Quale strategia
per l'opposizione?
RILANCIARE
LO SPIRITO DEL 1994
di Marcello Pera
Viviamo tempi di restaurazione partitocratica. Il
fenomeno è cominciato a livello nazionale e, poiché il pesce puzza prima
dalla testa e poi dalla coda, si sta trasferendo a quello regionale. Se la
partitocrazia non è ancora scesa ai livelli più bassi di comuni e
province, si deve alla fortuna della riforma istituzionale introdotta dopo
la prima stagione referendaria: l’elezione diretta di sindaci e presidenti
di provincia riduce lo spazio di manovra dei partiti e rende più stabili i
governi locali. La partitocrazia non è rinata col governo Prodi, che si era
formato a seguito di un’elezione ancora improntata a spirito bipolare e
che inseguiva il disegno di una formazione di centro-sinistra omogenea,
l’Ulivo, politicamente superiore alla somma dei partiti addendi. In
questo, Prodi è stato coerente e ha fatto onestamente ciò che ha potuto
fin che gli è stato concesso dalla propria debolezza. No, la partitocrazia
è rinata col governo D’Alema, un pentapartito moltiplicato per due. Con
questa differenza, rispetto al vecchio regime: che mentre il pentapartito
della Prima Repubblica corrispondeva ad un’esigenza internazionale
dell’Italia, il pentapartito moltiplicato per due della Seconda Repubblica
soddisfa un’esigenza tutta interna dei partiti, quella dell’occupazione
del potere.
L’agente patogeno della rinata partitocrazia del
governo D’Alema è il senatore Cossiga. Si può essere generosi e pensare
che il suo disegno di disfare i due poli per rifarli in altra forma fosse
quello giusto. Si può essere benevoli e sostenere che il risultato di fatto
da lui ottenuto non fosse quello pensato e voluto. Si può essere equi e
dire che la sua colpa deve essere condivisa con chi non ha saputo
trattenerlo e coinvolgerlo. O, infine, si può essere critici e, credo,
anche più realistici, e ritenere che il vecchio senatore, per ricostruire
dalle macerie un sistema che lui stesso aveva contribuito a distruggere,
altra idea non abbia saputo produrre e realizzare se non riproducendo
quelle, partitocratiche appunto, in cui egli è nato e vissuto.
Fatto sta che, abbattendo il governo Prodi e
autorizzando il governo D’Alema, il senatore Cossiga ha restaurato quel
sistema dei partiti che, come un tempo, occupa le istituzioni e mortifica la
società. Esattamente il contrario di ciò che avevano mostrato di volere
gli italiani nel 1993, nel 1994 e nel 1996.
Qui, se c’è, scorgo l’unico punto di dissenso
dall’analisi di Gaetano Quagliariello. Per dire che "la sconfitta
dell’Ulivo ha spostato il baricentro verso l’area della
moderazione", perché "ha espulso dall’area di governo una
sinistra antagonista", occorrerebbe pensare che il governo
D’Alema-Cossiga sia espressione di una maggioranza con un respiro
strategico, con l’Udr stabilmente insediata o in via di insediamento nel
Paese a rappresentare i ceti moderati. Ma così non mi pare. Consensi
clientelari a parte, che pure bisogna tenere in considerazione perché la
clientela si forma là dove il tessuto democratico si lacera, il vecchio
senatore non sembra raccogliere in giro consensi di una qualche consistenza.
Lo stesso on. Buttiglione, che anche stavolta è stato della partita come
ogni altra volta in cui gli è capitato di fare lucide analisi politiche
seguìte da mediocri operazioni parlamentari, soffre parecchio per la
mancanza di respiro politico dell’operazione che ha tenuto a battesimo con
non poca sofferenza.
D’altro canto, l’espulsione di Bertinotti
dall’area della maggioranza potrebbe spostare il baricentro del governo
verso la moderazione solo se Cossutta diventasse un orpello archeologico.
Ma, allo stato attuale, non è così su alcun terreno importante
dell’azione di governo, dalla politica estera a quella del lavoro ed a
quella fiscale. Al tempo stesso, sull’altro versante, dubito che si possa
dire che il centro-destra "ha beneficiato del ritorno
dell’ex-presidente sulla scena politica". A meno che non lo si dica
in questo senso: che la restaurazione partitocratica messa in piedi da
Cossiga costringe il Polo a ripensare la propria identità ed a rivedere la
propria agenda, dopo quel periodo di sonno in cui è caduto quando
Berlusconi ha decretato la morte della Bicamerale. Questo, però, se ci sarà,
non sarà un beneficio voluto da Cossiga, la cui parabola da grande
picconatore a mediocre guastatore resta assai deprimente. Al più, sarà una
delle conseguenze benefiche ma non intenzionali della sua sciagurata
operazione.
Quando, in questo contesto, dico "Polo",
intendo, ovviamente, soprattutto Forza Italia. Come ha gestito e intende
gestire il vento del ’94?
Intanto, c’è da chiedersi che cosa fosse quel
vento. In senso culturale, fu una civetteria titillata dalla speranza
parlare di liberalismo di massa, ché la fragile tradizione del liberalismo
italiano, già agonizzante viventi ancora i Padri liberali, era stata
sepolta dal fascismo, dal cattolicesimo politico e dal marxismo. In un senso
politico e sociale importante, parlare di spirito liberale era, invece,
appropriato. Forza Italia nel ’94 fu la Democrazia cristiana del ’48: in
primo luogo, la diga della libertà politica all’egemonia delle sinistre,
e poi la diga di altre libertà, di intraprendere, di commerciare, di
decidere, di svolgere professioni, di informarsi, di educarsi.
Quello spirito del ’94 Forza Italia, in quello
stesso ’94, non ha saputo gestirlo adeguatamente. Ci furono limiti del
leader oltre a quelli della classe di governo da lui messa in piedi alla
bell’e meglio, in fretta e furia. È giusto ricordarli, anche se non è
lecito dimenticare le attenuanti: il pervicace accanimento della
magistratura nel proseguire il golpe giudiziario iniziato due anni prima,
l’ostilità dei grandi capitalisti assistiti, la rivolta dei sindacati,
l’ammorbante atmosfera sparsa dalla stampa e dalla televisione, il ruolo -
oltre i limiti della decenza istituzionale - del capo dello Stato, il
bisogno di sopravvivenza della Lega.
Se si pensa che l’Italia allora subì una battuta di
arresto e che oggi ne sta subendo un’altra, e se si pensa inoltre - come
credo faccia Quagliariello - che lo spirito del ’94 non sia ancora
scomparso, perché gli interessi sociali che lo mossero sono ancora lì a
chiedere rappresentanza politica e urgono ancora di più ora che l’Italia
si europeizza e globalizza, ne segue l’inventario dei problemi che
Quagliariello ha indicato. Ne condivido pressoché tutte le risposte, anche
perché ciascuna è problematica ed aperta alla discussione.
1) Le riforme istituzionali. Forza Italia fu il
partito delle riforme, il primo in assoluto. Ha tentato di restarlo ma, allo
stato, questa identità si è affievolita. Per due ragioni. A causa
dell’opposizione degli avversari, che è venuta chiaramente in luce nel
bel mezzo del cammino della Bicamerale, quando D’Alema è stato incapace
di frenare le resistenze dei suoi e di scegliere fra le riforme e la
maggioranza che sosteneva il governo Prodi. E, occorre dirlo, a causa di
un’incertezza di fondo. La bandiera del presidenzialismo in Forza Italia
non garrisce più come prima. Lo stesso vale per la bandiera della legge
elettorale maggioritaria. Occorre riprenderle, queste bandiere, rialzarle e
sintonizzarle. Perché, se mai una legge elettorale sia possibile in questa
legislatura, con o senza referendum, essa deve essere tale da potersi
coniugare domani con una Carta costituzionale presidenziale.
Conosco la tentazione: col proporzionale, Forza Italia
sarebbe essenziale per la formazione di qualunque governo. Ma mi fido della
mia obiezione: col proporzionale, Forza Italia perderebbe definitivamente lo
spirito del ’94.
Aggiungo una riflessione, che per Quagliariello è
certamente ovvia. Il presidenzialismo non è un punto fra gli altri: è un
sistema in cui tutto si tiene. E questo porta ad una conclusione: che la
stagione delle riforme in questa legislatura è assai probabilmente finita,
e ad una domanda: può bastare, domani, una riforma della sola seconda parte
della Costituzione? Si può pensare al presidenzialismo, al federalismo,
alla sussidiarietà, con una Costituzione economica dossettiana e una civile
e politica lapiriana?
2) Il leader e il premier. Berlusconi ha detto una
volta in pubblico che non sarà lui il prossimo candidato del Polo a palazzo
Chigi. Il punto deve essere discusso. E la ragione non è quella, odiosa,
delle sue vicissitudini giudiziarie. Dopotutto, Berlusconi è un
perseguitato dalla magistratura, alla quale non si può concedere il
diritto, che si è arrogata dopo il golpe giudiziario, di selezionare la
classe dirigente. La ragione è politica. Dopo aver fatto da diga, aver
messo in piedi un partito, averlo radicato, Berlusconi sembra aver raggiunto
il tetto della sua possibilità elettorale. Poiché questa possibilità
elettorale non coincide con la possibilità politica delle forze popolari di
centro-destra - di quelle del vento del ’94, per intenderci - e, io credo,
non coinciderebbe neppure in caso di "sfondamento" alle elezioni
europee, Berlusconi rischia di non poter colmare il divario.
La questione non è che egli non sia un moderato. Di
fatto, lo è. Né la questione è che egli sia un laico, perché ciò mi
sembra irrilevante e non influente, data anche un’altra grande conquista
politico-culturale di Forza Italia, quella di aver superato, con la sua
costituzione, la distinzione fra laici e cattolici, come pure quella fra
liberali e socialisti. Piuttosto, la questione è che Berlusconi, in ragione
della sua immagine e della sua storia, non copre tutto l’arco delle forze
che si oppongono alle sinistre, soprattutto lo spazio delle forze centrali.
Si pone, allora, un problema di
"coabitazione": tra il leader Berlusconi e il premier Berlusconi.
Questo problema è assai più serio e difficile del cosiddetto "passo
indietro": più serio, perché la leadership non è cosa che si possa
trasferire o condividere (come dimostra il caso Prodi); più difficile,
perché la scelta del premier da parte di Berlusconi riguarda la
collocazione politica del partito di Berlusconi, in particolare il rapporto
con Alleanza nazionale. È colpa di Cossiga aver malamente impostato questo
problema (con la richiesta a Berlusconi di farsi da parte e di
"sciogliere Forza Italia"). Ma è un problema che esiste e deve
essere affrontato e risolto.
3) La classe politica dirigente. Considero una forma
di autodenigrazione incomprensibile il lamento che Forza Italia non ne abbia
una. È vero, piuttosto, che non sa usarla, coinvolgerla, promuoverla al
meglio di sé. Questo è il tema del partito. Siamo realistici: così come
è congegnato, funziona male e già lascia intravedere le degenerazioni di
vecchi modelli. Ma siamo anche onesti: chi ne aveva seriamente pensato e non
solo evocato o balbettato uno diverso? Dopo tanto parlare di "partito
leggero" o di "partito americano", nessuno è venuto avanti
con un’idea migliore di quella in cui Forza Italia è finita: un mostro
con le gambe di un partito delle tessere e la testa di un partito
presidenzialista. Sicché un congresso di Forza Italia oggi resta incerto
fra l’assise di un vecchio partito, una convention e una conferenza
programmatica.
Non è colpa di Berlusconi, o di Berlusconi soltanto,
questo stato di cose. E ora bisogna rimediare, anche perché - come dice
Quagliariello - questo tema è fondamentale, dato che l’esibizione di una
classe di governo (l’esempio delle elezioni amministrative insegna) è
condizione di garanzia per gli elettori. Disfarsi delle tessere e pensare ad
un partito degli eletti, dimenticare per un po’ i congressi e pensare ad
una grande conferenza programmatica nazionale è forse una soluzione più in
linea con la novità dello spirito del ’94. Ugualmente, ove non sia intesa
come una perniciosa fuga in avanti verso il partito unico del Polo, può
essere utile, in concomitanza con la presentazione del premier, la
costituzione di un governo-ombra ridotto numericamente a misura dei problemi
di governo essenziali.
4) L’Europa. Concordo con Quagliariello:
l’adesione al Gruppo popolare europeo non deve essere perseguita per fini
interni. Qui bisogna rimuovere una furbizia. Non è per sottrarre voti a
Marini o a Dini che si deve entrare in quel gruppo, ma per definire meglio
la propria identità. E bisogna anche scuotere una pigrizia: l’adesione al
Ppe non è indice di moderatismo o di doroteismo. Le sorti dell’Europa si
giocano nel confronto fra chi vuole aprirla alla globalizzazione e renderla
competitiva con le altre aree geopolitiche ed economiche del mondo, mediante
misure di liberalizzazione e flessibilità, e chi tenta ancora le vecchie
ricette dello statalismo, dell’assistenzialismo, dei piani del lavoro. Che
su quindici Paesi tredici abbiano scelto la via socialdemocratica non
significa che la partita sia persa, sia perché i tredici hanno passi e
ricette diversi tra loro, sia perché è da pensare che, all’onda
assistenzialistica che allo stato non produce maggior benessere e sicurezza
sociale, in Europa farà seguito un’onda diversa. Sintonizzarsi su
quest’altra onda, per assecondarla, rafforzarla e giovarsene in Italia è
un compito essenziale di forze liberaldemocratiche.
5) L’identità di Forza Italia. Ho già detto dello
spirito del ’94 da riprendere. Con l’intransigenza della moderazione, su
tutti i punti, dalla politica istituzionale a quella economica. Non bisogna
nascondersi nel tentativo vano di rincorrere il consenso di questa o quella
categoria, dai commercianti ai professionisti agli altri. Anche perché, ad
ogni commerciante o professionista che ti chiede di rispettare le sue
esigenze, corrispondono mille consumatori e clienti e cittadini che
rivendicano le loro. Se la liberalizzazione, la competitività e la
flessibilità sono esigenze da soddisfare, allora non ci si deve mimetizzare
per tema di perdita di qualche consenso di categoria.
Aggiungo, in tema di identità, la questione della
laicità. I laici sanno che la laicità dello Stato è condizione di
tolleranza e rispetto della pluralità di culture e di fedi. Così come
sanno che l’arretramento dello Stato è condizione di maggiore libertà
individuale e di sviluppo della società. La battaglia per una vera parità
scolastica ne è un esempio.
I laici devono però guardarsi dal laicismo. La
battaglia dei diritti civili non può più essere impostata oggi con i princìpi
degli anni Sessanta e Settanta. La bioetica, allora, era una rarissima
disciplina che pochi cultori accademici importavano dall’America. Oggi è
materia di insegnamento diffuso e di pratica ospedaliera quotidiana. Se
"l’utero è mio e lo gestisco io" evocava, sia pure con
malagrazia, una nuova consapevolezza del ruolo delle donne nella famiglia,
un analogo "il figlio è mio e lo voglio come, quando e perché lo dico
io" non evoca la stessa cosa.
Su questo punto, occorre essere bene attenti. Il
confine tra il lecito e l’illecito, il possibile e l’orribile, il
desiderabile e il conseguibile, si è ridotto sensibilmente. E il laico deve
tener conto che il passo della sapienza scientifica e tecnologica è più
veloce di quello della saggezza politica. Un figlio è un diritto? Lo è
ancora quando è fatto in provetta? E quando ne è programmato il colore
degli occhi? E quando viene fabbricato per soddisfare il senso di maternità
o paternità o gli interessi materiali di una donna o di un uomo singoli?
La questione non è quella di non urtare la coscienza
cattolica o di blandirla, anche perché neppur essa è un corpo dato e
statico. La questione è quella di far fronte a sfide nuove con mente nuova.
E, per essere sincero, non sono certo che proprio i laici e liberali di
Forza Italia questo punto lo abbiano ben meditato e compreso.
Marcello
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