Congetture & confutazioni
NON TORNEREMO
DEMOCRISTIANI
di Alberto Pasolini Zanelli

Dicono che le manovre di Cossiga e compagni abbiano, oltre alla componente bizzarra del protagonista ed a quella affaristica dei suoi seguaci, una componente ideologica o quanto meno "politica", in un senso un po’ meno ignobile del termine, e addirittura con una proiezione europea. Potrebbe anche essere consolante, non fosse per il fatto che l’unica strategia politica, che emerge dal carnevale triste di basso impero il cui impresario ha inventato la sigla Udr, è sbagliata e perdente, anche e soprattutto su scala continentale. Che cosa dice di credere, infatti, Cossiga (e lasciamo perdere ciò che cupidamente vogliono i troppi Mastella che lo circondano)? Che il ventaglio politico italiano debba essere "normalizzato" e riportato a quella che egli definisce la situazione europea classica: cioè una concorrenza fra una socialdemocrazia (che da noi sarebbe rappresentata dal Pds, ma includerebbe anche i comunisti non rigenerati come Cossutta) e un "filone centrista e popolare". Fra questi due si dovrebbe giocare la partita in Europa e nei singoli Paesi, con la rinnovata emarginazione della componente nazionale e la distruzione di quella liberale, in quanto sterile e pericolosa concorrente. Insomma, un campo "socialista" e uno "moderato", di nuovo monopolizzato dai democristiani. Un progetto restauratore; per quanto riguarda l’Italia, addirittura nostalgico e basato, in una proiezione continentale, sulla forza trainante dei partiti democristiani mitteleuropei, in particolare tedeschi.

Una strategia e un’ipotesi messe in difficoltà, prima ancora che dalle più elementari considerazioni che vi si possono contrapporre, dai fatti. Negli ultimi vent’anni, in Europa, l’evoluzione politica ha infatti dimostrato chiaramente due cose: che forze e programmi di coraggiosa riforma liberale mettono ovunque in crisi le sinistre, mentre un centro con caratteristiche democristiane perde ovunque la sfida e ovunque arretra. Al di là delle oscillazioni normali in un largo gruppo di democrazie parlamentari, la tendenza più marcata e indiscussa è proprio quest’ultima. Può oscurarla il fatto che nel Parlamento europeo di Strasburgo il gruppo "popolare" continua a mantenere una consistenza che, per quanto di regola inferiore a quella socialista, è tuttavia di forza paragonabile: ma ciò accade esclusivamente perché questo gruppo si è venuto allargando con l’inclusione di partiti di diverse nazioni, che non sono nati e non sono democristiani: dai conservatori britannici al Partido popular spagnolo, a Forza Italia. Il nucleo storico dc - che si è da tempo ridotto alla Germania, all’Austria ed ai tre Paesi del Benelux - è ormai "regionale" ed è in continuo declino. I democristiani non sono più la forza predominante né in Belgio, né in Olanda, né in Lussemburgo, né in Austria, e la loro fetta di elettorato continua a restringersi.

In Germania questo fenomeno è stato "oscurato" dalla straordinaria notorietà internazionale di Helmut Kohl e dalla storica vicenda della riunificazione, ma nessuno dei due eventi è bastato a invertire la tendenza. Quanto a Kohl, è esattamente dal 1983, cioè dalle elezioni che seguirono l’abbattimento in Parlamento della maggioranza socialdemocratica di Brandt e Schmidt, che la Cdu-Csu perde voti ad ogni elezione. In quindici anni essa è passata dal 48,8 al 35,1 per cento. Il declino era già notevole (4,5 per cento) al termine del primo quadriennio di Kohl. Poi fu rallentato, anche se non arrestato, dalla meritata riconoscenza dei tedeschi dell’Est al cancelliere della riunificazione, e la Cdu-Csu scese in sette anni dal 44,3 al 41,8 per cento. Esaurito questo fattore, si è avuto il crollo del 1998, che l’ha portata all’attuale 35,1 che è il peggior risultato dal 1949 ad oggi. E questo in presenza di un governo efficiente, di una capace amministrazione, del marco solido, del generale rispetto per la Germania e del fulgore del modello economico esaltato come "capitalismo renano".

Va anche aggiunto che Kohl è stato il più "democristiano" fra i leaders della Cdu-Csu, che aveva invece toccato ben più alti consensi nei tredici anni in cui, all’opposizione, ebbe per guide dei liberal-conservatori o dei nazional-liberali come Alfred Dregger e Franz Josef Strauss.

Non è mai troppo tardi per riflettere sui motivi di un declino che sfiora ormai le dimensioni di un crollo e che va ben oltre le normali oscillazioni. Esso ha due motivi innegabili. Il primo è che il processo di secolarizzazione della società europea continua e che il mantello confessionale si fa sempre più stretto. Il secondo è ancora più profondo: i Paesi a guida democristiana sono rimasti indietro nella gara per la modernizzazione dell’economia, e dunque della società, che si è aperta proprio all’inizio degli anni Ottanta sotto la spinta di dottrine nuove che affrontavano radicalmente i motivi del fallimento della sinistra. I temi dello sfoltimento delle regole, della crescita economica, della modernizzazione, della riduzione massiccia delle tasse, del contenimento del contropotere sindacale, dello sgombero dei detriti del Welfare State, della mobilità del mercato del lavoro come unico strumento per combattere la disoccupazione furono "agitati" in primo luogo nell’Inghilterra thatcheriana e nell’America reaganiana e poi, sia pure ad intermittenza, in molti altri Paesi.

In questa idea si inserì il "miracolo" della vittoria elettorale del Polo in Italia nel 1994, dovuto anche alla semplice ma realistica promessa, da parte di Silvio Berlusconi, di un milione di nuovi posti di lavoro: progetto stroncato dall’abbattimento del governo, ma perfettamente realizzabile nel rispetto dei princìpi di quella rivoluzione liberale.

In questo compito storico i Paesi a guida democristiana sono rimasti sempre più indietro, a cominciare dalla Germania.

A Helmut Kohl devono essere riconosciuti grandi meriti, soprattutto morali, per il vigore con cui egli colse l’occasione per riunificare il suo Paese e per l’impegno profuso nella causa dell’unità europea. Ma sul piano economico egli ha presieduto una "continuità" che ha visto la Germania scivolare costantemente indietro rispetto ai Paesi "riformisti". Secondo l’ultima statistica del World Economic Forum, essa è oggi al ventiquattresimo posto nella classifica chiave della competitività economica. Il principale motivo è che Bonn non ha mai voluto o potuto dare il via a quelle riforme che stavano risollevando economie tanto più fragili, a cominciare da quella britannica.

L’ideologia democristiana, in Germania come in Belgio o addirittura in Italia, non è mai stata così chiaramente contrapposta a quella delle sinistre, ma ne è stata invece concorrente, a causa della componente "comunitaria", se non collettivista, del suo messaggio e della sua azione di governo. Invece di semplificarsi, le regolamentazioni hanno continuato a crescere, le pensioni a divorare una porzione crescente del reddito, la spesa pubblica a consumare quasi la metà dell’economia. Una politica giustificata elettoralmente dalle ostinate resistenze alle riforme di tipo "anglosassone" da parte di settori importanti della società tedesca e di altri Paesi, e che ha contribuito all’insabbiamento dello sviluppo liberale nel cuore dell’Europa.

La "rivoluzione blu" a Bonn non è mai arrivata, tasse e regole continuano a schiacciare il mercato del lavoro e ad attizzare le fiamme della disoccupazione. Ciononostante, è continuato il declino del voto della Cdu (e, un po’ meno, della Csu), fino al risultato catastrofico del settembre scorso.

La ricetta democristiana tradizionale non è più competitiva, denuncia gli anni e le remore. Quella che Cossiga vorrebbe raccogliere e reinstaurare in Italia è una formula perdente.

Solo integrandosi con le idee e con le forze liberali, le falangi in ritirate del "cattolicesimo sociale" possono ridiventare concorrenziali a un fronte delle sinistre che è variegato (in Francia lo definiscono pluriel, e in Italia esso ha i colori di un arcobaleno che va dal suslovismo di Cossutta agli effluvi di palude di Mastella) ma che non ha mai deposto le sue ambizioni egemoniche.

Alberto Pasolini Zanelli


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1999