Milano, la rinascente
LA CITTA' CHE SALE
di Antonio Pilati

Milano ha sempre amato considerarsi una capitale: da quando, secoli fa, il titolo non ebbe più corso nella realtà politica, si sforzò di giustificarlo con il primato in altri campi: economia, commercio, civiltà. L’idea della "capitale morale" compendia in forma consolatoria un’aspirazione di lungo periodo, ma segnala anche, sotto la leggera patina del revanscismo, una caratteristica importante: la supremazia di Milano fuori dalla politica non è solo un fatto materiale, legato alla ricchezza, ma ha sempre incluso come essenziale una dimensione ulteriore, culturale e sociale. È cruciale la forma che nel tempo una tale dimensione è venuta ad assumere: la si può intendere come una coesione di comunità, diffusa e capillare, costruita intorno ad alcuni parametri di comportamento, ad una serie di modalità operative. Al di là delle divisioni di fazione, degli interessi divergenti, delle differenze fra le sensibilità valoriali, quello che permane come riferimento condiviso, come schema mentale comune è una concezione flessibile, che ormai si è introiettata e resa quasi automatica, del rapporto tra mezzi e fini, uno stile d’azione, un sistema di atteggiamenti verso l’ambiente sociale: il sentimento capillare di un’appartenenza collettiva (civile) e della responsabilità individuale nei confronti dell’ambito sociale di cui si è partecipi, la valorizzazione del lavoro di squadra (che nasce da obiettivi condivisi) rispetto alla mediazione tra scopi divergenti, il primato del risultato sulle procedure, la preferenza per il dettaglio suscettibile di impiego immediato rispetto all’astrazione e all’acribia analitica.

Questa coesione, che attiene alla fibra sociale ma rimanda a un paradigma ideale e ad un modo di intendere la vita associata, imposta e indirizza tanto le attività economiche quanto le opzioni e lo stile della politica. All’economia offre il duplice vantaggio di un’inclinazione quasi naturale verso l’efficacia organizzativa (la responsabilità verso il collettivo di appartenenza ne è sempre un presupposto basilare) e di una cospicua riserva di energie facili da mobilitare verso scopi d’impresa. Alla politica fornisce invece un lascito ambivalente: da un lato, l’attenzione alla gestione organizzativa favorisce in ambito locale, sul piano interno, la chiarezza delle opzioni e una certa propensione a stringere verso il centro, sulle soluzioni mediane; dall’altro lato, la scarsa consuetudine alla mediazione fra concezioni lontane ed estranee, la conseguente renitenza alla sintesi fra punti di vista profondamente divergenti rendono debole e incerta la presenza politica della città su uno scenario più vasto, nel contesto nazionale e sovranazionale.

Se si guarda alla storia politica della città durante il Novecento emergono due costanti. La prima è la prolungata e determinante presenza di un mainstream cittadino (il pragmatismo cattolico, il riformismo socialista, i miglioristi del Pci) che si ritrova convergente sugli obiettivi pratici, al di là dei diversi referenti sociali o delle differenti opzioni di principio, e che costituisce la guida standard (nei tempi normali) della vita civile milanese. La seconda costante è la ripetuta, continua difficoltà a rappresentare e far pesare in sede centrale, nelle sintesi mediate dalla politica nazionale, gli interessi della città, le ragioni della competizione economica cui è vitalmente interessata, la sua specificità ambrosiana: data la sua profonda differenza rispetto allo schema mentale vigente nella capitale, il modello culturale milanese (il tessuto della coesione, il primato della responsabilità verso la comunità e i suoi risultati, la diffidenza per il compromesso con le visioni estranee) rende la rappresentanza politica della città secondaria, quasi sempre marginale, a efficacia ridotta. I leaders politici locali sono quasi sempre estensioni dell’establishment economico, suoi prolungamenti che esprimono il sentimento della coesione culturale, assai più che esponenti di un autonomo sistema di attività capaci di conquistare in esso spazi per virtù propria.

I successi dell’economia, che resistono per l’essenziale anche nei momenti di congiuntura difficile, compensano largamente la minorità nazionale della politica: anzi, la percezione generalizzata di un orizzonte economico gratificante (tale cioè da garantire, nell’espansione, una diffusa mobilità sociale verso l’alto) e la conseguente persistenza della coesione sociale remunerano e in certo modo giustificano un ruolo politico secondario.

Lo schema finora delineato vale per i tempi normali, per i periodi in cui l’establishment (economico e politico) si mantiene stabile e riconosciuto, in grado di assolvere le sue funzioni di patron e promotore della coesione sociale. Perde invece di significato e si rovescia in un modulo di taglio radicale profondamente diverso quando l’orizzonte delle attività produttive si oscura, non suscita più speranze, rende debole e priva di orientamento la coesione. Periodi straordinari di questa specie si possono considerare la crisi del primo dopoguerra che formò a Milano il nucleo originario del fascismo, la creazione tra il ’45 e il ’46 del primo ceto dirigenziale dell’Italia repubblicana, la rottura all’inizio degli anni ’90 della Prima Repubblica lungo la filiera Bossi-Berlusconi. Durante tali fasi, che agiscono come cesure d’epoca brusche e rapide, lo scontro politico si acuisce e fa emergere leaders radicali che si distaccano dall’establishment economico e operano come outsiders decisi a rinegoziare il patto tradizionale di mutuo sostegno; si dissolve il precedente ceto politico locale e il messaggio in arrivo da Milano tende a generalizzarsi su scala nazionale.

C’è un punto importante che forse va sottolineato. La rottura dello schema politico normale non deriva semplicemente da una crisi economica, dall’esaurirsi di una spinta alla crescita, ma richiede condizioni più forti e minacciose: si verifica quando l’orizzonte individuale smarrisce un’idea di sviluppo e di miglioramento, quando la confusione del regime politico non assicura più credibili speranze di mobilità ascensionale, quando la coesione, che in tempi normali è strutturata e predisposta dall’espansione produttiva, non ha più certezze, si smargina fino a consumarsi. È la fine di un orizzonte, mentale prima ancora che economico, che svelle gli standard tradizionali della politica e trasforma Milano da agente secondario a protagonista.

Le vicende parallele degli anni ’80 e degli anni ’90, comparabili ma diverse, sono al riguardo molto significative. Gli anni ’80 si aprono sotto segni di crisi, dopo un decennio di stagnazione e ripiegamento. Il ciclo della grande industria, su cui Milano da quasi un secolo aveva costruito il suo primato e da un ventennio il suo benessere diffuso, è in via di esaurimento e ha già generato lungo gli anni ’70 una forte tensione sociale in cui comincia a incrinarsi ed a cedere il tradizionale coagulo coesivo della città (il ’68, la maggioranza silenziosa, il terrorismo).

Tuttavia, durante i primi anni ’80, Milano ritrova una vocazione produttiva e riesce a definire, nel ciclo di attività legate all’immagine, un nuovo orizzonte economico e sociale: crescono a ritmo eccezionale sia il fatturato della pubblicità (in media oltre il 10% annuo), sia il numero e il giro d’affari delle televisioni commerciali (oggi in Lombardia sono censite 63 emittenti, assai più che nella maggior parte dei Paesi europei), sia infine le attività articolate intorno alla moda. Intorno ai nessi sociali del consumo la pubblicità e la moda aggregano nelle grandi imprese e in molteplici agenzie di consulenza (pubblicità, marketing, promozioni, design, sponsoring, ricerche d’opinione) competenze sofisticate, estranee al tradizionale sapere commerciale della città. Grazie agli spot e alla televisione commerciale, che dà vita a un colosso aziendale tra i maggiori d’Italia, Milano si trasforma in un centro produttivo dello spettacolo quale mai era stata nella sua storia. Craxi, che emerge all’inizio come un fattore estraneo ai circuiti politici prevalenti e anche (in una prima fase) all’establishment economico, è forse il più rapido a cogliere il mutamento di vocazione della città e spende il credito ottenuto (prima esprimendo le ragioni dell’insoddisfazione, poi divulgando quelle della ripresa) per legittimarsi come leader nazionale e far balenare alla città e ai suoi ceti innovativi un ruolo di traino politico su larga scala.

Tuttavia, il ciclo dell’immagine risulta ben presto effimero: la base produttiva, la consistenza finanziaria e la stessa capacità di egemonia culturale si dimostrano fragili e non riescono a dare una prospettiva solida di riconversione all’economia della città. La crescita, in precedenza esplosiva, della pubblicità si ridimensiona, la televisione commerciale si riassesta su tassi di incremento normali, trasformando l’espansione inventiva e brillante dell’epoca pionieristica in una organizzazione solida e standardizzata, la moda subisce con qualche affanno la concorrenza internazionale.

Con la fine degli anni ’80 il progressivo disfacimento del sistema politico nazionale, che perde di giorno in giorno i suoi titoli di legittimità, si congiunge con una crescente difficoltà dell’economia milanese a tenere il passo delle mutate condizioni competitive che rapidamente si unificano su scala mondiale e divengono ogni giorno più stringenti: la somma dei due processi riconduce, approfondendolo, quello smarrimento di prospettive che già si era manifestato, in forma embrionale, un decennio prima e mina, questa volta in misura radicale, la coesione della città, il suo paradigma comune. L’assenza di prospettive divide e frastaglia la città: l’arco delle reazioni si estende dalla chiusura corporativa all’anomia civile, dalla perdita del sentimento tradizionale di responsabilità personale alla frammentata contrapposizione degli interessi parcellizzati. La Lega, che impersona gran parte di questi sentimenti, ottiene in chiave di rivolta un crescendo di successi (almeno fino al 1994).

Alla radice dello smarrimento, profondo e non facilmente sanabile, segnalato da tutta la vicenda degli anni ’90, in cui le speranze di cambiamento si rovesciano nel giro di pochi anni in una delusione svagata e particolarista, si trova un’incertezza culturale. Diminuisce nella città la capacità di leggere i fenomeni economici e sociali che la coinvolgono; i paradigmi condivisi, che da sempre hanno fatto la sua forza, non riescono più a interpretare la riorganizzazione dei sistemi produttivi, manca un indirizzo strategico e Milano fatica a salvaguardare un ruolo non secondario.

La fabbrica delle idee, che per tanto tempo ha dato a Milano identità, coesione e spinta imprenditoriale, sembra caduta in una fase di depressione dopo i tanti rivolgimenti degli ultimi due decenni: ha perso vigore quella spinta innovativa, quella voglia di inventare soluzioni inedite che invece proprio adesso, in un momento di rivoluzione della tecnologia e degli usi (Internet, la televisione digitale, la finanza telematica, il lavoro a distanza), sarebbe necessaria per dare alla città un ruolo centrale nell’economia mondiale della conoscenza. Si può aggiungere di più: l’immaginazione organizzativa, che da sempre in città si è sviluppata in modo autonomo, senza contare troppo su poteri centrali o molto distratti o troppo interessati, patisce il fatto che oggi il futuro di Milano dipenda da scelte altrui, dalla capacità, che inevitabilmente coinvolge svariati soggetti, pubblici e privati, di diventare un nodo essenziale nell’immensa rete mondiale che scambia dati, informazioni, visioni.

In tutto il mondo i sistemi economici, la produzione della ricchezza si misurano con una nuova frontiera, una sfida inedita alle loro capacità di organizzare risorse: consiste nel mettere in circuito, aggiornandole in tempo reale e scambiandole a velocità sempre più elevate, informazioni e dati di ogni tipo e nel rimodellare in modo sempre più efficiente, intorno a questa chance operativa, attività sociali, business, progetti collettivi. Dalla California a Singapore, da Londra a New York, i centri chiave dell’economia moderna si distinguono sia perché concentrano in sé, come banche cognitive di settore, dosi elevate di conoscenze mirate che riescono a ridistribuire in tempi rapidi, sia perché attorno ad esse mobilitano un flusso di attività creative ad alto tasso di innovazione. Centralità delle conoscenze, connessione mondiale, abilità innovativa e rapido ricambio nei paradigmi organizzativi formano un reticolo integrato di abiti operativi che oggi rappresenta il requisito essenziale per imporsi nell’ambito competitivo della nuova economia.

È un passaggio che richiede un radicale ridisegno strategico, la revisione di un modo consolidato di concepire l’agire economico. Su questo fronte Milano appare in ritardo, poco ricettiva, forse scettica sulla possibilità di essere protagonista in una partita diversa dalla routine televisiva e dalla piccola gestione di una finanza a dimensione locale. Come nel resto d’Italia, anche se in misura minore, il numero dei computer pro capite (soprattutto di quelli collegati in rete) è inferiore alla media europea e i loro impieghi, sia organizzativi sia informativi, sono ridotti ed embrionali; le imprese che si sono formate per sviluppare applicazioni relative a Internet (fornitori di servizi, contenuti, strumenti applicativi) non sono ancora uscite da una dimensione ristretta, quasi artigianale, e non hanno mostrato la capacità di svolgere un’attività significativa al di là del semplice ambito locale; i diversi nuclei che accumulano e distribuiscono conoscenze (università, centri di ricerca pubblici e privati, amministrazioni locali) hanno minimi interscambi e non formano una base comune di saperi. Milano, insomma, non è ancora riuscita a trovare la propria figura nell’economia della conoscenza che si viene formando; non ha per ora individuato quel peculiare taglio operativo e conoscitivo che le consenta d’essere cruciale sulla frontiera dell’innovazione.

Oggi in città prevale una condizione sospesa, un equilibrio precario. La congiuntura economica si è (parzialmente) rasserenata; le attività tradizionali hanno consolidato i propri assetti, ma lasciano presagire scarsi margini di espansione; le attività nuove appaiono frammentarie, embrionali, soprattutto incapaci di dare consistenza a un orizzonte di innovazione, a uno sviluppo di ampio respiro. C’è stato un momento di riorganizzazione e di rilancio, ma si è applicato ad attività e settori maturi: negli ambiti più esposti al futuro le intenzioni appaiono ancora deboli, le iniziative parziali. Nella politica la città ha vissuto un percorso analogo: una folta prima linea di esponenti locali è caduta, ma le opzioni sorte durante la tensione innovante dei primi anni ’90 non sono state confermate, sul medio periodo, da un consenso generale. Alla riorganizzazione vincente, in chiave di maggiore efficienza, dei mondi tradizionali corrisponde nei sentimenti collettivi un’attesa delusa, un’adesione sospesa e preoccupata. Può essere una miscela pericolosa.

Antonio Pilati


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1999