Congetture & confutazioni
ABOLIAMO L'UNIVERSITA'
di Sergio Bertelli

Accecati dal dibattito ideologico sul finanziamento alla scuola privata, gli italiani non si sono accorti di che cosa stia realmente succedendo nel campo degli studi. Un campo che pure coinvolge il futuro dei loro figli. A colpi di maglio, si sta infatti ridisegnando tutto il settore dell’istruzione, dequalificando progressivamente l’insegnamento pubblico. L’innalzamento dell’obbligo scolastico ai 16 anni è solo la prima tappa di questo disegno. Se da un lato esso ritarda l’ingresso nel mondo del lavoro di tanti giovani, riducendo fittiziamente le statistiche sul primo impiego, dall’altro abbassa e dequalifica l’insegnamento nella scuola superiore, costringendo gli insegnanti ad un rallentamento dei programmi, per seguire quanti, già in partenza, si sa che non proseguiranno negli studi. L’ovvio risultato è quello di scaricare sull’università la formazione di quei giovani che usciranno dai licei meno preparati di oggi.

Sul fronte, poi, del reclutamento dei docenti universitari, il bilancio è davvero fallimentare. Come dimostra, del resto, l’esperienza dei dottorati di ricerca, per i quali l’antica "libera docenza", non hanno infatti apportato alcuna nuova linfa. Per non parlare del "ricercatore", altra figura ambigua, della quale non si è mai voluto fissare lo statuto giuridico. Nata come sostitutiva del vecchio "assistente alla cattedra", ha di fatto ricreato, come una clonazione, la tanto deprecata figura dell’"incaricato": un insegnante mai passato al vaglio di alcuna commissione di concorso, ma che, riconfermato nell’insegnamento anno dopo anno, ha finito per chiedere forme più o meno camuffate di ope legis, grazie ad anticostituzionali concorsi a lui "riservati" per la propria immissione in ruolo. Nel fervido linguaggio sindacalese, si è arrivati ad avere consorsi per "novennalisti", per persone, cioè, che, in 9 anni, non erano mai riuscite a superare il giudizio di una normale commissione concorsuale e che chiedevano adesso, a gran voce, il riconoscimento del fatto compiuto. Un’esperienza non dissimile da quella, precedente, degli "aggregati", sorta di limbo nel quale erano stati fatti avanzare exassistenti, con concorsi agevolati, e che, grazie ai sindacati, erano stati equiparati ai professori ordinari (benché la Corte costituzionale ne avesse riconosciuto illegale la nomina, ma senza… retroattività!).

Al posto degli "aggregati", fu creata allora la figura dell’"associato", un insegnante dimezzato per potere accademico, ma non per livello di insegnamento, sottoposto al vaglio di un concorso che riprendeva molto del modello di concorso della libera docenza (esame dei titoli scientifici e lezione pubblica). Fagocitati gli "associati" nel corpo accademico come seconda fascia, il vizietto di eludere la selezione di merito ha portato (molto spesso senza che ve ne fosse una reale esigenza didattica) a dare ai ricercatori più anziani un "affidamento" su materie secondarie (talvolta inserite appositamente nello statuto delle varie facoltà), ricreando così la vecchia figura dell’incaricato. Poiché questi affidamenti sono stati concessi dai Consigli di facoltà a colpi di maggioranze elettorali, molto spesso amicizie accademiche o appartenenze a schieramenti politici hanno fatto aggio su ogni considerazione riguardo al valore scientifico e agli effettivi bisogni didattici.

Come era già successo negli anni Settanta per gli incaricati, questo andazzo ha portato oggi ad una nuova legge ad hoc, che, sempre nel linguaggio sindacalese, è definita di "scorrimento": scorrimento verso l’alto dei ricercatori destinati a divenire associati, degli associati destinati a divenire professori ordinari. Il primo risultato di questa legge è stato quello di mettere il catenaccio ad ogni futuro reclutamento. Mi consta di Consigli di facoltà "allargati" (con la partecipazione, cioè, di associati e ricercatori) che hanno votato a maggioranza la rinuncia ad ogni ulteriore richiesta di posti di ricercatore, destinando tutte le risorse finanziarie alle future chiamate di probabili vincitori interni di concorsi di prima e seconda fascia.

La nuova legge demanda alle singole università il bando di concorso. La commissione sarà formata da 5 membri, uno dei quali "interno", nominato dalla facoltà banditrice, e 4 eletti dai professori dell’area alla quale la cattedra messa a concorso afferisce. La commissione individua, fra i concorrenti, 3 "abili" all’insegnamento, che hanno 3 anni di tempo per essere chiamati da una qualsiasi università (non necessariamente la stessa banditrice), pena la loro decadenza. Poiché alla facoltà banditrice è richiesto, contestualmente alla messa al bando della materia, un "profilo" del candidato ideale a ricoprire la cattedra messa a concorso, si lascia ampio spazio alla facoltà stessa di rifiutare tutti e tre i concorrenti segnalati dalla commissione, in caso il proprio candidato soccombesse.

Non è detto però che il rifiuto a chiamare l’outsider si debba necessariamente basare su un criterio di merito o di mafie accademiche. Il grande pubblico ignora che, con l’autonomia finanziaria, si sono costrette le facoltà in veri e propri letti di Procuste. Sui bilanci delle facoltà gravano non solo le spese di investimento (in laboratori e biblioteche), ma quelle fisse, per gli stipendi del personale. Ora, il divario, fra la prima e la seconda fascia docente, così come fra la seconda e la terza fascia è, mediamente, di 35/40 milioni annui, mentre uno stipendio pieno di professore ordinario si aggira sui 160 milioni annui. È dunque evidente che ad una facoltà conviene di più chiamare un vincitore di concorso che sia già nei propri ruoli (come terza o seconda fascia), che non un esterno, per il quale deve essere previsto uno stipendio pieno.

Si deve aggiungere che le facoltà sono oggi indotte a richiedere concorsi non sulla base di bisogni didattici, di copertura di materie giudicate caratterizzanti, ma sotto pressione di candidati ritenuti accademicamente "forti" o che, comunque, riescono ad ottenere la maggioranza a loro favore nelle votazioni dei propri Dipartimenti e Consigli.

Si aprono così almeno due scenari: 1) il commissario interno si accorda con due commissari per far passare il candidato della facoltà ponendo in minoranza i rimanenti due, indipendentemente da ogni giudizio scientifico sui futuri vincitori; 2) tre commissari esterni si accordano fra di loro per far passare i propri candidati, mettendo in minoranza il commissario interno a scapito del candidato per il quale la facoltà di partenza aveva chiesto il concorso, ben sapendo che vi sono altre facoltà in attesa della terna per chiamare a loro volta i ternati, senza far correre alcun rischio ai propri docenti. Per ottenere entrambi i risultati, è sufficiente che un congruo numero di professori della stessa area scientifica si accordino in sede di votazione (le operazioni sono già in atto), perché chiunque di loro venga eletto, nei vari concorsi, faccia passare solo la rosa di candidati fra loro concordata, determinando così il futuro della materia. Un futuro che può essere o di dipendenza da cordate accademiche e ideologiche, o da schieramenti politici. Si può star sicuri che in loro non sarà comunque il giudizio scientifico a prevalere. E perché dovrebbe, quando i titoli accademici hanno valore legale in tutta Italia, indipendentemente dalla facoltà che li ha elargiti? Del resto, per il ministero, quel che conta non è il livello scientifico, ma l’attività didattica, che potrà essere giudicata solo sulla base delle ore e degli anni di insegnamento effettuati, visto che nessuno è in grado e ha titoli per giudicare del valore scientifico dei corsi impartiti.Le conseguenze, devastanti, sono che non vi sarà più ricambio. Ogni sede si rinchiuderà su se stessa.

L’ondata di concorsi che sta per abbattersi sull’università nasconde poi un altro pericolo: quello del ricatto. Professori di seconda fascia, divenuti membri di commissione di concorso cui accedono colleghi di terza fascia, ma a loro volta concorrenti a posti di prima fascia, potranno essere pesantemente condizionati dai professori ordinari, nel loro giudizio in sede concorsuale. In altre parole: potranno ottenere una benevola attenzione al loro caso, solo ottemperando ai desideri dei colleghi della fascia superiore.

Che l’università italiana si avvii ad una progressiva decadenza culturale, che il suo destino sia ormai quello di sostituirsi al liceo, che la sua funzione divenga prevalentemente didattica, e non più di produzione scientifica, è dimostrato da altre tre riforme promosse sotto il ministero Berlinguer e attuate sotto il ministero Zecchino.

Innanzi tutto: gli incentivi economici. Prendendo a modello (ed equivocando) il sistema statunitense, si progettano incentivi ai docenti didatticamente più impegnati. Ma il sistema americano non è esportabile in Italia. Là il rapporto fra professore e università è di carattere privato e la contrattazione per l’assunzione avviene attraverso un articolato sistema di controllo sul valore scientifico del personale docente. Ogni disciplina ha la propria associazione, che si riunisce a intervalli fissi (di solito annuali). I talent scouts delle università più prestigiose seguono i lavori congressuali, giudicano il valore dei relatori, fanno un’offerta che può essere accettata oppure no, ma che serve comunque al professore per rivedere il suo rapporto con la propria università. Nulla di questo è possibile in Italia. Qui il giudizio sarà basato sul numero degli studenti iscritti ai corsi, il numero di ore dedicato al tutoraggio, il numero di esami e quello di tesi assegnate. Il risultato sarà un’ulteriore dequalificazione. Perché è ovvio che tutti tenderanno a rincorrere lo studente, offrendo corsi semplici, prove d’esame facili, tesi sempre più compilative. Il risultato sarà un indubbio abbattimento degli abbandoni, ma l’esito sarà esiziale per la formazione dei giovani. Non a caso, da tempo, le aziende sono costrette ad organizzare corsi di riqualificazione del personale che intendono assumere!

Ci sono poi le altre due riforme, quelle più esiziali per il futuro dell’università. La ricerca scientifica, sino ad ieri, era finanziata in 3 forme distinte: un 60 per cento dei fondi era gestito dalle università, tramite i Dipartimenti e gli Istituti; un 40 per cento era integrato, per progetti di rilevanza nazionale, dal ministero per l’Università e la ricerca scientifica e tecnologica (Murst). Un rapporto che è stato adesso ribaltato. Ridotti ad una misura insignificante i progetti ex 60 per cento, il grosso del finanziamento è stato accentrato al Murst, che giudica attraverso un comitato (i cui membri ricevono un emolumento di 40 milioni, 50 il loro presidente!) sulla base di giudizi di "referenti" che rimangono anonimi, così come anonimi restano i giudizi sfavorevoli (sul sito Internet del Murst compaiono solo i progetti approvati). E poiché, come s’è detto, sia i membri del comitato, sia i referenti sono di nomina ministeriale, è chiaro che non esiste alcun controllo democratico sul loro giudizio. È dunque sufficiente che un proponente abbia stroncato – mettiamo in una recensione su una rivista scientifica – il lavoro di uno dei referenti, o sia di una parte politica a lui avversa, perché la sua proposta di ricerca venga insindacabilmente bocciata.

La terza forma di finanziamento della ricerca era a carico del Consiglio Nazionale delle Ricerche (Cnr). Una nuova legge, contestualmente approvata, ha riguardato il riordino delle funzioni di questo organismo. Sino a ieri, esso era strutturato in due settori: un primo, formato da istituti dipendenti direttamente dal Consiglio; un secondo, costituito da 15 comitati scientifici, i cui membri erano eletti dai professori universitari, area per area. Era questo secondo settore che stabiliva il rapporto fra Cnr e università, finanziandone la ricerca. Essendone i membri democraticamente eletti, essi rispondevano del loro operato al proprio elettorato.

La riforma ha abolito tutti i comitati, ha insediato un Consiglio direttivo di 8 membri più un presidente, ed un "nucleo di valutazione costituito da esperti esterni" (come si esprime il decreto), tutti di nomina ministeriale. È prevista inoltre la "chiamata diretta di insigni studiosi": una dizione che lascia il campo al più completo arbitrio ministeriale, perché tutti costoro saranno svincolati da ogni controllo dal basso. Chi deciderà, infatti, quanto più "insigne" sia Tizio rispetto a Caio? Non basta. I finanziamenti andranno innanzitutto agli Istituti del Cnr, e, in secondo luogo, a progetti di ricerca non più presentati da singoli studiosi o gruppi di studiosi, ma dalle Università. Come recita sempre il decreto, "i ricercatori e professori di ruolo, previa convenzione fra università e Cnr, possono svolgere per periodi predeterminati attività di ricerca presso le strutture del Cnr". Il risultato di una tale norma è la completa esclusione di finanziamenti per la ricerca nell’ambito delle cattedre universitarie, in particolare per il settore umanistico, dove, anche ammessa la possibilità di ricerche da svolgere all’interno di istituti Cnr, è chiaro che la preferenza verrà data solo a progetti politically correct.

Dal mattino si vede il buon giorno. Infatti. I primi organi direttivi del Cnr sono stati formati dal ministero e parzialmente eletti dai membri degli antichi comitati. In futuro, verranno formati solo con scelte dall’alto. Va rilevato che in questo primo Direttivo non è entrato alcuno studioso di area umanistica, mentre nel consiglio scientifico è stato lo storico dell’antichità Luciano Canfora, di nota area ideologica, ad essere stato prescelto.

Si profila, insomma, la formazione di una vera e propria "Accademia delle Scienze" del tipo dei vecchi regimi socialisti: un’istituzione formata da soli scienziati, scelti dal regime, progressivamente riducendo tutte le ricerche in campo umanistico, che sono quelle, come si sa, che più formano il pensiero critico: le più "politiche". Ma un docente universitario che non compia più ricerca è un insegnante dimezzato. Non potrà comunicare ai suoi discepoli altro che un sapere già invecchiato, di seconda mano, "manualistico".

È dunque solo con l’abolizione del valore legale del titolo di studio che si può sperare di invertire questa tendenza alla dequalificazione dell’insegnamento pubblico. Solo inserendo la competitività fra le varie università sarà possibile promuovere un reclutamento ad alto livello scientifico, rompendo la perversa tendenza a rinchiudersi nel localismo, nel particolarismo degli interessi sindacali precostituiti. Solo allora non si chiederà più al giovane: "che laurea hai?", ma: "da che università provieni?".

Sergio Bertelli


Torna al sommario


Archivio
1999