L'Europa dei moderati
IN ATTESA CON HELMUT KOHL
di Heinz-Joachim Fischer

Ha saputo perdere. Quando la sera del 27 settembre 1998, verso le diciotto, le prime proiezioni dei risultati delle elezioni per il Bundestag rimbalzarono sugli schermi televisivi tedeschi, la sconfitta apparve certa con crudele immediatezza. Una sconfitta personale, del suo partito e di quella che fino ad allora era stata la sua coalizione. I socialdemocratici (Spd) guidati da Gerhard Schröder e i Verdi avevano ottenuto la maggioranza nel Bundes-tag battendo i partiti che avevano governato fino ad allora (Cdu/Csu e Fdp) guidati dal cancelliere Helmut Kohl. Il risultato: Spd 40,9 per cento e 298 seggi su 669 nel Bundestag; i Verdi 6,7 per cento e 47 seggi; Cdu/Csu 35,2 per cento e 245 seggi; Fdp 6,2 per cento e 44 seggi. Ma Helmut Kohl, da venticinque anni quasi indiscusso e sempre inamovibile presidente della Cdu, la Democrazia cristiana tedesca, la Christlich-Democratische Union, un partito popolare nel vero senso della parola, che si estende a tutte le classi sociali e comprende tutte le correnti, non è apparso né particolarmente sorpreso, né scioccato.

Non sembrava essere stato ferito mortalmente e, dunque, nessun trauma insuperabile era previsto. Il cancelliere battuto ha riconosciuto pubblicamente vincitori e vinti e ha affermato secco e conciso: "La vita continua". Anche quando uno come lui, da sedici anni capo del governo della Repubblica Federale Tedesca, ha appena perso il potere nella terza nazione più industrializzata del mondo, la più popolosa ed economicamente potente nazione nel cuore dell’Europa; e oltre a questo, secondo tutte le previsioni, anche la presidenza del suo partito. Quasi in silenzio si è compiuto il cambiamento di governo a Bonn, sul Reno, ancora per pochi mesi sede dell’esecutivo, prima del trasferimento a Berlino. Da Helmut Kohl a Gerhard Schröder, dalla Cdu/Csu e Fdp, la coalizione composta dai democristiani (e i cristiano-sociali bavaresi) con i liberali, ai socialdemocratici (Spd) e i Verdi; espresso in colori politici da nero-giallo a rosso-verde. In maniera per niente drammatica e per niente spettacolare si è compiuto il cambio di campo del governo e dell’opposizione nella democrazia tedesca, i socialdemocratici e i Verdi hanno preso i posti di comando che prima erano occupati da democristiani e liberali, nell’ufficio del cancelliere e nei ministeri del governo, nelle commissioni parlamentari e in quelle del potere legislativo.

Così ora non troviamo più Helmut Kohl nell’ufficio del cancelliere a destra nell’ala settentrionale, al secondo piano, nella famosa stanza con la vista a nord, sul parco della Villa Schaumburg e oltre fino al Reno ma nel grattacielo dei deputati del Bundestag, ingresso 2/A, due rampe di scale più in basso, nell’aula plenaria. Quando Kohl ha lasciato la carica di cancelliere, costretto dai risultati elettorali, e anche la presidenza della Cdu, subito dopo la sconfitta, prima che nel partito potesse sorgere una qualsiasi discussione in merito, ha detto che voleva essere, che sarebbe stato, un "semplice" deputato del Bundestag. Nell’ufficio del "Dr. Helmut Kohl", membro del Bundestag, non si sente affatto il silenzio paralizzante di una possibile impotenza, da alcuni temuta, da altri presunta o sperata. "Qui tutto si svolge ancora in maniera vorticosa" dice Juliane Weber, da sempre sua capufficio e già assistente del membro del Landtag e del ministro Kohl a Magonza, il capoluogo della Renania-Palatinato, la patria regionale. Lei è l’indispensabile "braccio destro" del capo dell’opposizione a Bonn (dal 1973 al 1982) e del cancelliere (dall’ottobre del 1982 al 1998), ancora oggi la donna di sempre, al centro del potere del cancellierato, colei che con infallibile intuito divideva tutti i visitatori in buoni e cattivi: quelli a favore e quelli contrari al suo stimato capo. Da lei, però, si nota subito un cambiamento. Nel trasloco dal Bundestag ha dovuto sfoltire di molto la sua collezione di elefanti, grandi e piccoli, di legno e di metallo, provenienti da vicino e da lontano. Il suo elefante preferito è quello del Bernini a Roma, dichiara la Weber con charme ai visitatori provenienti dall’Italia; il simbolo della saggezza e della forza che si trova di fronte alla chiesa di Santa Maria sopra Minerva, dietro al Pantheon; quello non ha potuto essere innalzato nella sua collezione né l’originale né una copia; ma naturalmente è il più bello.

È inevitabile l’allusione all’"elefante" ancora vivo e vegeto della politica tedesca, Helmut Kohl, che con il suo metro e novantasette d’altezza non è certo un peso piuma. Ma ci si chiede: è oggi un’allusione ad un vecchio elefante, che abbandona il branco del suo partito, si ritira in silenziosa solitudine, pronto a morire politicamente? Ad un "dinosauro" in via d’estinzione, come si è descritto Kohl stesso, rappresentante di una specie, che va scomparendo, di politici con esplicite convinzioni, ad uno statista di grande importanza e di forte stabilità? Qui arriviamo al punto del nostro colloquio, uno dei tanti negli ultimi anni. Dopo la sconfitta elettorale del settembre dello scorso anno, Helmut Kohl si è saggiamente imposto delle autolimitazioni. Ha evitato interviste che facessero scalpore. Avrebbe potuto facilmente, con una parola o un’altra su questo o su quello in materia di politica interna ed estera, ottenere i titoli a caratteri cubitali delle agenzie di stampa e dei giornali e l’attenzione dei mass media. Ma gli elettori avevano già risposto alla questione del governo. Gli sembrava ozioso speculare sul fatto che forse, con un altro candidato al cancellierato, la Cdu/Csu avrebbe avuto risultati migliori.

Possibile. Ma uno che è stato cancelliere per sedici anni, più a lungo di tutti i suoi predecessori, e che ha provato per gran parte della sua vita la malia del potere politico, non poteva dubitare di sé e del fatto che avrebbe potuto farcela ancora. Voleva soltanto saperlo ancora una volta. Forse avrebbe potuto farsi battere pubblicamente da un compagno di partito migliore, più giovane, più "vincente". Chissà cosa sarebbe successo, se il principe ereditario designato per il cancellierato e attuale presidente della Cdu, Wolfgang Schäuble, avesse semplicemente tentato una pubblica rivolta contro il patriarca del partito, Kohl, e avesse avuto successo.

Ma uno come Kohl non si lascia convincere dalle belle parole. Deve arrivare qualcuno con capacità politica, oppure non se ne parla. Non ci si poteva aspettare che un Helmut Kohl servisse il cancellierato su un vassoio d’argento ad un altro della Cdu. La carica bisogna ottenerla combattendo, come egli stesso ha fatto con fatica per nove anni da capo dell’opposizione contro molte resistenze. Altrimenti non si ha la "stoffa" per fare il cancelliere. Ma per Helmut Kohl tutto questo è finito. Come politico di governo è, l’abbiamo già detto, uno che sa perdere e che non si sofferma a lungo su ciò che non si può cambiare. Da storico quale è, per studi compiuti e per passione, può tirare le somme con soddisfazione: gli elettori non gli hanno rimproverato l’"affare Kohl". La riunificazione tedesca, dopo la caduta del Muro fra i due blocchi mondiali di potere, avvenuta a Berlino nel novembre del 1989, è stato il suo capolavoro politico. Da allora l’Est e l’Ovest della Germania si sono avvicinati un po’ di più anno dopo anno. Come "cancelliere dell’unità tedesca" Helmut Kohl si è assicurato un posto nei libri di storia. Ma questa per lui era sempre la stessa faccia della medaglia. L’altra era, lo ha confermato senza tentennamenti innumerevoli volte, il processo di unificazione europea.

Con grande soddisfazione ha potuto vedere la sua eredità, l’unione monetaria europea, entrare in vigore il 1° gennaio 1999, come prevedeva il trattato, con l’introduzione "teorica" dell’euro. Con un altro cancelliere tedesco. Bene. Anzi peccato. Ma per lui non fa niente, se questo significa che l’unità e la pace in Europa sono irreversibili e definitive. E guardate come è ammutolito il coro dei dubbiosi e dei perplessi riguardo all’euro e anche riguardo alla partecipazione dell’Italia a questa "comunità monetaria sulla vita e sulla morte". Nessun politico o economista serio mette più in discussione l’opera europea di Kohl. Ancora una volta egli aveva ragione e molti altri torto. E questo darà forma al futuro dell’Europa. Ma da buon perdente, il politico democristiano medita su come in futuro la sconfitta possa trasformarsi in vittoria per la Cdu in Germania, per la politica democristiana, per i moderati, i partiti europei di centro uniti nel Partito popolare europeo (Ppe) e, questo interesse emerge di continuo nel corso del colloquio, anche per Italia, la seconda patria in Europa della politica democristiana; una politica moderata, di centro, una politica dell’equità, senza ideologie e senza una presenza statale eccessiva: si possono trovare molti modi di descriverla. Ciò che un tempo, negli anni Cinquanta, fu avviato dai padri fondatori europei, il tedesco Konrad Adenauer e l’italiano Alcide De Gasperi, e che ha influenzato il periodo Sturm und Drang del giovane politico Kohl, dopo il settembre del 1998, non è diventato un’eredità pesante per il patriarca della Cdu ma piuttosto un incarico e un impegno e anche una preoccupazione per l’immediato futuro. Fin dal 1973 il capo della Cdu ha seguito attivamente gli eventi della Democrazia cristiana italiana. Indimenticabile è il suo leggendario intervento al congresso democristiano nel febbraio del 1980. Allora il capo dell’opposizione tedesca voleva distogliere la Democrazia cristiana, che era al governo, dal "compromesso storico", l’accordo con il Partito comunista sotto l’egida della "solidarietà nazionale"; più precisamente voleva evitare che i comunisti partecipando al governo venissero elevati al rango di democratici e fossero nobilitati moralmente. Espresso in tattica di partito: la Dc doveva smettere di guardare a sinistra, e doveva piuttosto mantenere la sua collocazione naturale al centro. Ancora oggi è una preoccupazione di Kohl che i democristiani italiani, ora frammentati in molti partiti e gruppi diversi, aspettino la salvezza politica dalla sinistra e se ne lascino troppo vincolare. Ancora oggi, dopo tutto quello che è successo all’eredità della Dc, intesa come partito ed elettorato! Con preoccupazione e costante attenzione Helmut Kohl ha seguito all’inizio degli anni Novanta il declino della Democrazia cristiana, mandata a casa dalle accuse, formulate dai pubblici ministeri, di corruzione, abuso di potere e violazione della legge sul finanziamento dei partiti, che hanno colpito i suoi principali rappresentanti.

La leadership della Dc era "logorata"; quando si dice questa parola Kohl sa di cosa si parla. Conosce tutti quelli che nella Democrazia cristiana avevano qualcosa da dire. Ha sempre curato i contatti con tutti, ha sempre trovato tempo per loro, a Bonn o durante le numerosissime visite in Italia. Quando il segretario politico Martinazzoli gli chiese di aiutarli, mettendo il suo prestigio sul piatto della bilancia a favore della Dc, non si è tirato indietro e si è recato egli stesso in Puglia, nella lontana Bari, per una manifestazione elettorale. Con "scetticismo" Kohl ha assistito al fallimento del nuovo inizio della Democrazia cristiana come Partito popolare, al fatto che nelle elezioni del marzo 1994 il meglio del potenziale elettorale, che una volta apparteneva al partito di centro, è stato conquistato da un altro, dal ricco imprenditore dei media Silvio Berlusconi, con il movimento politico Forza Italia, al fatto che però "al centro" non si riusciva a creare una politica comune per la "cosa" comune e l’elettorato comune. Per questo Kohl giudica con "scetticismo" anche gli sforzi attuali degli ex democristiani italiani e dei politici di centro in generale. Kohl è troppo realista per inseguire le illusioni. Così di tanto in tanto si apprende dai media italiani che i democristiani sono continuati ad andare a Bonn: fino ad oggi, per ricevere la benedizione di Kohl a un nuovo partito cattolico unitario in Italia. Ci si sbaglia di grosso. Kohl sa che prima bisogna mettersi d’accordo in Italia. Ma proprio su questo è "scettico". Ci sono molti nomi senza un ordine specifico, quasi più un ordine alfabetico: Bianco, Buttiglione, Casini, Cossiga, De Mita, Marini, Martinazzoli, Mastella, Prodi.

La lista è lunga, non è nemmeno completa e può ancora allungarsi. C’è anche il nome di Berlusconi, naturalmente; bisogna parlare anche degli sforzi di Forza Italia per aumentare il peso del centro nella politica italiana e in Europa nell’ambito del Partito popolare europeo. Ma chi aspetta un giudizio personale su chi possa essere il nuovo leader rimane deluso. Il politico di governo Kohl non regala la qualifica a priori, ma solo dopo che in Italia si sia ristabilito il rinnovato Partito popolare come forza di governo di centro e ci si sia riuniti sotto un candidato pulito e con prospettive. Il politico di governo Kohl sa che "immischiarsi", intervenire a favore di questo o di quello, ha un effetto controproducente. Così si preoccupa soprattutto di mantenere intatta al centro politico la cornice europea, che viene, poi, sempre riempita dagli sviluppi nazionali. Questo vale anche per la complicata vita dei partiti italiani, per gli uomini d’apparato di Roma. Per le imminenti elezioni europee di giugno, Helmut Kohl è tuttavia di buon umore e ottimista, per la Germania come per l’Italia, senza che ciò appaia una forzatura. Lo sconfitto del settembre del 1998 si è ormai ripreso. Naturalmente conosce i numeri, sa che i socialisti e i socialdemocratici (Pse) sono il gruppo più forte con 214 seggi, ma con un vantaggio minimo sui democristiani, che hanno 200 seggi. Vale la pena anche per i partiti italiani di centro di dimostrare unità nonostante la legge elettorale proporzionale, e di opporsi alla sinistra. L’Europa ha bisogno dei democristiani, politici moderati di centro, senza ideologie di destra o di sinistra. Non c’è bisogno di ripetere questa massima al vecchio cancelliere. Per lui è ovvia. Oggi e soprattutto per il futuro dell’Europa.

Heinz-Joachim Fischer
(traduzione dal tedesco di Barbara Mennitti)


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1999