzo sarebbe un’ulteriore scalata del conflitto e la
    direttrice obbligata dell’offensiva terrestre non sarebbe più Pristina ma
    Belgrado. Se l’Italia avesse veramente a cuore i suoi interessi in Serbia,
    avrebbe dovuto urgentemente porre all’ordine del giorno la creazione di un
    corridoio umanitario in Kosovo, magari sfruttando l’appello pasquale del
    Papa. Ma la sua politica non è dettata né dall’interesse nazionale, né
    dal pacifismo, bensì dall’illusione di poter rinviare la crisi di governo
    e il rendiconto finale di una sinistra fallimentare. 
    Ma perché non potremmo puntare proprio sulla
    sconfitta anglo-americana e sulla fine della Nato, come vorrebbe la lobby
    fascio-trotzkijsta della Farnesina, la quale sogna di sostituire Roma a
    Mosca come faro dell’antimperialismo? Chiudere con un bel peace keeping
    dell’Onu sarebbe il trionfo delle sinistre europee, che potrebbero
    affaccendarsi per qualche anno intorno a conferenze di pace e tribunali di
    guerra, magari cominciando a processare i "nostri" criminali.
    Salveremmo inoltre i 3.500 miliardi del turismo adriatico e i 1.800 di
    investimenti in Serbia (metà dei quali Telecom). 
    Ma la guerra ha già dato il colpo finale
    all’agonizzante politica del rigore comunitario e la pace ne aggraverebbe
    l’effetto recessivo. Quello che ci illudessimo di poter risparmiare
    nell’immediato dovremmo pagarlo con interessi usurari non soltanto nel
    prossimo decennio, ma nel prossimo secolo. I Balcani non sarebbero
    pacificati. La Serbia sarebbe incoraggiata a proseguire sulla strada
    panserba e la Russia a riprendere influenza sul suo ex Impero. 
    Lungi dall’accelerare la propria integrazione
    politica, una Comunità "finlandizzata" crollerebbe sotto il
    fatale risorgere dei nazionalismi, in primo luogo quello tedesco. Non più
    limitata dalla solidarietà atlantica, esploderebbe la latente guerra
    economica euro-americana, mentre gli Stati Uniti manterrebbero il controllo
    dei rifornimenti petroliferi europei. Senza contare che, in stretta
    associazione con la fedele Inghilterra, potrebbero tentare di ricostruire il
    loro spazio imperiale facendo leva sul mondo islamico e sulla Cina. Una
    volta amputata della Siberia e dei territori oltre gli Urali, una Russia
    "europea", ma miserabile e minacciosa, busserebbe alle porte della
    Comunità chiedendo di essere mantenuta e riarmata 
    I nostri governi portano da soli la colpa di aver
    aperto il vaso di Pandora. Tocca a noi richiuderlo. Il dado è tratto, i
    vascelli sono bruciati. Adesso dobbiamo combattere. Non per Clinton, né per
    i kosovari, ma per il nostro Paese, anche se sta nel torto. Non c’è più
    alternativa: vincere o perire. 
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