Intervista a
Marco Pannella
"PRONTI PER
LA RIVOLUZIONE LIBERALE"
di Gaetano Quagliariello
Non è un mistero che in ogni redazione di
quotidiano vi sia un "coccodrillo" su Marco Pannella,
commissionato quando le sue condizioni di salute sembravano senza speranza.
Superata la crisi, Pannella ha mantenuto un inconsueto distacco dalla
politica. Solo chi ne ha frequentato l’abitazione prima e dopo, può
averne una percezione precisa. Il suo stile di vita in apparenza non è
cambiato, ma la preoccupazione "militante" non è quella di un
tempo. Al di là di alcuni riflessi condizionati, di "residui"
lasciati da una ininterrotta stagione d’impegno, la decisione di ritornare
alla politica attiva non è stata ancora assunta.Il senso politico di questa
scelta è il vero filo rosso che ha legato la nostra conversazione. È
questa la prima intervista di Pannella dopo la guarigione e una delle poche
che il leader radicale abbia mai rilasciato nella sua carriera. Essa è
anche il frutto di un’improvvisazione e di un’urgenza. Nata dalla voglia
di "tornare a parlarsi" dopo alcuni anni, si è sviluppata nei
ritagli di tempo di due persone a modo loro disordinate. Avrebbe certamente
avuto bisogno di crescere ancora un po’ e, soprattutto, di sedimentarsi.
Quando ha accettato di intraprendere questa fatica comune, Pannella ha
tenuto a cautelarsi: gli argomenti della conversazione non avrebbero
investito l’aspetto transnazionale dell’attività radicale. Un aspetto
per tanti versi predominante. I suoi occhi si riempiono di orgoglio quando
ricorda che il Pr, per la sua attività in favore dei tribunali ad hoc sulla
Jugoslavia e sul Ruanda, per la battaglia in favore del tribunale penale
internazionale, ha ottenuto dall’Onu il riconoscimento di "organismo
non governativo di prima categoria". Solo in seguito lo stesso
riconoscimento è stato concesso anche all’Internazionale socialista ed a
quella cattolica. Pur con tutti questi limiti l’intervista è una prima
messa a fuoco dei fondamenti, anche teorici, della vicenda radicale nel
corso della stagione repubblicana. Soprattutto, tenta di mettere in
collegamento questo retroterra con le scelte strategiche dei radicali di
oggi; con le ragioni che nei prossimi mesi determineranno la loro politica,
ancora una volta indissolubilmente legata a una vicenda individuale per
tanti versi unica. Ed è proprio dal tentativo di comprendere gli sviluppi
di questo percorso umano che ha preso le mosse il nostro incontro.
Insomma, Marco, che farai ora? Te la senti
di tornare?
Al posto dei miei compagni, mi augurerei di sentirmi
dire che per ora non intendo tornare all’impegno politico radicale. Se
tornassi solo per ragioni di mestiere, di abitudine, di riflessi
condizionati, a che cosa e a chi servirebbe mai un "Pannella" di
tal fatta? Tornerò, quindi, se e quando la mia presenza mi apparirà utile
a un obiettivo concreto, definito, urgente e possibile, di adeguata ed
"estrema" ambizione civile e politica: quello di realizzare in
tempi politici la rivoluzione liberale italiana, la riforma della quale
scriveva Benedetto Croce. Quello di rovesciare questo regime nel quale il
sovrano è tornato ad essere legibus solutus, negando lo Stato di diritto
come nemmeno i regimi fascisti e comunisti avevano fatto. Da qualche anno mi
accade di pensare che questo sia possibile: ma non basta per farne un
obiettivo.
Evochi scenari pre-rivoluzionari che non
sembrano appartenere a questa fine di secolo. E "rivoluzione
liberale" è espressione ambigua, che in passato è stata il veicolo
dei peggiori illiberalismi. Vogliamo specificare meglio il contesto sociale
e politico al quale ti riferisci?
Recuperiamo l’analisi non gramsciana ma salveminiana
del blocco sociale dominante. Questo blocco sociale si presenta identico a
se stesso per ottant’anni: ha dominati il fascismo dal ’25 al ’43, e
l’antifascismo dal ’47 ad oggi. Esso comprende il mondo industriale e
finanziario guidato dalla Fiat e dai suoi uomini, le aristocrazie operaie
"sindacalizzate", il potere burocratico, la borghesia parassitaria
del Mezzogiorno. Poco è cambiato da allora. Se tentassimo un aggiornamento
dell’analisi salveminiana, dovremmo oggi constatare che non ci sono più i
latifondisti, ma resta attuale il riferimento al potere industriale, alla
politica romana che per le sue pratiche concertative utilizza la burocrazia
e l’amministrazione pubblica, ai sindacati, a quel tanto di Chiesa che
resta (anche se il Vescovo è di destra, sta con l’Ulivo perché di lì
arrivano tutti i soldi pubblici). In fondo, Luigi De Marchi non sbaglia
quando parla di "ceto burocratico" -possiamo anche definirlo
classe burocratica - sostenendo che nelle nuove fratture sociali Cipolletta
e Cofferati si collocano dalla stessa parte. Questo blocco sociale è
diventato struttura di potere, ha prodotto corporativismo, Stato etico, e
l’anti-cittadino. Oggi sembra essere giunto al suo apogeo, ma come nella
Francia dei primissimi anni di Luigi XVI. Ciò che caratterizza socialmente
l’attuale fase storica della società italiana è che grandi masse,
complessivamente fortemente maggioritarie, si sentono e si vogliono estranee
e nemiche dello Stato partitocratico e della cultura della quale il blocco
sociale dominante è espressione. Le similitudini con la situazione
prerivoluzionaria francese degli anni intorno al 1780 sono a volte
impressionanti. In Italia oggi vi è qualcosa di più di un potenziale Terzo
Stato, che si oppone a un regime mostruosamente potente e tentacolare,
espressione organicistica, chiusa, quasi perfetta delle tradizioni
antiliberali: si direbbe in Francia "antirepubblicane". Tutti i
partiti - quelli di maggioranza così come quelli di opposizione - sembrano
chiusi, compressi e rissosi, in un ghetto che comprende al massimo un quarto
dei cittadini italiani. Il regime appare come un colosso con i piedi
d’argilla. Poggia comunque sulle mine o sabbie mobili di un popolo le cui
esigenze, le attese, i sentimenti e i risentimenti si volgono sempre più
apertamente contro il regime. Si tratta, perciò, di porsi alla testa,
guidare e armare la rivolta sociale che per molti versi già incombe. O lo
facciamo noi, da radicali liberali, edificando sulle macerie di questo
regime un’alternativa di tipo anglosassone, o lo faranno altri radicali:
neo-comunisti, neo-fascisti e neo-clericali, destinati a ritrovarsi uniti
per imporre tutti insieme nuovi assetti di violenza, di ingiustizia, di
intolleranza, di miseria economica e civile. È insomma necessario, come ha
magistralmente spiegato Sergio Romano proprio su Ideazione, che i liberali e
i moderati cessino di considerare se stessi come molluschi invertebrati, per
assicurare allo scontro politico e sociale l’intransigenza senza la quale
nessuna grande riforma -di se stessi e del Paese - e nessun buon governo
sono immaginabili.
Categorie "emergenti", come
quella dei magistrati, in che rapporto vengono a trovarsi con il blocco
sociale che tu tratteggi?
La loro integrazione nel regime è scontata, ne sono
elemento costitutivo tra i più potenti e pericolosi. Il cosiddetto
"partito dei magistrati" gli ha concesso il massimo dei benefici
economici, finanziari e di carriera. Contro di loro servirebbe un po’ di
sana lotta di classe... Hanno stipendi fra i più alti del mondo e
condizioni di carriera scandalose. Perfino Scalfaro, per una volta, è
riuscito ad avere una battuta felice quando ha detto che un giovane che
entra in carriera a 25 anni potrebbe già scrivere sui suoi futuri biglietti
da visita "futuro presidente di Corte di Cassazione". Ma, se
entriamo nel mondo delle corporazioni, dobbiamo accennare anche alla casta
militare con i suoi più di 1000 generali al posto dei 30 realmente
necessari; alla burocrazia, al potere corporativo di alcune categorie di
pensionati (che in gran parte coincide con quello dei sindacati). Del
"blocco sociale" dominante fanno poi parte tanti, e grandi,
sepolcri imbiancati. Come quella Banca d’Italia che è stata la prima
responsabile, per decenni, dell’uso massicciamente partitocratico e
mafioso del credito, oltre che del mostruoso indebitamento che è stato
necessario per assicurare il potere assistenziale e clientelare,
corporativista e inflazionista del regime partitocratico della fase
precedente a quella che stiamo oggi vivendo. Dobbiamo poi parlare della
disponibilità da parte di questo blocco degli strumenti del potere moderno:
Mussolini aveva a disposizione solo la radio. Questi controllano tutto
quanto consente il condizionamento, garantendosi oppositori complici
ideologicamente e culturalmente. Questo Polo gli va benissimo, perché
sembra aver abbandonato l’idea della grande riforma istituzionale
americana antipartitocratica e sterilizza l’opposizione sociale.
Siamo al "regime": un termine
che ritorna nelle tue analisi da oltre vent’anni. Ma questa categoria può
ancora essere riproposta immutata, nonostante tutta l’acqua scorsa sotto i
ponti della politica italiana?
Io ho sempre parlato di "regime" in termine
tecnico, come categoria neutra e avaloriale. Ho sostenuto che nella storia
del XX secolo si sono avuti i regimi liberaldemocratici, i regimi totalitari
e la partitocrazia come regime terzo (che non vuol dire "regime
intermedio"). Ma quest’ultima non ha fatto i conti, così come il
totalitarismo, con la democrazia che i "totalitari" anatemizzavano
come vecchia quando ancora era solo un vagito nella storia. La partitocrazia
italiana si confronta non più con la democrazia quanto con il passaggio
dalle monarchie assolute alle monarchie costituzionali. È un nuovo sovrano
tornato al di sopra delle leggi. In questo passaggio il potere che è
soggetto di diritto diviene soggetto al diritto; il re che detta legge ed è
la legge ne diventa invece il supremo garante e servitore, perde
l’investitura dall’alto. La cultura partitocratica fa i conti con questa
conquista dell’umanità e ripropone una nozione dell’organizzazione
dello Stato per la quale "chi è al potere detta legge ed è la
legge". Inventa la nozione di "legge materiale" che non è
mai uguale a se stessa, e la novellistica è costante perché di volta in
volta la legge serve a superare mille difficoltà diverse. Non è un caso
che la "partitocrazia" si affermi in un Paese nel quale la Chiesa
è cattolica e non protestante, il movimento operaio comunista e non
socialista. Qui essa trova l’humus migliore per ridar vita ad una
concezione dello Stato e del potere nel quale la legge non è quella dello
Stato di diritto, né la legge uguale per il primo cittadino e per
l’ultimo.
Questa è la sola spiegazione nobilitante della
partitocrazia, in questi quarant’anni non ne ho sentito altre. Di fronte a
questa realtà, i vari Bobbio, Galante Garrone, eccetera, sembrano i più
ciechi, sembrano aver paura di aprire gli occhi. Perché questa
caratteristica dell’assenza della legge come legge di tutti, alla quale
nessuno è superiore ma che anzi vincola ancora di più il potere, è stata
accettata e coperta da ogni soggetto politico. Qualche volta in malafede, più
spesso in buona fede. Craxi nel suo discorso-confessione ha detto che le
leggi erano state violate da tutti. Dimenticava di far riferimento a una
minoranza che si è sempre rifiutata di accettare questa pratica: quella
radicale.
Nella tue battaglie la rivendicazione
dello Stato di diritto si è sovente tradotta nella richiesta di attuazione
della Costituzione e nella correlata denuncia della sua violazione.
Rileggendo i tuoi scritti, però, sembra che tu oltrepassi questa
impostazione "metodologica", fornendo a volte un giudizio
sostanzialmente positivo sul merito del dettato costituzionale. Questa
posizione, però, implicherebbe un’accettazione della prima parte della
Costituzione (naturalmente prodotta dalla confluenza della cultura comunista
e di quella cattolico-sociale) e un giudizio sostanzialmente positivo sul
compromesso raggiunto nella seconda parte: una soluzione istituzionale che
difficilmente avrebbe potuto affermarsi senza comportare la
"materiale" centralità dei partiti.
La Costituzione attuale è infelice per quanto
riguarda l’aspetto istituzionale ma è categorica nel fissare diritti e
libertà. In questo è stata subito negata e tradita. Ho sempre messo in
evidenza un altro aspetto del processo costituente. In quel tempo storico
così particolare, dopo il sangue della Resistenza e la guerra civile, il
costituente ha una visione profetica: il referendum deliberativo,
propositivo, nel mondo della comunicazione che cominciava a nascere esponeva
al rischio del potere plebiscitario e diveniva forza aggiunta per chi ha il
potere. Cioè il referendum classico da arma della gente contro il potere può
trasformarsi in uno strumento di chi ha il potere per superare un blocco o
una ostruzione del potere legislativo. Una cosa è certa: questa intuizione
di dare al popolo italiano due schede, una per eleggere il proprio
rappresentante e una per annullare le leggi che non vanno (tenendo presente
che le leggi sono espressione dei poteri legali ma anche dei "poteri
forti"), avrebbe potuto determinare una nuova formula di democrazia
partecipativa che innova i tradizionali canoni della rappresentanza. Il
referendum abrogativo è un’intuizione favolosa. Solo perché il liberale
odierno è il prodotto del suo tempo, non si è mai accorto che nella scelta
del costituente italiano di inserire il referendum abrogativo vi è una
punta da anni 2000, profetica.
Questa la devi sostanzialmente a un
radicale, Meuccio Ruini...
A Ruini debbo anche altre cose, come la disponibilità
a subìre il linciaggio del ’53 per avere, da presidente del Senato,
difeso e condotto in porto la legge che prevedeva il premio di maggioranza.
Ma dal momento nel quale lo Stato si dà la sua Costituzione esso cade
nell’illegalità: non dà applicazione al referendum, non attua le regioni
come nuovo assetto anticentralista dello Stato, non crea a lungo la Corte
Costituzionale come contrappeso. Sceglie la continuità invece di accogliere
la tesi azionista della soluzione di continuità: "rompere" solo
per un istante la continuità statuale per inaugurare una nuova legalità.
Per decenni lo Stato italiano si è posto contro la Costituzione, contro la
legge.
Hai parlato spesso di illegalità dello
Stato. E in alcuni casi mi sembra tu ti sia riferito non solo alla
violazione dello Stato di diritto. A volte, in certe tue analisi del
passato, è possibile avvertire una certa assonanza tra le tue tesi e quelle
di una storiografia d’impronta prevalentemente marxista, riprese tra
l’altro da alcuni settori della magistratura, che si condensano nella
formula del "doppio Stato". In Italia sarebbe esistito una sorta
di Stato parallelo, invisibile e irresponsabile, che per bloccare il
processo di emancipazione del Paese è giunto fino ad utilizzare l’arma
delle stragi. La differenza sostanziale tra queste tesi e le tue - mi sembra
di capire - è che tu ritieni che almeno da un certo momento in poi i
comunisti abbiano preso parte attiva a questo "doppio livello" e
che esso sia diventato uno dei pilastri strutturali del patto consociativo.
Non ritieni che sia giunta l’ora di riconoscere una volta per tutte che in
Italia nel dopoguerra è nata una democrazia imperfetta, ma anche l’unica
democrazia allora possibile?
Non ci sono mai stati due Stati, ma un solo Stato che
è letteralmente "fuori legge". In base al diritto internazionale
basta comprovare che si esercita la sovranità per avere il riconoscimento,
anche se mancano i titoli di legittimità; questo Stato italiano, dunque,
non può non essere riconosciuto perché ha esercitato tutte le
manifestazioni della sovranità, ma contro la legge. Te lo dimostro,
restando al tema del referendum. Quando proponemmo l’abolizione dei Codici
Rocco non eravamo dei pazzi. Sapevamo che da sette anni erano bloccati in un
cassetto i progetti di riforma. Così come, quando ponemmo il problema del
diritto di famiglia, facemmo saltare un ostruzionismo che durava da nove
anni. Anche grazie a un nostro sciopero della fame si portò a compimento il
voto ai diciottenni e il diritto di famiglia. Queste leggi, delle quali noi
chiedevamo l’abrogazione, non dovevano cadere. Erano tutti d’accordo
perché la cultura politica di questo Paese è comune. Il discorso è
sostanzialmente questo: se noi comunisti andiamo al potere o se noi
democristiani rimaniamo al potere, non ci possiamo permettere il lusso di
abolire il Codice Rocco. Bene, sulla base di questo ragionamento la Corte
Costituzionale ben presto proclama il "principio di
ragionevolezza", affermando in sostanza: "È una follia, i codici
non si possono abolire". A tal proposito sarebbe interessante
riparlarne con Livio Paladin che mi ha riferito allora di essere stato
d’accordo con noi. Mi ha detto testualmente che quando la Corte
Costituzionale inventò "il decalogo" e con la Corte di Cassazione
fu costretta a inventarsi il "principio di ragionevolezza", lui
capì che le nostre accuse erano intellettualmente plausibili. Poi viene
fuori che le leggi non si possono abolire. Poi che i referendum devono
essere "omogenei". Quindi, in base all’omogeneità dei quesiti,
viene preclusa la possibilità di sottoporre a referendum le leggi che in
Italia sono spesso leggi omnibus. S’instaura così, in modo violento, la
sola possibilità di fare referendum manipolativi. E anche in questo ambito
siamo allora diventati maestri, ma essendo teoricamente contrari a questa
pratica che ci hanno imposto. Ti chiedo: tutto questo non è forse un golpe?
Inventare il principio di ragionevolezza come principio centrale rispetto al
dettato costituzionale. Un popolo al quale proponi una cosa folle, ti
sanziona con l’1% se fosse veramente folle e irragionevole. Invece, si
crea la casta dei guardiani della ragionevolezza popolare. Il rischio che
paventavano è che concedere il referendum secondo Costituzione avrebbe
messo il popolo nelle condizioni di votare qualsiasi follia. Bisognava
mettere il popolo sotto tutela, così come Pio IX avrebbe voluto che un re
scomunicato non concedesse l’istruzione pubblica, perché si rischiava di
mettere il popolo nelle mani del Diavolo!
Oggi si sono tutti dimenticati che questa non è una
storia minore. Su quei referendum noi eravamo egemoni: tutti erano con noi,
da Scalfari a Lelio Basso a Riccardo Lombardi. In quell’occasione il
"nobile" presidente della Camera dei deputati, Pietro Ingrao, in
combutta con la Corte che aveva sottratto dalle nostre mani la scheda che
era stata poco prima concessa alla Chiesa, fece strame delle tradizioni
parlamentari. Piccolo dettaglio di cronaca: Ingrao mi mandò a chiamare una
mattina, alle 4, quando avevamo bloccato la Camera con l’ostruzionismo, e
mi disse "Se tu lasci passare la Reale-bis e l’aborto, io ti
garantisco di salvarti gli altri referendum". Capì che ero
scandalizzato - in realtà ero anche un po’ sconvolto - e mi disse che,
per essere ancora più chiari, sarebbe stato lui a proporre al suo partito,
se il referendum non fosse stato bloccato, di prendere posizione in difesa
della "legge Reale". Nei confronti della "legge Reale" i
comunisti giocarono una partita doppia: andavano da De Martino in via del
Corso a dirgli che avrebbero fatto l’opposizione ma volevano garanzie che
i socialisti non avrebbero mollato. In quel momento il potere stava per
essere travolto. Allora constatavamo che esistevano solo due forze in
Italia: i comunisti e i radicali. Tutti gli altri avevano
"posizioni" ma non lottavano. Sulla Reale, sul finanziamento
pubblico, sul decreto Cossiga, quelli che "ressero" contro di noi
furono solo i comunisti. E per fermarci hanno dovuto realizzare dei veri e
propri golpe legali.
Non si riuscì allora, e ammetti tu stesso
che i rapporti di forza ti erano molto più favorevoli. Perché dovresti
riuscirci oggi che la situazione, almeno in apparenza, è molto più chiusa
e stabilizzata? Insomma, dove sono i soggetti sociali e dove risiede la
forza politica della tua "rivoluzione liberale"?
Il fatto nuovo nella storia d’Italia è che per una
serie di fatti, certo transeunti ma che durano già da 10 anni, il Paese è
oggi pronto a fare la sua rivoluzione liberale. Non che il Paese ne sia
cosciente o che voglia la rivoluzione, ma esiste una maggioranza assoluta di
ribelli, di scontrosi, di stanchi che possono "fare lega" e
diventare un soggetto politico creativo e alternativo, di nuova legge e di
nuova legalità. Per tenere in piedi il blocco sociale egemone non basta più
la corruzione o la cooptazione, non basta più la distruzione sistematica
dei princìpi della vita democratica e costituzionale. Questo "regime
terzo" è arrivato alla resa dei conti, sta raschiando il fondo del
barile. Se ci fosse un’azione decisa, a salvarlo non basterebbe più
neanche l’arma politica del linciaggio che contra legem la magistratura
italiana ha consentito alla sinistra, e in particolare al Partito comunista,
di utilizzare per 40 anni (contro Ruini, contro Piccioni, contro Berlusconi,
eccetera) come arma di lotta politica. Si sono così disarmati i codici
italiani della possibilità di perseguire i reati contro la personalità e
di difendere la reputazione e su questo terreno si è saldata l’alleanza
tra il partito dei magistrati e il partito degli editori. Queste sono in
Italia le due grandi corporazioni che, per ora, hanno vinto. E che reggono
il regime.
In questa situazione storica, però, poco di più può
giungerci dalla "politica politicante" al centro, a destra, a
sinistra. Lo Stato e le istituzioni sono in putrefazione. La giustizia, la
scuola, il mercato, la sanità, l’ambiente sono funzioni degradate, non di
rado repellenti. Il popolo, la gente, gli individui sentono che lavorare
fino a oltre la metà del mese per lo Stato è intollerabile, ingiusto,
sbagliato. Le oligarchie del denaro e dell’industria, in alleanza con le
oligarchie partitiche ed elettive, sindacali, amministrative, e le
corporazioni dei giudici, della stampa, dei mestieri intellettuali, degli
ordini professionali, costituiscono un agglomerato di potere, un
"disordine costituito" che sta portando l’Italia a essere sempre
più "mediterranea", sempre meno "occidentale" ed
"europea". A tutto ciò si contrappongono i sei milioni di partite
Iva - cioè gli interessi oggettivi dei piccoli nuovi imprenditori -
soffocati dalla burocrazia confindustriale; i lavoratori autonomi ed i
giovani in cerca di prima occupazione, vessati dalla politica sindacale. Se
la Confindustria o il Polo facessero propri 4 o 5 referendum liberisti,
l’impopolarità "di massa" del sindacato diventerebbe palese.
Perché già in questa situazione si è rovesciato il tradizionale rapporto
di forze: oggi gli unici che possono contare su forze di massa sono le
proposte liberali; la Confindustria, consapevole di questo, ha paura che il
blocco sociale tradizionale possa prima o poi saltare. La concertazione è
intoccabile: siamo giunti a vedere l’Avvocato, con a fianco D’Alema che
acconsente, affermare esplicitamente che è preferibile che a governare sia
la sinistra perché controlla di più i contrasti sociali. Non è difficile
prevedere che questo potere arriverà con dieci anni di ritardo a fare le
riforme decisive, come quella delle pensioni. Questi faranno nel 2005 ciò
che Giuliano Amato stava facendo nel 1992. Nel frattempo, l’Italia avrà
perso l’autobus e si sarà impoverita.
Ma si può rilanciare una "sfida
liberista" nel momento nel quale questa politica indietreggia in tutta
l’Europa continentale?
Sta di fatto che se oggi in Italia si alzasse un
imprenditore degno di questa parola, dichiarasse guerra alle bordature
corporative ed avesse il coraggio di annunziare: io voglio la lotta sociale,
i sindacati e la sinistra sarebbero già sconfitti. Oggi la lotta sociale
possono farla innanzitutto i liberisti. C’è una cosa da chiarire una
volta per tutte: quelli che sono neo-keynesiani e anti-liberisti, ritengono
che il liberista sia per la legge della giungla ed a questa impenetrabile
giungla loro contrappongono l’economia a due settori. Questa,
storicamente, è stata e resta una soluzione improbabile, perdente. Non può
funzionare se nel settore pubblico non ci sono motivi di sana
imprenditorialità, e non possono esserci perché i suoi valori sono altro
rispetto a quelli del rischio, del profitto, del fallimento (in Italia è
stato abolito perfino il diritto al fallimento).
In realtà, la vera contrapposizione al cosiddetto
"liberismo selvaggio" è quella che può offrire lo Stato
regolatore che non ha nemmeno l’illusione lontana di poter essere titolare
di un settore dell’economia. Al mercato, con tutti i suoi rischi, viene
dato il resto. L’unica reale esigenza vitale (nel vero senso della parola,
perché al di fuori di essa non c’è vita), che viene prima anche
dell’ansia di giustizia, è quella del mercato contro gli oligopoli.
Evochi la rivoluzione possibile e scenari
ultimativi. Ti riferisci al ruolo di minoranze attive che dovrebbero creare
un soggetto politico nuovo e mostrare al Paese la via del cambiamento che
esso non sa scorgere. Tutto ciò non è forse in contrasto con la qualifica
di "riformatore" alla quale hai sempre tenuto?
Ho trovato in Bergson, che ho ripreso tra le mani
l’altro giorno, una intuizione importante: la "riforma" si può
fare se si accetta l’idea della "forma" nel diritto e nella
politica. Che m’importa quale sarà la riforma di D’Alema se so che non
crede nella forma? Se non si rispetta la Costituzione che si ha, perché si
dovrebbe rispettare la Costituzione che verrà? Noi dobbiamo fare la
rivoluzione americana o quella del 1789 e non quella del 1793 o
dell’ottobre 1917. Dobbiamo guadagnare innanzi tutto la certezza del
diritto. Questa è una battaglia di civiltà profonda. È la rivoluzione
illuminista e liberale che pone il diritto come fondamento della possibilità
del vivere: un diritto che impone al potere di servirlo esattamente come al
semplice cittadino. La negazione di ciò rappresenta la vera ideologia e
cultura del "regime terzo", che è stata distillata in un modo
spaventoso. Il fatto che stia scomparendo dalle cose visibili la filosofia
del diritto è il segno più evidente della sua potenziale pericolosità per
questo regime. Sul piano storico, poi, don Benedetto continua a offrirci una
riflessione che è giusta: questo è un Paese che ha avuto solo
controriforme e mai una riforma. Anche se poi sul Risorgimento faceva le sue
specificazioni.
Resta un dato di fatto, che per te rappresenta
anche un problema politico: i soggetti sociali sui quali conti per la
"rivoluzione liberale" sono gli stessi che riempiono le piazze
dell’opposizione. Non si pone per te l’esigenza di trovare un rapporto
con le forze del Polo?
Certo, in piazza dal Polo ci vanno un po’ di persone
che non ne possono più, ma oggi riempire le piazze con la complicità dei
mass media di regime è un gioco da ragazzi. Ma mi sentirei di affermare che
la cosiddetta "classe dirigente" italiana non contiene nuclei
significativamente interessati alla "rivoluzione liberale"; in un
modo o nell’altro maggioranza e opposizione sono interne al regime. Per
creare un nuovo blocco sociale da uno sterminato rigetto della politica, del
potere e della cultura di potere ci vuole una grande creatività e,
soprattutto, devi avere la possibilità di selezionare dei punti di forza
sui quali dare tempo al Paese di riunirsi, di fondersi come una lega. Il
Polo sta scegliendo sempre più esigenze ultra-minoritarie. I suoi leaders
non capiscono che bisogna oltrepassare la dimensione della politica e della
cultura "ufficiale". Il divorzio e l’aborto sono venuti fuori
contro tutta la cultura ufficiale: io allora non avevo Il Mondo, né
L’Espresso, avevo Abc e un Abc con 90mila copie di vendita che portammo
fino a 1 milione di copie. Aborto e divorzio s’imposero solo quando
divennero cultura "popolare": quando tutti ebbero qualcosa da dire
su quei temi, in famiglia, sull’autobus, in sezione.
Oggi dire "eleggiamo il presidente
all’americana, chiudiamo le baracche partitocratiche e creiamo due
partiti" significa popolarizzare una elaborazione culturale più
complessa. La frattura nel Paese non puoi certo crearla tra i due turni di
coalizione o il turno unico, eccetera, di cui capisce solo qualche politico,
e alla gente non importa niente. Un’opposizione che ha la chance di poter
essere in sintonia con l’80% dei cittadini e decide di non utilizzarla
vuol dire che prende in considerazione i sondaggi solo quando sono
insignificanti o errati. Mi domando: non è sintomo di minoritarismo e di
analfabetismo politico considerare centrale il problema cattolico, quando
Ruini al massimo può spostare il 5% del voto cattolico, cioè l’1 o il 2%
dell’elettorato italiano? Quando in una situazione di monopolio
comunicativo quotidiano concesso a quel se non amatissimo comunque
rispettatissimo Papa che parla sempre di divorzio e di aborto, l’80% degli
italiani continua a dichiarare che oggi voterebbe comunque per l’aborto e
il 90% per il divorzio? Oggi dunque, come vent’anni fa, ci ritroviamo
all’opposizione del governo e all’opposizione dell’opposizione. Perché
c’è un’opposizione di regime, il che non vuol dire che non possa essere
un’opposizione di buona fede, ma solo che essa condivide gli interessi e
le culture di regime.
L’alleanza elettorale con il Polo è
dunque solo acqua passata?
La ripresa di un rapporto può giungere solo dalla
spietata franchezza della critica e dalla riconsiderazione degli errori
presenti e passati. E su alcuni aspetti del passato bisogna essere chiari.
Quando Berlusconi formò il suo governo, mi chiamò alle 2 di notte per
dirmi che l’unica cosa che poteva proporci era un ministero minore per
"uno dei miei". La destra, della quale eravamo se non alleati
almeno amici, ci ha offerto meno di quello che è stato disposto a darci
D’Alema con l’offerta del ministero a Emma Bonino. Dopo di che, io dissi
a Berlusconi di presentarsi in Parlamento con una lista di ministri non
contrattata ma che poteva assicurare immagine e competenza. Di sfidare così
la Lega ma, soprattutto, la logica partitocratica della coalizione. Allora
parlavo con Scalfaro e mi dissi certo del fatto che, se Berlusconi fosse
stato subito sfiduciato dal Parlamento, si sarebbe tornati alle urne
accorpando le elezioni legislative alle Europee. E si sarebbe preso il 70%.
Dall’elezione della Pivetti in poi, posso ricostruire settimana per
settimana gli errori del Polo previsti e denunciati senza che Berlusconi o
altri prestassero ascolto.
Qual è il tuo giudizio e quali i vostri
rapporti con i "nuovi referendari"?
Avevamo presentato già da un anno il quesito
referendario cavalcato oggi da Segni, Di Pietro, Fini, Veltroni, e tanti
altri. Ma come "il male minore": esso aveva dalla sua solo il
merito di essere "auto-applicativo", cioè di poter consentire lo
svolgimento delle elezioni con la legge quale risulterebbe dall’eventuale
applicazione del risultato referendario. Ma questi "nuovi
referendari" vanificano anche questo vantaggio. Essi degradano, quasi
tutti, il referendum a mero "stimolo" per il Parlamento. Di
Pietro, addirittura, ha contestualmente raccolto le firme per una legge
elettorale diversa da quella risultante dall’eventuale approvazione del
referendum. Insomma, vi sono tutte le condizioni per tornare al 1993 e
all’impostazione che rese possibile il tradimento del referendum di allora
e la legge Mattarella. Per noi, questa concezione del referendum è
semplicemente anti-referendaria. Ci sarebbe, poi, un ostacolo insormontabile
in uno Stato di diritto. La Corte Costituzionale ha, lo scorso anno,
decretato che i referendum non possono più essere manipolativi (malgrado
questa del referendum manipolativo sia stata un’invenzione della stessa
Corte). E questo quesito è certissimamente manipolativo. Ma non importa:
una Corte di regime come questa, di cortigiani del nuovo sovrano, ubbidirà,
si smentirà se avrà più paura di bocciarlo che di approvarlo. Se il
referendum passerà, infine, è bene che si sappia che un quarto degli
elettori italiani si troveranno rappresentati sia dal parlamentare che hanno
eletto, sia da quello che hanno sonoramente bocciato. Non è l’ideale. Per
questi motivi ci siamo chiamati fuori. Voteremo "sì", ma senza
fiducia nel seguito. Quanto a quelli che continuano a cianciare indisturbati
di Costituente, tanto varrebbe che dicessero apertamente di volere il
ritorno alla proporzionale e una "nuova" Costituzione ben
peggiore, ancor più frutto di un’ammucchiata, dell’attuale.
Tra i nuovi soggetti politici, si fa un
gran parlare del cosiddetto "partito dei sindaci": un potenziale
concorrente o un possibile alleato?
Questa vicenda dei sindaci ha dell’incredibile, e
qualifica non tanto i sindaci stessi quanto le maggiori forze politiche di
questo regime. Che questi sindaci, giunti alla metà del loro secondo
mandato, non rinnovabile, tentino di inventare ragioni politiche e magari
anche ideali per il proseguimento della loro carriera e per inserirsi (ora o
mai più) ai massimi livelli dell’oligarchia italiana, pur del tutto privi
di ragioni, obiettivi, programmi e progetti comuni, è comprensibile. Anche
se non è propriamente ammirabile. Ma che il Parlamento e i partiti,
riformando la legge elettorale europea, non facciano valere la non
candidabilità e l’incompatibilità tra l’incarico di sindaco e quello
di deputato europeo, mostra il grado di impreveggenza e di irresponsabilità
dei nuovi governanti oltre che - almeno finora - della nuova opposizione.
Mostra quanto ci si infischi del buon costume civile, fino al limite del
masochismo. Se i sindaci potranno fare le loro liste europee, con Tonino Di
Pietro e chissà chi altro, sarà la fine non soltanto dell’Ulivo (e non
parliamo del Polo!) ma anche, probabilmente, dei vertici dei Ds e dei Verdi,
per i quali certo non prenderò il lutto. Ma al peggio, diciamolo, non c’è
mai fine. C’è ancora tempo, se pure pochissimo, per evitare questa
ennesima grave disfunzione delle istituzioni. Staremo a vedere se, almeno,
l’istinto di conservazione dei partiti di regime, se non l’amore per la
legge e la democrazia, riuscirà in extremis a farsi valere.
Mi sembra che tu stia evocando la
prospettiva di una nuova marcia solitaria nel deserto. Ma ammesso che vi sia
la possibilità di provocare un’ulteriore "rottura" nella
vicenda politica italiana, non si rischia di giungervi di nuovo impreparati?
Dov’è una classe politica alternativa? Dov’è un programma riformatore?
Nella pittura, nella scultura, nella poesia il nuovo
è per definizione il salto nel buio. Il nuovo comporta l’esercizio del
rischio d’impresa, che esiste in politica e non solo sul mercato. Poiché
il nuovo è sempre differente da ciò che soggettivamente hai immaginato, il
rischio del nuovo esiste e non può essere soppresso. Anzi, è proprio su
questo rischio che occorre investire. Ma i nostri veri problemi sono altri.
Sfido chiunque ad affermare che i nostri problemi non siano quelli di capire
come si fa a vincere partendo dalla clandestinità a cui siamo costretti. Ti
sei chiesto perché Storace abbia affermato che è in atto un genocidio
culturale dei radicali e che occorre interromperlo ad ogni costo? La nostra
politica è tabù e deve restare tabù. Non si può mandare in televisione
chi dice che sul finanziamento pubblico sono dei truffatori. Non puoi
consentirti di mandare in video chi dice a Scalfaro: tu, secondo la
Costituzione, sei un traditore e un usurpatore. Non puoi permettertelo.
Affermare ciò non è fare del vittimismo. È il tentativo di comprendere
perché hanno bisogno che quanto proviene dai radicali debba restare tabù.
Al tempo del divorzio, io dicevo che, se il Paese avesse iniziato a
discutere il problema, si sarebbe vinto. Oggi vale la stessa cosa.
E poi, nonostante la censura più assoluta, bisogna
dirlo una volta per tutte: nel Paese la "cosa" radicale esiste. Ha
una sua sostanza sociologica, strutturale, economica. Di fronte al
fallimento della forma "partito di massa" e al tramonto del
"partito giacobino", rappresenta l’unico modello di
organizzazione militante che conserva una sua attualità. È la forma
organizzata dell’impegno civile di una minoranza; ma di un impegno che
assume forme "empiriche", non ideologiche e non esclusive. Negli
anni ’60 questa minoranza comprendeva non più di 30 "quadri" in
tutta Italia; oggi saremo 150. Ma di questi, almeno 50 posseggono il
know-how per essere una classe dirigente di ricambio, per assumere ed
esercitare positivamente funzioni di ministro o di primaria responsabilità
istituzionale. Oggi esiste una radio che ha scritto una pagina nella storia
dell’informazione di questo Paese, e la cui valutazione commerciale
ammonta a diverse decine di miliardi. Vi è un Centro di produzione che, a
partire dall’audiovisivo, è l’unica memoria orale della storia italiana
dell’ultimo ventennio. Il nostro Centro d’ascolto è la più importante
"baracca" europea nel campo della valutazione del funzionamento e
dell’impatto politico dell’informazione pubblica. Con Agorà (il server
più antico e tecnologicamente ritenuto ancora oggi tra i più validi)
abbiamo per primi intuito l’importanza che la comunicazione in rete
avrebbe assunto, anche per le istituzioni e la politica. Non devi scordare
che abbiamo già scritto nella storia della Repubblica italiana un Cahier de
doleance. Dei 50 referendum presentati, 30 sono la trascrizione e la
traduzione delle riunioni di questi "ignoranti" di piccoli
imprenditori del Triveneto, abruzzesi e pugliesi; delle loro esigenze
primarie: il non poter usare il lavoro temporaneo, il non poter assumere,
eccetera. Tutte cose anche più determinanti delle tasse. Quale altro
soggetto organizzato sarebbe stato in grado di raccogliere 12 milioni di
firme autenticate di elettori italiani o - come nel 1993 - di
"produrre" in 2 mesi 40mila iscritti con circa 14 miliardi di
introito? Chi in Italia è al corrente che il nostro Call center produce
quotidianamente, per tutta la durata dell’anno, poco meno di 10 milioni
d’iscrizioni o contributi? E quale altra forza sarebbe stata in grado di
organizzare, per oltre 4 mesi, una campagna di sostegno ai diritti di Radio
radicale in grado di coinvolgere circa 12.355 cittadini in uno sciopero
della fame collettivo?
Allora, quando si parla di "liberali
italiani", bisogna riconoscere che, anche tenendo conto della storia
del Pli, la "cosa" radicale rappresenta l’unica struttura in
grado d’incidere realmente nella vita del Paese, a fronte di un folto
manipolo di "liberali ufficiali" che rappresentano esclusivamente
se stessi o poche decine di militanti, nel territorio di elezione di questi
notabili. Ribadisco: nella durata, nella continuità e nei momenti
fondamentali della lotta politica nazionale non vi sono stati che i
comunisti e i radicali. Ma oggi questa realtà tanto importante quanto
"clandestina" per la politica ufficiale non basta ad assicurare
l’inevitabile compito di assicurare il passaggio da questo regime ad
un’alternativa di "nuovo blocco sociale" e di riforma (o
rivoluzione) liberale dello Stato e della società. Manca ed è da
conquistare la certezza del collegamento fra la rivolta sociale del Terzo
Stato, che coinvolge oltre i 3/4 delle "masse", e una struttura in
grado di assicurarne l’espressione e la guida politica. Cioè il
detonatore di questa potenziale miscela esplosiva. Fin quando questo non sarà
configurabile, non comprendo a che cosa il mio "rientro in
politica" possa servire.
Gaetano
Quagliariello |

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