Una guerra europea
VINCERE O PERIRE
di Virgilio Ilari

La guerra fredda è stata la terza guerra mondiale del XX secolo e si è conclusa con la cancellazione dell’Unione Sovietica, scomparsa esattamente come il Terzo Reich. Ma è stata combattuta contro la Russia, non contro il comunismo: così come le due precedenti sono state combattute contro la Germania, non contro il nazismo o il prussianesimo. Queste guerre hanno modificato l’assetto dell’Occidente, non più fondato sull’alleanza anglo-francese ma sull’egemonia americana, l’unica in grado di raccordare Europa e Giappone e di gestire l’eredità degli imperi coloniali europei. Dopo Eisenhower, Bush è stato il più "europeo" dei presidenti americani proprio perché quello maggiormente consapevole delle responsabilità "imperiali" degli Stati Uniti, fino al punto di subordinarvi gli interessi puramente nazionali. Alla cultura "geopolitica" che egli incarnava si è contrapposta con Clinton una cultura "geoeconomica", nazionalista e protezionista, che ha rafforzato l’economia americana a spese dell’Europa e del Giappone, indebolendo la potenza militare degli Stati Uniti e la coesione occidentale e mettendo a rischio la stabilità del mondo e la nostra sicurezza comune. La tragedia dei Balcani è la conseguenza più vistosa della strategia scelta dall’Occidente per consolidare la sua terza vittoria mondiale del XX secolo, vale a dire per "allargarsi" ad Est. La nostra sicurezza imponeva di pacificare e controllare in modo permanente la fascia critica delle guerre mondiali, che corre da Danzica a Sarajevo, ai Dardanelli e al Golfo. Cioè il limes orientale già raggiunto a Sud dall’Impero romano e a Nord dall’Impero germanico.

Il controllo del limes si poteva ottenere in due modi differenti. Nel novembre del 1989 l’Occidente poteva ancora decidere se comprarlo col mercato oppure occuparlo con le legioni americane. Allineandosi agli Stati Uniti durante la guerra del Golfo e scegliendo la stabilità monetaria anziché l’immediato allargamento fino alla Polonia e alla Turchia, l’Europa ad egemonia tedesca ha scelto le legioni, illudendosi di poterne scaricare il costo sul contribuente americano. Puntando sull’Euromoneta e raccontandosi la fiaba dei "dividendi della pace" e poi quella dell’Eurodifesa, l’Europa ha di fatto lasciato alla Nato il compito, irrinunciabile, di tracciare il limes baltico-danubiano: vom Finnland bis / zum Schwarzes Meer, "dalla Finlandia al Mar Nero", come dice l’inno nazista composto per l’"Operazione Barbarossa".

L’Europa non ha oggi alcun diritto di lagnarsi dello strapotere americano. Ringrazi Iddio che c’è ancora, sia pure in mano al peggior presidente del secolo (ma anche gli attuali governi europei, tranne quello spagnolo, sono i peggiori dal 1945). Colpa nostra se abbiamo preferito cullarci nel wishful thinking che guerra e geopolitica fossero archiviate per sempre, proprio quando, per la prima volta nella storia, è emersa la concreta possibilità di saldare sotto una sola autorità imperiale i settori germanico, balcanico e medio-orientale del limes.

Perché abbiamo distrutto la Jugoslavia?

Se l’Europa avesse scelto la strada del mercato, anziché la stabilità monetaria e le legioni, forse sarebbe stato possibile salvare l’unità della Cecoslovacchia e della Jugoslavia, ponendola come condizione irrinunciabile per l’ammissione dell’ex Impero austro-ungarico nel sistema occidentale. Beninteso integrare l’intera Jugoslavia nel mercato europeo sarebbe stato molto costoso e molto difficile. Ma integrarla nel limes militare era impossibile. Non perché la Nato fosse di per sé ostile alla Jugoslavia, anzi. Lo Stato multietnico creato a Versailles nel 1919 dalla Francia e dalla Gran Bretagna in funzione antitedesca e antitaliana e restaurato da Tito, fu infatti difeso proprio dalla Nato e dall’Italia ancora nei primi anni Settanta, quando l’Urss tentò di destabilizzarlo attraverso il nazionalismo croato. Ma nel 1991 la Nato non poteva associarsi l’intera Jugoslavia per la stessa ragione per la quale fallì il patto balcanico progettato nel 1951-54 dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna: e cioè l’impossibilità di mantenere in una stessa alleanza turchi e serbi, islamici e ortodossi.

Beninteso la Jugoslavia fu travolta dal fanatismo etnico cinicamente sfruttato ed esasperato dai cacicchi, dagli affaristi e dalle mafie di Lubiana, Zagabria, Sarajevo e Belgrado. Ma l’indipendenza slovena, croata e bosniaca fu imposta dalla Germania e dal Vaticano, trangugiata dall’Europa filoserba e infine cogestita, nel peggiore dei modi, assieme agli Stati Uniti riluttanti. Col magnifico risultato di prolungarne e aggravarne i terribili costi umani, sermoneggiando contro la "pulizia etnica" proprio mentre si abbatteva uno Stato multietnico.

Se proprio la Jugoslavia non poteva sopravvivere, allora avevamo il dovere politico e morale di pianificare uno scambio concordato di popolazioni sotto il controllo militare internazionale. Sarebbe costato meno dell’esodo sotto le bombe e il terrore, ma ci avrebbe tolto la nostra falsa innocenza. Impensabile: meglio tromboneggiare nei talk show o firmare ai tavoli dei radicali. "Potere dei più buoni" e fondamentalismo umanitario sono la faccia tartufesca e la faccia farisea del medesimo coccodrillo.

Perché siamo nemici della Serbia?

L’Occidente aveva calcolato che almeno vent’anni di strapotere sulla Russia sconfitta e umiliata, sarebbero stati necessari per poter costruire il nuovo vallo atlantico. Ne ha spesi metà per inglobare Polonia, Cechia e Ungheria e per garantire indirettamente anche il Baltico, l’Ucraina e gran parte dell’antico limes costruito dall’Impero asburgico contro quello ottomano. Si noti che per tre secoli un buon tratto di questo limes, quello croato, fu presidiato proprio dalle colonie militari serbe, i famosi "reggimenti confinari", simili ai cosacchi, che fino al 1878 circondavano la Bosnia ottomana e che dopo l’occupazione austriaca e l’asse germanico-ottomano furono sostituiti dalla fanteria bosniaca, perpetuata nella seconda guerra mondiale dalle due divisioni musulmane delle SS.

Nel 1991 gli eredi di queste colonie serbe formarono la Repubblica serba della Krajina (che vuol dire appunto "confine"). Nel 1995 furono estirpati dall’aviazione alleata e dalla fanteria croata, sia pure con un’offensiva in gran parte virtuale e concordata. Abbiamo però il dovere di ricordarci che l’aviazione atlantica ha indirettamente contribuito a deportare in Serbia 750 mila serbi dalla Slavonia, dalla Krajina e dalla Bosnia.

Perché, invece di esasperare il conflitto con Belgrado, non abbiamo cercato anche noi di integrare la Serbia nel nostro confine danubiano, invece di respingerla verso Mosca? La ragione non è che Milosevic è pazzo e/o criminale, ma che l’Occidente (Italia inclusa) deve conciliare il suo naturale filoserbismo antigermanico con l’interesse a puntellare il bastione anatolico contro l’espansionismo russo (ricordate la guerra di Crimea? ricordate, a proposito, l’effetto che produsse il pugno di piemontesi caduti alla Cernaia? Il calcolo geniale di Cavour oggi lo sta facendo il governo polacco). Se Churchill volle nel 1915 il disastroso sbarco di Gallipoli fu per impedire che fosse la Germania a saldare il confine danubiano col bastione anatolico e mediorientale. Se da anni andiamo gridando nieder mit den Serben ("abbasso i Serbi") come fecero nell’agosto 1914 gli studenti viennesi, è perché stavolta, per la prima volta, tanto gli ex Imperi centrali quanto l’ex Impero ottomano giocano nella nostra squadra. Se servisse una riprova, ricordiamoci che lo scorso autunno l’Italia, vale a dire il paese più apertamente filoserbo della Nato dopo la Grecia, ha rischiato la rottura diplomatica con Ankara sul caso Oçalan.

Perché volevamo il Kosovo?

Dei due bastioni avanzati che restano alla Russia verso l’Occidente, quello bielorusso è il più forte ma anche il meno minaccioso. Esso non ha impedito, ma semmai facilitato l’ingresso della Polonia nella Nato e una indiretta associazione dell’Ucraina, legata alla Polonia da un accordo bilaterale di sicurezza. Quello più insidioso, che Mosca esita giustamente a sostenere, è la Serbia. L’Italia proponeva di aggirarlo, sostenendo l’estensione della Nato alla Slovenia e alla Romania, il che avrebbe portato il confine atlantico sullo storico Vallo di Traiano. Il nodo della minoranza ungherese in Transilvania e forse il timore, non soltanto tedesco, di rafforzare l’influenza italiana nei Balcani hanno indotto l’Alleanza ad aggiornare ogni decisione. Una volta rifiutata l’opzione romena, per turare la falla tra il settore polacco-magiaro e quello turco della nuova frontiera atlantica non restava che stabilire un cordone sanitario attorno alla Serbia, affidando alle truppe il compito di collegare territori Nato non contigui. Una soluzione precaria, azzardata ed irta di enormi difficoltà giuridiche e militari. Ma la relativa facilità con la quale la Nato era riuscita ad installarsi in Bosnia e Macedonia, occupando le ali del cordone, ci ha indotto a sottovalutare la difficoltà di occupare anche il centro, che non si limita al Kosovo, ma include anche il Montenegro. Per questo un anno fa ci siamo decisi a giocare la carta della spartizione del Kosovo, mascherando il nostro vero obiettivo dietro il sostegno all’autonomia e all’autodeterminazione dei kosovari. Con tutta evidenza il vero nodo di Rambouillet non era la questione dell’autonomia, ma la richiesta occidentale di stanziarvi un corpo d’armata, cerniera tra quelli già presenti in Bosnia e Macedonia e anticamera della secessione montenegrina.

Come si poteva pensare che Belgrado potesse pacificamente sottoscrivere una tale rinuncia alla propria sovranità, oltre tutto senza alcuna sostanziale garanzia circa la spartizione della provincia e il diritto a serbizzare la parte settentrionale ricca di miniere, cioè la Metohija? Infatti si poteva ipotizzare che su questo punto Belgrado e la Nato potessero alla fine giungere ad un compromesso. Ma come arrivarci, come poter ottenere il consenso del popolo serbo ad un simile accordo senza un sia pur limitato spargimento di sangue, che consentisse, come era avvenuto in Bosnia, di acquisire reciproci pegni territoriali e far nascere il nuovo confine interkosovaro da una linea di "cessate il fuoco"?

Perché la Serbia non si arrende?

La forza massima è quella potenziale. Usandola si consuma, anche se può essere consumata per rigenerarla e moltiplicarla. L’ultimatum assomiglia al potlach. È un passo estremo, perché, assumendo l’iniziativa sul terreno strettamente militare, in realtà l’attaccante cede al difensore la decisione politica della guerra. Sta in ciò la paradossale superiorità della difesa sull’attacco, ben spiegata da von Clausewitz. Il fattore "tempo" lavora contro l’attaccante e a favore del difensore. Ma la difesa è possibile soltanto se il difensore ha, relativamente alle capacità dell’attaccante, il modo di guadagnare "tempo". Ciò avviene in genere cedendo "spazio" (anche in senso metaforico) quanto più lentamente possibile. Infatti la conquista dello spazio genera "attrito", riducendo la potenza dell’attacco e allungando tempi e costi. Ad un certo momento si determina il "punto culminante" della guerra, quello in cui le potenzialità dell’attacco e della difesa si equivalgono. In questo momento si decide la sorte della guerra, per quanto a lungo possano ancora durare i combattimenti.

Apparentemente la Serbia non ha spazio da cedere, visto che, tempo permettendo, siamo in grado di bombardarla tutta e di farlo contemporaneamente. Perché allora non capitola? Semplicemente perché continuiamo a conquistare lo spazio sbagliato, quello aereo, del quale la Serbia non ha bisogno per perseguire il suo scopo di guerra (serbizzare la Metohija e, se possibile, l’intero Kosovo). Quanto alla distruzione delle armi pesanti e del morale dell’esercito serbo, ammesso che riusciamo a conseguire questo obiettivo in tempi ragionevoli, non servirà a niente finché non ci decideremo ad impiegare le forze terrestri, nostre e/o kosovare.

Ostentando fiducia nell’efficacia psicologica e compulsiva della propria strategia indiretta, la Nato ha sinora continuato a dichiarare che stiamo bombardando il futuro della Serbia, che l’abbiamo fatta già regredire di vent’anni, che le abbiamo già inflitto danni per 100 mila miliardi di lire. Ma il futuro a medio termine che stiamo bombardando non è il futuro a lungo termine scelto dieci anni fa dalla Serbia quando si è consegnata al nazionalismo e ha accettato l’economia di guerra. Non è Milosevic che ha accettato questo prezzo, ma la Serbia. Né il Paese né l’Armata si sono ribellati. Al contrario, il regime si è consolidato e ha riassorbito ogni opposizione e dissenso significativi. Senza contare che perfino l’impiego delle forze aeree è stato a dir poco sconcertante. Visto che siamo stati noi a prendere l’iniziativa, perché abbiamo scelto la stagione meno adatta e cominciato le operazioni con una quantità di aerei e missili insufficiente? Sembra infatti che in un mese abbiamo potuto mandare a segno duemila tonnellate di esplosivo contro le 88 mila impiegate durante la guerra del Golfo.

Perché nel 1991 abbiamo vinto e oggi stiamo perdendo?

È difficile trovare nella storia militare un difensore in condizioni più vantaggiose di Milosevic. Finché ci limitiamo a bombardarlo, l’unica fatica che deve fare è continuare a dire "no". Il precedente della guerra del Golfo non calza, perché quella guerra non fu vinta dalla sola aviazione. Fu vinta perché l’obiettivo, la liberazione del Kuwait, era chiaro, limitato e legittimato, la credibilità militare dell’Occidente molto elevata e l’impiego del "Potere Aereo" razionale e adeguato.

L’offensiva aerea fu infatti preceduta da sei mesi di accurata preparazione diplomatica e di mobilitazione militare, propagandistica e finanziaria e seguita dall’attacco terrestre, breve ma intenso, la battaglia delle "cento ore". Prima di lanciare l’ultimatum, Bush schierò 13 divisioni corazzate e meccanizzate (armate con il surDaily residuato dalla guerra fredda e comunque destinato alla rottamazione o alla vendita a subpotenze regionali). Inoltre Bush si fece legittimare dall’Onu e riconoscere il supremo potere decisionale dalla coalizione anti-iraqena. Infine ottenne la copertura quasi dell’intero costo finanziario (180 mila miliardi di lire) da parte della Germania, del Giappone e soprattutto dell’Arabia Saudita e degli Emirati.

Nessuna di queste precondizioni è stata rispettata nella guerra attuale. Invece, per giustificare la mera prosecuzione dei bombardamenti e mobilitare un tardivo, generico e momentaneo consenso, i nostri imbelli e insipienti governi sessantottardi sono andati vociando di voler incriminare lo stesso uomo al quale hanno consegnato il dado della pace e della guerra. Un momento prima dichiarano che mai entreremo in Kosovo con la forza. Il momento dopo giurano che vogliono trascinare Milosevic al Tribunale dell’AJa.

Combatteremo sino all’ultimo kosovaro?

La "pacificazione" della Krajina serba e della Bosnia è stata una perfetta applicazione del modo di combattere che l’Occidente ha ereditato dall’Inghilterra: combattere fino all’ultimo francese, usare gli indigeni come fanteria appoggiandoli con le forze aeronavali, per poi occupare con le nostre fanterie il confine raggiunto dagli indigeni. Tutto sembrava indicare che intendessimo fare la stessa cosa con il Kosovo. Invece abbiamo consentito ai serbi di sloggiare l’Uçk e inseguirlo oltre il confine albanese.

Perché, allora, abbiamo bombardato lo stesso? Perché, con tutta evidenza, il nostro scopo era di imporre a Belgrado non già l’autonomia ma la spartizone del Kosovo, consentendo a Milosevic di serbizzare la ricca Metohija in cambio di un protettorato atlantico sulla parte meridionale, interessata dal futuro gasdotto. Era e resta un obiettivo "ragionevole" ed equo, tenuto conto che sono gli interessi strategici vitali a dettare i princìpi giuridici e i diritti umani e non viceversa. Ma la situazione non consentiva di raggiungerlo senza un pugno di morti sul terreno, senza un duello al primo sangue.

Purtroppo era necessario versarne un po’ anche del nostro, non soltanto di quello serbo e kosovaro. Invece i nostri governi, incapaci quanto vili e protervi, hanno creduto di potersela cavare con una guerra a zero morti (nostri) pur avendo spensieratamente accettato un duello con regole feroci e ineludibili. Non serve che adesso le chiamino barbariche soltanto perché non sono neanche riusciti a barare.

L’impressione di viltà è aggravata dalla speculazione propagandistica sulla tragedia dei kosovari. Che gli abitanti della Metohija, già scacciati dalle loro case, sarebbero stati quanto meno espulsi non appena ne avessimo fornito il pretesto, non era semplicemente prevedibile, ma anche necessario per poter realizzare l’accordo spartitorio implicito nella nostra strategia.

Ma allora avevamo il dovere di predisporre i campi di accoglienza, prima di ritirare gli osservatori dell’Osce e prima di aprire le ostilità, oltre tutto concentrate nei primi giorni esclusivamente sulla Serbia. Finora soltanto l’Italia e la Grecia hanno prestato qualche soccorso ai profughi, per quanto anch’esse l’abbiano fatto soltanto dopo che la tragedia prevista e calcolata si era verificata. I kosovari morti di fame, di freddo, di epidemie dopo aver varcato il confine macedone o albanese pesano sulla coscienza di chi ha cinicamente calcolato che la loro tragedia sarebbe servita a giustificare la guerra che l’ha aggravata.

Avevamo alternative militari all’offensiva aerea?

Il calcolo sui profughi è forse uno dei motivi per i quali in ottobre la Nato ha scartato l’ipotesi di aprire le ostilità con un attacco di sorpresa. In Macedonia la Nato aveva soltanto 12 mila uomini. Ma predisponendo le riserve e agendo di sorpresa sarebbero bastati per penetrare fino a Pristina, tagliando fuori le forze serbe situate nella parte meridionale della provincia. Queste ultime avrebbero potuto formare sacche di resistenza, ma non contrattaccare, mentre avrebbero dovuto vedersela con la reazione della guerriglia kosovara, ovviamente armata, sostenuta e inquadrata dalle nostre forze speciali.

Un attacco di sorpresa poteva riuscire, perché la colonna corazzata avrebbe incontrato soltanto una parte delle forze serbe in Kosovo (circa 30 mila uomini) e l’aviazione avrebbe potuto colpirle prima che potessero attuare il diradamento antiaereo, raggiungere i capisaldi e fortificare il confine con sbarramenti, campi minati e scudi umani. Inoltre le retrovie macedoni sarebbero state sgombre dai profughi e avrebbero consentito il rapido afflusso di rinforzi e rifornimenti. Infine le forze aeree e missilistiche avrebbero avuto un ruolo decisivo, anziché interlocutorio come quello che hanno giocato finora. Sarebbero state impiegate esclusivamente contro forze e non contro città, soltanto in Kosovo e non in Serbia, a massa e non a spizzico, a bassa e non ad alta quota. Avrebbero dovuto svolgere contemporaneamente tre compiti: controaviazione, interdizione e appoggio diretto, per impedire l’afflusso di rinforzi e rifornimenti dalla Serbia e ogni velleità di controffensiva e per sgombrare la strada alle forze terrestri. Avrebbero subìto gravi perdite, limitando però quelle delle forze terrestri.

È possibile adesso un attacco terrestre?

Dopo un mese di bombardamenti strategici, la base e la direttrice di un eventuale attacco terrestre non sono cambiate, ma il prezzo da pagare è cresciuto enormemente. Anzitutto le possibilità di sorpresa si sono praticamente azzerate. Anche ammettendo che un sesto o più delle armi pesanti e contraeree serbe sia stato distrutto, quelle superstiti sono adesso appostate nelle aree e nei capisaldi di resistenza scelti da un nemico valoroso e feroce, che a differenza degli alleati combatte non solo per la propria patria ma per la propria pelle e conosce perfettamente il terreno e ogni segreto della guerra di montagna. Gli assi di penetrazione e scorrimento sono già stati minati, sbarrati e difesi. Il morale delle truppe serbe è galvanizzato dal successo sin qui ottenuto, dalle esitazioni alleate e dall’epurazione dei comandanti irresoluti o incapaci. Le già scarse capacità di autodifesa della popolazione kosovara sono azzerate, mentre le masse di profughi intasano le linee di comunicazione alleate.

Per un attacco terrestre su Belgrado si calcolano necessari almeno 200 mila uomini, un quarto dei quali si trova già in Bosnia, Albania e Macedonia. Ma per aprire un corridoio umanitario su Pristina ne bastano 50 mila, il doppio di quelli che già si trovano in Albania e Macedonia. I 19 paesi della Nato ne hanno sotto le armi 4 milioni e mezzo, un decimo dei quali forma le "Forze di Reazione Rapida". A parte un ricorso suicida alle armi nucleari, la Russia non è in condizioni di reagire con effettive contromisure militari, salvo un appoggio alla Serbia che sarebbe comunque limitato e ininfluente ai fini operativi. Ma nel corso del decennio trascorso dalla guerra del Golfo la capacità e rapidità di approntamento, proiezione e ricostituzione delle forze alleate, soprattutto terrestri, si sono sensibilmemte ridotte. Il lentissimo spiegamento degli elicotteri Apache e della "Forza Mobile Alleata" è un segnale allarmante.

Ma le difficoltà maggiori restano quelle decisionali. Se un rapido successo iniziale avrebbe potuto tacitare le proteste dei governi macedone e greco, isolare le tendenze pacifiste e disfattiste, e prevenire aperture dilatorie e disgregatrici da parte serbo-russa, ora questi ostacoli si rafforzano di giorno in giorno, innescando fatalmente una lotta contro il tempo. Per coprire la sotterranea preparazione dell’attacco terrestre, la Nato ha alzato il livello dei bombardamenti, ma quanto più li intensifica tanto più spinge Belgrado a calare il suo asso: vale a dire accettare una forza di pace dell’Onu a condizione però di escludere i paesi della Nato o, peggio ancora, i soli anglo-americani. L’unica invocazione giunta sinora alla Nato è quella dell’Albania, ma dall’Albania non è possibile sferrare alcuna offensiva per l’insufficienza dei porti e della rete stradale, la presenza dei profughi, le caratteristiche del terreno da attraversare e la distanza da Pristina.

La base di partenza ottimale resta la Macedonia, ma è dubbio che, anche ammettendo di ottenere il consenso greco e macedone, il porto di Salonicco e gli aeroporti locali possano sostenere lo sforzo logistico necessario. Sarebbe inevitabile, come del resto sta già avvenendo, ricorrere al territorio bulgaro e romeno, pagandolo con la loro inclusione nella Nato.

Inoltre è oggi illusorio sperare che Belgrado "collabori" con la Nato per limitare il conflitto al Kosovo e fissare una linea di "cessate il fuoco". È molto più probabile che approfitti dell’offensiva terrestre per allargare le operazioni alla Bosnia, al Montenegro e alla Macedonia in modo da ottenere nuovi pegni territoriali e puntare ad un accordo di pace assai più ambizioso, cioè lo scambio tra Grande Serbia e Grande Albania, due opzioni che sconvolgerebbero tutti gli equilibri regionali, riaprendo il contenzioso sull’Epiro, la Transilvania, la Vojvodina. Per poter vincere è necessario attaccare.

Ma per poter attaccare è necessario riprendere il controllo dell’allargamento del conflitto, di fatto già avvenuto, strappandolo dalle mani di Milosevic. Per questo, mentre rinforziamo il fronte macedone, dobbiamo rinforzare anche quello bosniaco e predisporre in Puglia le basi e le forze per un rapido intervento in Montenegro, lasciando all’Uçk e alle forze speciali il compito di fissare le truppe serbe sul confine albanese.

Cosa può accadere se accettiamo di perdere?

Contrapporre la politica alla guerra è il modo migliore per favorire la spiralizzazione della guerra. Difficilmente la Nato potrebbe sopravvivere ad una soluzione negoziata che la escludesse dal Kosovo. Ma sarebbe ancor più difficile rifiutare un piano di pace dell’Onu accettato da Belgrado a quest’unica condizione. Proprio questa temuta eventualità sembra spingere inglesi e americani verso l’incriminazione di Milosevic, allo scopo di escluderlo come controparte negoziale. Il prezzo sarebbe un’ulteriore scalata del conflitto e la direttrice obbligata dell’offensiva terrestre non sarebbe più Pristina ma Belgrado. Se l’Italia avesse veramente a cuore i suoi interessi in Serbia, avrebbe dovuto urgentemente porre all’ordine del giorno la creazione di un corridoio umanitario in Kosovo, magari sfruttando l’appello pasquale del Papa. Ma la sua politica non è dettata né dall’interesse nazionale, né dal pacifismo, bensì dall’illusione di poter rinviare la crisi di governo e il rendiconto finale di una sinistra fallimentare.

Ma perché non potremmo puntare proprio sulla sconfitta anglo-americana e sulla fine della Nato, come vorrebbe la lobby fascio-trotzkijsta della Farnesina, la quale sogna di sostituire Roma a Mosca come faro dell’antimperialismo? Chiudere con un bel peace keeping dell’Onu sarebbe il trionfo delle sinistre europee, che potrebbero affaccendarsi per qualche anno intorno a conferenze di pace e tribunali di guerra, magari cominciando a processare i "nostri" criminali. Salveremmo inoltre i 3.500 miliardi del turismo adriatico e i 1.800 di investimenti in Serbia (metà dei quali Telecom).

Ma la guerra ha già dato il colpo finale all’agonizzante politica del rigore comunitario e la pace ne aggraverebbe l’effetto recessivo. Quello che ci illudessimo di poter risparmiare nell’immediato dovremmo pagarlo con interessi usurari non soltanto nel prossimo decennio, ma nel prossimo secolo. I Balcani non sarebbero pacificati. La Serbia sarebbe incoraggiata a proseguire sulla strada panserba e la Russia a riprendere influenza sul suo ex Impero.

Lungi dall’accelerare la propria integrazione politica, una Comunità "finlandizzata" crollerebbe sotto il fatale risorgere dei nazionalismi, in primo luogo quello tedesco. Non più limitata dalla solidarietà atlantica, esploderebbe la latente guerra economica euro-americana, mentre gli Stati Uniti manterrebbero il controllo dei rifornimenti petroliferi europei. Senza contare che, in stretta associazione con la fedele Inghilterra, potrebbero tentare di ricostruire il loro spazio imperiale facendo leva sul mondo islamico e sulla Cina. Una volta amputata della Siberia e dei territori oltre gli Urali, una Russia "europea", ma miserabile e minacciosa, busserebbe alle porte della Comunità chiedendo di essere mantenuta e riarmata

I nostri governi portano da soli la colpa di aver aperto il vaso di Pandora. Tocca a noi richiuderlo. Il dado è tratto, i vascelli sono bruciati. Adesso dobbiamo combattere. Non per Clinton, né per i kosovari, ma per il nostro Paese, anche se sta nel torto. Non c’è più alternativa: vincere o perire.

Virgilio Ilari


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1999