Quale strategia
per l'opposizione?
SE LA MODERAZIONE
NON BASTA
di Gaetano Quagliariello
Era l’indomani
delle consultazioni municipali di Roma, Napoli, Venezia, Palermo, Catania.
La coalizione di centro-destra prendeva atto di una vera e propria
"Caporetto" elettorale. Di fronte ai divari incolmabili, solo gli
ultimi pasionari del Polo delle libertà riuscivano a consolarsi al pensiero
di aver liberato Macerata dai rossi. Nella sede di Ideazione si presentava
il libro dedicato a Forza Italia: uno dei pochi tentativi di confrontarsi
con questo fenomeno sine ira ac studio. Stefano Folli intervistava Silvio
Berlusconi. Incalzato dall’interlocutore sulle prospettive del movimento
dopo la rovinosa sconfitta, Berlusconi si lasciava scappare un obiettivo:
"Alle elezioni europee del 1999, Forza Italia dovrà raggiungere il 30%
dei suffragi". Un mugugno attraversò la sala. Dava espressione all’incredulità
dei commentatori convenuti, ancora una volta sconcertati dall’impoliticità
apparente di questo strano soggetto politico del quale, dopo quattro anni,
erano ancora costretti ad occuparsi. Ma esprimeva anche lo stupore dei
militanti del Polo, accorsi per conoscere cosa avrebbe potuto evitare il
baratro e costretti a tornarsene a casa con un obiettivo da fantapolitica.
Da allora molta acqua è passata sotto i ponti della politica italiana. L’Ulivo,
trionfatore di quelle elezioni, ha subìto una rovinosa sconfitta politica.
La sua ripresa è tutt’altro che certa. Sul proscenio è apparso Cossiga.
Con un’operazione che, vista sotto l’ottica avaloriale del virtuosismo
politico, fa restare ammirati, ha dato vita ad una formazione centrista che
ha messo in crisi i rapporti di forza tra destra e sinistra che sembravano
consolidarsi. In tale prospettiva, ha sottratto un certo numero di deputati
al Polo con l’auspicio di equilibrare al centro lo schieramento
alternativo alla sinistra. Ha atteso che la crisi tra Prodi e Bertinotti si
consumasse e, quindi, ha offerto i propri voti per il varo di una
maggioranza post-ulivista che ha portato a palazzo Chigi Massimo D’Alema.
Il suo obiettivo dichiarato era quello di distruggere ambedue gli
schieramenti di un bipartitismo considerato fasullo. In loro vece vorrebbe
due nuove aggregazioni: una edificata intorno alla tradizione politica
socialdemocratica, l’altra con i materiali messi a disposizione dal
cattolicesimo liberale. Per ora egli è riuscito ad infliggere un serio
colpo all’Ulivo. Il tentativo di completare il programma lo potrebbe però
condurre a restare prigioniero di una logica politico-istituzionale che egli
stesso, nel corso della sua presidenza, aveva contribuito a destabilizzare.
Invece di un bipolarismo più autentico, la restaurazione della
partitocrazia possibile. Invece di una competizione più inclusiva, il
ripristino di una frattura netta tra quanti - forze politiche ed elettori -
si sentono nel sistema e quanti se ne sentono esclusi. Sono rischi, ne siamo
convinti, dei quali Cossiga è consapevole. E, probabilmente, proprio la
loro considerazione lo porta a giocarsi il tutto per tutto, dando spesso l’impressione
di superare il limite.
Sul fronte del Polo,
oggi, la situazione si presenta a tinte meno fosche rispetto alla primavera
scorsa, quando Berlusconi lanciò "l’obiettivo 30%". E ciò,
paradossalmente, è stato anche un merito di Cossiga. Il centro-destra in un
primo tempo ha beneficiato del ritorno dell’ex-presidente sulla scena
politica. L’inversione del suo trend elettorale è stata causata anche
dalla presenza di un’opzione di centro diversa da quella rappresentata dai
Popolari e da Dini; dal ricrearsi di alcune delle condizioni che avevano
consentito al Polo di vincere le elezioni legislative nel 1994. E non è un
caso che, nel momento in cui quella variabile di centro è venuta meno, i
risultati elettorali del Polo siano tornati ad essere deludenti. Se poi si
guarda alla situazione di Forza Italia, essa ha perso dei pezzi per strada,
ma in compenso ha dato vita ad un partito attraverso la celebrazione di un’assise
elettorale. Su questo passaggio solo chi nelle sue analisi è spinto da un
insuperabile pregiudizio politico potrà permettersi di ironizzare. In
realtà, il Congresso di Milano e l’elezione di una parte della dirigenza
attraverso la consultazione dei delegati hanno messo in movimento processi
difficilmente reversibili. Oggi Forza Italia è un partito imperfetto come
tutti i partiti e attraversato da contraddizioni che angosciano la vita di
ogni partito. Ma, per chi ne avesse voglia, in Forza Italia si può lavorare
e ci si può persino opporre al leader. Certo, con possibilità, mezzi e
strumenti molto relativi, ma non troppo differenti da quelli dei quali
dispongono i militanti di altri partiti. In sintesi, nonostante la battuta d’arresto
dell’ultima tornata di elezioni amministrative, si potrebbe affermare che
l’obiettivo del 30% e di un successo considerevole alle elezioni europee
sembra meno fantasioso di quanto lo fosse prima dell’estate. La
"resistenza" del Polo qualche effetto l’ha portato. La Lega non
sembra più la roccaforte granitica di una volta. Le piazze straboccanti di
gente sono il segno del consolidarsi di un’Italia non disponibile a
tornare indietro, a pratiche da "antico regime". E questo rigetto
è testimoniato anche dalla percentuale delle astensioni e dal considerevole
successo delle liste civiche.
Si potrebbe obiettare:
Berlusconi non fa i conti con la frammentazione che elezioni governate dal
sistema proporzionale inevitabilmente produrranno, e rischia di andare
incontro a qualche brutta sorpresa. Ma non è questo il punto rilevante.
Prima delle ultime elezioni municipali eravamo convinti che il problema dell’opposizione
non fosse di percentuali; ne restiamo convinti anche dopo aver appreso gli
ultimi dati. Anche se un buon risultato elettorale fosse nel novero delle
cose possibili, una strategia politica fondata tutta sul risultato delle
europee (lo "sfondamento" di craxiana memoria) resta miope e
perdente. E, in fondo, incapace di prendere atto di come la situazione
politica, dalla scorsa primavera ad oggi, si sia sostanzialmente evoluta.
La sconfitta dell’Ulivo
ha spostato il baricentro del governo verso l’area della moderazione. Lo
ha fatto ponendo in essere una doppia dinamica. Da un lato, ha riassorbito
nella maggioranza quella contraddizione centrista che aveva messo in crisi i
consolidati equilibri tra destra e sinistra. Dall’altro, ha espulso dall’area
di governo una sinistra antagonista, che va ormai prospettandosi in tutta
Europa come un soggetto politico autonomo. Il Pds, rotto il cordone
ombelicale con Rifondazione, ha ora tutte le carte in regola per fornire il
massimo delle garanzie possibili agli elettori "moderati", quelli
interessati a che il cambiamento - se proprio deve esserci - avvenga nel
modo meno traumatico possibile. Un’opposizione, che non tenga conto di
questa evoluzione, potrà forse anche captare una quota consistente di
elettorato deluso e realizzare un buon risultato percentuale. Molto
difficilmente potrà, però, diventare maggioranza nel Paese. Per lei la
prospettiva più probabile è quella di congelare per un certo lasso di
tempo un consistente dissenso, dando così modo alla sinistra di consolidare
la propria egemonia sugli alleati. In altri termini, il Polo potrà anche
non avere difficoltà ad impedire che Cossiga parta dal governo per
costruire un nuovo bipolarismo. Sembra averne molte di più nel candidarsi
esso stesso a rilevare il governo del Paese dalle mani della sinistra.
Almeno fino a quando riterrà che la successione possa avverarsi attraverso
una sfida all’ultimo sondaggio.
La nuova maggioranza
presenta diversi punti deboli. La maggiore dose di "moderazione"
non ha determinato come conseguenza una maggiore compattezza dei suoi
ranghi. E, soprattutto, questa eterogeneità rischia di produrre un ritorno
al passato: a quelle pratiche politiche, che saranno state anche proprie di
governi moderati, ma che hanno avuto il torto di far crescere reazioni
giacobine ancora non completamente metabolizzate. Il ritorno di partiti
deboli ed arroganti, la lottizzazione di ogni posto disponibile, i patti
leonini, l’eccesso di politicità: sono tutti segni di un arretramento
della vicenda politica italiana. Si potrà obiettare che questi fenomeni
fanno parte della normalità della politica. Ed è possibile convenire sul
rigetto per il gusto tartufesco di tanti appelli moralizzatori che
contrappongono a queste pratiche un generico, vago e vacuo richiamo ai
valori. D’altro canto, la normalità implica anche il rispetto di una
misura. E vi sono tutti i segni che questa misura sia stata superata e
verrà presto travolta. Il cambio di maggioranza a legislatura iniziata, l’aumento
di ministri e sottosegretari per una questione di dosaggi (e di
spartizioni), la sostituzione delle Giunte regionali per ragioni connesse
alla politica nazionale, saranno anche pratiche politiche
"normali", ma con esse gli italiani - tutte le volte che gli è
stato concesso - hanno detto chiaramente di non voler avere più nulla a che
fare.
Questa situazione
politica ripropone ad una forza di opposizione la concreta possibilità di
candidarsi come l’alternativa possibile alla restaurazione, riguadagnando
a sé quella fetta di elettori che ritengono l’Italia, a dispetto della
sua classe politica, pronta per istituzioni, pratiche e costumi politici
più moderni e meno distanti da quelli delle grandi democrazie europee. Per
rimotivare questo elettorato il problema non è quello di essere più
moderati. Su questo terreno ogni tentativo di concorrenza con i "nuovi
moderati" sarà perdente. Semmai, per l’opposizione si pone l’esigenza
di essere più intransigente, difendendo fino all’estremo alcuni princìpi
fondamentali di civiltà politica e buon governo. Il suo problema è quello
di darsi una rigorosa politica di riforme e non limitarsi a cavalcare una
protesta ampia ma sterile. Perché la sua azione risulti credibile, è però
necessario che essa sciolga dei nodi e chiarisca degli equivoci. Con la
massima franchezza ne proponiamo l’inventario.
1) Ogni forza o
schieramento politico ha un suo principio di legittimazione. Il Polo delle
libertà, e Forza Italia in particolare, non dovrebbe dimenticare che il suo
è stato quello della riforma delle istituzioni e del varo di una Seconda
Repubblica. Se la maggioranza odierna è la riproposizione della
partitocrazia possibile, una forza di opposizione non può rinunciare a
contrapporle una proposta istituzionale forte e coerente. Su questo terreno,
invece, il Polo sembra brancolare nelle nebbie più fitte, vivendo alla
giornata e con l’unico obiettivo di non incagliarsi in qualche scoglio.
Sulla legge elettorale sono contemporaneamente presenti - e consentite -
tutte le posizioni possibili: da rigurgiti di nostalgia per la proporzionale
fino al paventato appoggio al "referendum maggioritario". Il
presidenzialismo è ormai un vessillo della sola An e, in aggiunta,
rassomiglia più ad un feticcio che alla proposta di una nuova e coerente
forma di governo. Che tale stato di cose dipenda dal fatto che le riforme
delle istituzioni non può farle l’opposizione da sola, è sempre più un
argomento spuntato. Nessuno chiede al Polo di realizzare da solo "la
grande riforma". Ma, di fronte alla restaurazione proposta nei fatti da
questa maggioranza, un’opposizione responsabile non può evitare d’impegnarsi
su una proposta istituzionale alternativa, che rappresenti una base di
trattativa chiara e che serva ad aprire contraddizioni (e ve ne sono!) nello
schieramento avversario.
2) Puntare con
decisione sul ripristino della logica maggioritaria adottata dagli elettori
nel 1993, nel 1994 e nel 1996, e ogni volta puntualmente sabotata dalla
classe politica, impone al Polo di indicare con una certa solerzia il
candidato dello schieramento all’incarico di primo ministro. La mancanza
di questa indicazione si trasformerebbe con il tempo in un implicito
cedimento a quella logica politica che ritiene un fatto fisiologico il
cambio di maggioranza nel corso della legislatura. È questo il problema
più delicato iscritto nell’agenda dell’opposizione. Berlusconi, per la
sua posizione giudiziaria, si trova in una condizione molto particolare: non
può fare un passo indietro dalla politica - sarebbe un cedimento in una
vicenda il cui significato trascende ormai il suo caso personale -, ma non
può essere nuovamente candidato a palazzo Chigi. Deve restare il leader, ma
non il candidato premier. E quest’ultima scelta gli viene imposta da una
naturale moderazione e dall’esigenza di bloccare la spirale perversa di
annichilimento dello Stato di diritto. Lui stesso - gliene va dato atto - l’ha
riconosciuto sia in sedi pubbliche sia in sedi private. Ma l’indicazione
di un primo ministro in pectore non rappresenta soltanto un elemento
indispensabile per incardinare una logica maggioritaria. È anche un
requisito per vincere le elezioni. Ed alcune esperienze a livello comunale
dovrebbero avere insegnato qualcosa: la scelta deve essere tempestiva e di
livello.
3) Il problema del
candidato premier richiama una questione più generale. La caduta della
passione ideologica e la sostanziale condivisione di valori comuni hanno
fatto sì che nella scelta degli elettori acquisti sempre maggiore
importanza il giudizio sugli uomini. Anche in questo caso, le elezioni
municipali parlano chiaro: il nome del sindaco e la composizione della sua
"squadra" sono stati spesso fattori determinanti per il
conseguimento della vittoria. L’opposizione ha il problema di rassicurare
gli elettori sulla classe politica che gestirebbe una sua eventuale
vittoria. L’impressione diffusa è che uomini di indiscusso valore, che
per indole, sensibilità e cultura politica dovrebbero appartenere allo
schieramento dei "moderati", preferiscano invece contrattare la
propria posizione di potere con lo schieramento avversario. Di fronte alle
molteplici prove di dilettantismo e di mancanza di una cultura nazionale
date dagli ultimi due governi, si può ritenere un errore, da parte dell’opposizione,
il non aver dato vita all’inizio della legislatura ad un vero
"governo ombra". Oggi, però, far emergere personalità in grado
di rassicurare e garantire diviene un problema prioritario. Ministri con il
cravattino di cuoio e pro-rettori fasulli potevano tollerarsi nel 1994, nel
clima d’emergenza che contraddistinse quella vittoria. Non nel 1996, con l’Italia
approdata in Europa.
4) Proprio l’Europa
porta a porre l’accento sui contatti e le strategie sovranazionali dell’opposizione.
È una banalità affermare che oggi gran parte della politica interna si
gioca a livello internazionale. In tal senso, la scelta di Forza Italia di
aderire al Gruppo popolare europeo, a seconda di come verrà gestita, potrà
apparire un segno di consapevolezza e maturità ovvero il sintomo di un
preoccupante ritardo provinciale. Essa, infatti, può essere interpretata
come la conseguenza inevitabile della nascita di una logica bipolare a
livello europeo. Da ciò dovrebbe discendere un impegno a edificare la casa
dei popolari europei come il punto di raccordo delle culture politiche
moderate e non socialdemocratiche. E una ricerca delle ragioni culturali e
politiche che, di fronte alle sfide del nuovo secolo, motivano un’alleanza
tra i liberali e gli eredi dei partiti d’ispirazione cattolica. In tal
senso, l’opposizione italiana può trovare interlocutori e riferimenti. Si
pensi, ad esempio, al percorso intrapreso dal partito di Aznar. Di contro,
quell’adesione può anche essere vissuta come il riflesso di un problema
squisitamente italiano: stabilire chi debba fregiarsi del titolo di
successore legittimo della Democrazia cristiana. Al di là del fatto che -
persino a livello elettorale - il titolo possiede oggi una spendibilità
relativa, ciò equivarrebbe al non voler riconoscere che la Dc ha
rappresentato per quarant’anni un mondo, che oggi non c’è più.
5) Il problema dei
cattolici rimanda ai rapporti dell’opposizione con la Chiesa. C’è una
buona fetta di elettorato "laico" che, su questo problema, non si
sente rassicurata. Nessuno ritiene che sia più proficuo approcciare i
rapporti tra Stato e Chiesa lungo l’antica frattura
clericalismo/anticlericalismo. Sono cambiati i problemi in discussione e,
soprattutto, è cambiata la posizione della Chiesa, che oggi rappresenta a
livello culturale una forza di minoranza. Di fronte ai temi della
post-modernità il Vaticano si trova sempre più spesso a difendere quella
libertà individuale della quale è stato avversario storico. Uno
schieramento che s’ispiri al moderno liberalismo non può non tenerne
conto. Esso, però, deve rendere esplicito di volta in volta questo
mutamento di prospettiva, evidenziando perché la difesa della libertà
individuale e la tutela delle minoranze abbiano portato le sue posizioni a
coincidere con quelle della Chiesa. D’altro canto, non dovrebbe temere di
assumere posizioni critiche quando ciò non si verifica. In breve, dovrebbe
essere capace di una mediazione nuova (non più di potere), piuttosto che
evidenziare un appiattimento che finisce inevitabilmente con lo svalutare la
sua funzione e il suo peso.
Su questi problemi di
fondo dovrebbe aprirsi il dibattito. Per l’opposizione sarebbe il modo
migliore per giungere preparata ai tre appuntamenti che daranno alla vicenda
politica italiana un’impronta più definita: il referendum elettorale
(casomai la Corte dovesse graziosamente acconsentirne l’indizione), le
elezioni per il Parlamento europeo, il rinnovo della presidenza della
Repubblica. La passata storia italiana almeno un aspetto dovrebbe averlo
chiarito: non basta il 30% in un’elezione proporzionale per ottenere una
trasformazione duratura del regime politico. La Prima Repubblica ha saputo
riassorbire ben altro. E di difficoltà ben più grandi restano ancor oggi
lastricati i percorsi del cambiamento.
Gaetano
Quagliariello |

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