Editoriale
SUD: CENTO IDEE,
NESSUN FATTO

di Domenico Mennitti

Esattamente un anno fa, con l’uscita del primo fascicolo, abbiamo avviato una strategia dell’attenzione nei confronti del Mezzogiorno. Tutti sottolineavano la prossimità dell’ingresso in Europa, enfatizzato dai passaggi di ammissione al sistema della moneta unica europea. A noi sembrò opportuno puntualizzare che in Europa era importante entrare, ma sarebbe stato un grave errore tagliare il traguardo stremati dalla cura di cavallo impostaci dai parametri di Maastricht e, soprattutto, con un sistema economico nazionale spaccato in due dalla persistente condizione di arretratezza dell’area meridionale. Da quell’attenzione sono scaturite iniziative per noi molto significative: a febbraio il Centro Ideazione costituì a Napoli l’Osservatorio per il Mezzogiorno, una struttura che nei mesi successivi si è andata consolidando ed ora sta intensamente lavorando per pubblicare ad aprile prossimo, prima che il governo renda noto il documento di programmazione finanziaria, un contributo all’analisi dei problemi ed alle prospettive di sviluppo di quest’area ancora in gran parte depressa. Siamo molto critici nei confronti del governo e molto preoccupati per i conflitti sociali che dalle difficoltà crescenti potranno scaturire. Il 1998 è trascorso senza che i governi (soprattutto quello presieduto da Prodi, ma anche il successivo ha avuto modo di esprimersi) abbiano compiuto un passo avanti nella riflessione teorica come nell’iniziativa concreta. Vale ribadire che il Sud da anni è privo delle sedi del dibattito, dove - prima di proporre agenzie e di reperire risorse - si ricercano le cause, il senso attuale dei problemi, la loro evoluzione, le possibilità di risolverli o superarli. Dove si comprende, cioè, la portata vera dei fenomeni, l’incidenza che essi hanno sui cambiamenti che in un’area povera spesso sono determinati da spinte esterne. E bisogna sapere se queste devono essere assecondate o combattute: la soluzione peggiore è quella di subirle, magari succubi dell’eterno ricatto, che spesso si risolve in illusione, dell’occupazione.

Il governo ha tenuto un comportamento davvero irresponsabile. La filosofia di Prodi, ereditata da D’Alema, è stata improntata al principio "prima l’Europa, poi tutto il resto". Ma non è stata una scelta felice. Perché "tutto il resto" è un fardello troppo pesante, che rende impossibile il decollo. Dentro questo "pacchetto" c’è l’ingombrante questione meridionale. I sacrifici degli scorsi anni sono stati sopportati dal Sud più che dal Nord, perché nelle situazioni difficili i conti più alti finiscono sul tavolo dei più deboli. Tuttavia, l’atteggiamento prevalente è stato di stringere i denti, puntando ad un obiettivo che si pensava sarebbe stato d’interesse generale. Tutti ritenevamo che la strada verso l’Europa avrebbe comportato l’abbassamento del divario fra il Mezzogiorno e l’area settentrionale; ora che la corsa si sta compiendo, dobbiamo prendere atto che, al contrario, quel divario è diventato più alto, quasi irrecuperabile. Più che sorprenderci, dobbiamo allarmarci, perché peraltro il Sud dell’Italia è un caso che non ne ha un altro eguale nell’intero continente europeo: esso è l’unico bacino che comprende circa venti milioni di cittadini che vivono in una sostanziale condizione di sottosviluppo.

Perciò ha poco senso la sicumera di D’Alema, che parla del recupero della questione in termini di ordinaria gestione, come se il governo, non sapendo fare due cose contemporaneamente, abbia privilegiato l’ingresso in Europa rispetto al rilancio del Sud, scegliendo i due tempi senza tener conto delle conseguenze che il ritardo del Mezzogiorno avrebbe comportato sulla validità del progetto complessivo. E sorprende l’obsoleta cultura dei dirigenti del ministero del Tesoro, che si sono presentati a Catania con lo slogan propagandistico delle "cento idee", di fatto offrendo alla sbigottita platea un librone che, nella forma e nella sostanza, riproduce lo schema dei vecchi programmi quinquennali. Diciamo le cose come stanno: se Prodi, da gennaio sino alla data dell’improvvisa uscita dalla scena, ha annunziato un’agenzia che non è mai riuscito a costituire, pur essendo disponibile una prima parte di risorse, ciò non è attribuibile alla sua pigrizia e neppure alla sua origine emiliana. La verità è che si è scontrato con l’impossibilità di mettere in piedi un pretestuoso carrozzone che allungasse la vita all’Iri o semplicemente ripercorresse gli ingloriosi sentieri lungo i quali si sono dispersi i miliardi della Cassa per Mezzogiorno. E' intervenuto qualcosa che ha fatto saltare i vecchi schemi e bisogna capire quello che è accaduto, altrimenti si perpetuerà il paradosso dei miliardi disponibili, però inutilizzabili.

Almeno su Ideazione ne abbiamo parlato per tutto l’anno. E' venuto meno il tradizionale ruolo dello Stato, che non è più nelle condizioni di mediare tra un’economia sviluppata e di mercato ed un’altra depressa e assistita. La soluzione dei problemi del Sud, pertanto, non passa attraverso la costituzione di un ente che elargisca quattrini, piuttosto attraverso il recupero delle condizioni che consentano al Mezzogiorno di inserirsi nella logica del mercato.

Bisogna innanzitutto sgombrare il campo dalla visione ideologica che caratterizzava il vecchio meridionalismo che, nell’ambito di un’impostazione classista e centralista, elaborata sullo schema sviluppo/sottosviluppo, concepiva il Mezzogiorno come una vasta area unitaria, del tutto omogenea dal punto di vista economico e sociale, sostanzialmente connotata da arretratezza e dipendenza. Era il presupposto ideologico di una "politica di sviluppo" astrattamente unitaria, centralistica e assistenzialistica. Unitaria perché, se l’area era socialmente ed economicamente omogenea, non vi erano ragioni per motivare una diversificazione e una specializzazione territoriale degli interventi. Centralistica perché una politica di sviluppo che non sia graduata e diversificata dal punto di vista territoriale può essere efficacemente governata dal centro. Assistenzialistica perché la forma prevalente era quella dell’intervento straordinario. Sullo sfondo di questa impostazione c’era la totale diffidenza nelle capacità del mercato di produrre nel Mezzogiorno sviluppo autopropulsivo e autoregolato.

Oggi i risultati fallimentari di quelle politiche ci stimolano ad un approccio diverso anche perché, nel frattempo, tutti si sono resi conto che il Mezzogiorno non è affatto un’area omogenea. Un’analisi macroeconomica con dati disaggregati su scala regionale indica come i livelli di reddito prodotto per abitante varino ampiamente all’interno del Sud, passando dai quasi 27 milioni di lire dell’Abruzzo ai 18 della Calabria. Insomma, non ha più senso parlare di Mezzogiorno al singolare: parliamo dunque di Mezzogiorni, di diverse aree del Sud.

Il tema fondamentale, a questo punto, non è stabilire se occorra più pubblico o privato, ma quello di definire se sia possibile al Sud far funzionare il mercato in modo che esso produca sviluppo. La prima domanda da rivolgere alla classe politica è che lo Stato faccia il suo dovere ed elimini gli ostacoli che si frappongono al corretto funzionamento delle regole. L‘investimento più urgente, perciò, deve riguardare la società civile, che ha toccato punte di inimmaginabile degrado. I recenti fatti di Brindisi hanno aperto uno squarcio drammatico sulla società meridionale, facendo emergere l’allarmante dimensione di quella fascia grigia dove il confine fra il lecito e l’illecito si attenua, poi gradualmente si sfuma sino a scomparire. E l’illecito viene giustificato con l’emergenza sociale: così si costruisce una società di espedienti, dove la deroga diventa prassi corrente e nessuno fa più il proprio dovere senza che ciò scandalizzi l’opinione pubblica. Questa è la struttura di una società mafiosa, dove non vale il diritto ma il favore dei potenti, politici oppure burocrati, ma anche faccendieri e capibastone della criminalità organizzata. Quale sviluppo è ipotizzabile per una società così articolata?

Sono quasi tutte fallite anche le esperienze amministrative di centro-destra nel Mezzogiorno, dove le maggioranze si sono frantumate e sulle sedi istituzionali sventola la bandiera del trasformismo. Lasciamo che i perdenti celebrino la rivincita e che i voltagabbana brindino per le poltrone conservate, ma il vero dato è che non c’è ancora una soluzione politica in grado di governare questa società. Il centro-destra ha fallito dove il centro-sinistra aveva già raccolto disastri nei lustri precedenti. Lo sbocco è nella capacità di rompere con tutto quanto giova alla conservazione di questo stato di cose. Ha ragione chi sostiene che una sana provocazione è utile al Mezzogiorno più di cento vecchie idee, raccolte in un libro che nessuno oserà più definire dei sogni, perché i problemi sono diventati incubi.

Questo è il tavolo sul quale si svolgerà la sfida. Ne prenda nota anche il presidente del Consiglio, che semina ottimismo e sembra non rendersi conto di essere seduto su una polveriera. Aver varato l’Agenzia per lo sviluppo, senza peraltro poterne contestualmente nominare gli amministratori, è un segnale debole anche sul piano dell’effetto-annuncio. Sono urgenti più forti indicazioni di cambiamento, a cominciare dal livello di competenza e di moralità degli uomini ai quali sono attribuite responsabilità politiche ed amministrative, presidenze di enti economici e finanziari. Sappiamo bene che è difficile ed impopolare contrapporsi alla demagogia di chi promette di riaprire i rubinetti degli incentivi, ma noi puntiamo a valorizzare le capacità attrattive di questa terra, che accresceranno le loro potenzialità man mano che avremo bonificato la società meridionale, riconsegnandola alla legalità anche attraverso il recupero della sua grande tradizione di civiltà.

L’Europa per noi resta un’occasione. Non abbiamo la tendenza malinconica ad intravedere ultime spiagge, ma la determinazione concreta a non fallire l’obiettivo. Lavoriamo perciò a stabilire le condizioni perché il Sud possa misurarsi alla pari sul mercato e non bruci l’ultima elemosina di una manciata di miliardi, che sancirebbe il definitivo distacco dal resto dell’Italia e dell’Europa.

Domenico Mennitti


Torna al sommario


Archivio
1999