Finis Italiae?
NOI, TRENTENNI
DERUBATI DEL FUTURO
di Vittorio Macioce e Giovanni Orsina

L’Italia, ci dite, si sta estinguendo. E la colpa, aggiungete, è nostra, di chi oggi ha trent’anni, soprattutto se proviene da quell’immenso ceto medio che, nell’Italia del dopoguerra, è diventato la classe dominante. Siamo oziosi e avversi al rischio, egoisti e consumisti, ossessionati dal benessere e allergici ai sacrifici. E allora, piuttosto che diventare adulti e affrontare la vita in prima persona, preferiamo protrarre indefinitamente la nostra infanzia, rimanendo a casa con i nostri genitori per sfruttarne fino in fondo la protezione morale e il reddito materiale. Non costruiamo famiglie nuove, non generiamo nuovi italiani. Che le responsabilità della crisi demografica siano nostre - di quanti, pur essendo in età per procreare, non procreano - certo sarebbe difficile negarlo. Com’è anche innegabile che questo comportamento sia almeno in parte dovuto alle profonde trasformazioni che hanno reso i valori della nostra generazione così diversi da quelli delle generazioni precedenti. Cercando di spiegare tutto con i valori, però, si rischia di non andare molto lontano. In realtà, con le loro scelte i trentenni altro non stanno facendo che reagire in maniera razionale agli stimoli economici con i quali li sollecita questa Italia di fine millennio. Non siamo né più né meno pigri o egoisti di quanti ci hanno preceduto e di quelli che ci seguiranno. Soltanto - come è stato per i nostri avi e sarà per i nostri discendenti - non abbiamo voglia di veder peggiorare, e se possibile intendiamo migliorare, la qualità della nostra vita materiale. E visto che dal nostro ambiente provengono incentivi differenti rispetto a quelli che ne provenivano trenta o quarant’anni fa, abbiamo ragionevolmente scelto di comportarci diversamente da come si sono comportati i nostri genitori.

Il loro mondo, il mondo che i nostri genitori ci hanno insegnato ad affrontare, oggi non esiste più. Era un mondo di sicurezza e di garanzie: trovare un posto era relativamente facile, e chi lo trovava aveva ottime possibilità di conservarlo per tutta la vita; i percorsi professionali erano stabili e codificati, le retribuzioni crescenti; la parola "licenziamento" sapeva di eresia, la parola "pensione" di certezza matematica; l’elevato tasso di sviluppo economico consentiva pure ai più inerti e ai meno intraprendenti di vivere, e spesso di vivere bene. Anche al di fuori del mondo del lavoro, i nostri genitori ci presentavano un modello di vita familiare all’interno del quale, per quanto a prezzo di sacrifici e compromessi, separazione e divorzio apparivano ipotesi rare e marginali. Come tutte le generazioni che si sono trovate a crescere in un periodo di trasformazione profonda, anche la nostra ha dovuto provare sulla propria pelle che, talvolta, l’universo fittizio dell’educazione non ha nulla a che vedere con l’universo reale. E se la crisi del modello tradizionale di famiglia si è trascinata per un periodo di tempo lungo abbastanza perché potessimo abituarci ad essa, il mercato del lavoro ci è invece franato addosso in maniera relativamente rapida e inattesa. Entrati nelle università nel clima ottimistico - anche se, magari, di un ottimismo decadente e irresponsabile - dei tardi anni Ottanta, ne siamo usciti nell’atmosfera economica stralunata e depressa dei primi anni Novanta.

Questa svolta deve il suo carattere repentino, almeno in parte, a motivi contingenti e italiani. Ma è anche evidente che ha radici ben più profonde e strutturali, e che i suoi effetti sono venuti per restare, nel nostro Paese così come in tutto il mondo occidentale. Trovare lavoro da difficile è diventato difficilissimo, quasi impossibile in alcune regioni - il tasso ufficiale di disoccupazione giovanile nel Mezzogiorno è arrivato a livelli stratosferici - o per alcune categorie, come, ad esempio, i laureati in materie umanistiche. Il potere contrattuale di chi cerca un impiego, poi, è diventato talmente scarso che il poco lavoro offerto non può che essere precario e sottopagato. I profili professionali sono cambiati profondamente, e molti di noi hanno speso l’adolescenza e la prima giovinezza preparandosi a mestieri che non esistono più, o esistono in forme nuove e differenti, o hanno visto ridursi drasticamente il proprio peso e la propria presenza sociale, oppure ancora sono stati saturati dalle infornate clientelari degli scorsi decenni. Alcune professioni sono circondate da barriere corporative tanto irte e fitte da consentire il passaggio quasi esclusivamente ai figli d’arte. I più pigri, i meno intraprendenti, i più fragili psicologicamente, che una decina o quindicina di anni fa un posticino riuscivano magari a conquistarlo, si trovano oggi completamente fuori mercato. Sopravvivono soltanto i più vitali e creativi, coloro i quali, per intelligenza o perché sono stati tanto fortunati da ricevere stimoli maggiori e una migliore educazione, hanno capito che il posto non esiste più, che ciascuno deve diventare l’imprenditore di se stesso, inventarsi la propria attività e rimettersi ogni giorno, pazientemente, in vendita.

Questa essendo la situazione, non possiamo che aspettarci un livello di vita inferiore rispetto a quello degli scorsi decenni: a parità di occupazione i redditi saranno minori, il carico di lavoro maggiore, e non esisteranno più né garanzie né zone franche. Sia chiaro: non che il mondo nel quale stiamo cominciando a vivere la nostra età adulta sia un inferno. In generale, rimane comunque un’epoca di straordinario benessere e di opportunità immense. Tuttavia, rispetto all’epoca dorata della nostra infanzia e adolescenza, le risorse a nostra disposizione sono diminuite. In Italia, poi, il collasso del tenore di vita è stato forse ancora più pronunciato di quanto non sia stato altrove, a causa di un fenomeno storico le cui conseguenze per la nostra generazione hanno un po’ il sapore del paradosso. Attraverso meccanismi quali il debito pubblico e la generosità del sistema pensionistico, l’Italia degli anni Settanta e Ottanta è riuscita a vivere al di sopra delle proprie possibilità, appropriandosi in via preventiva di una parte delle risorse che sarebbero spettate ai decenni successivi. Nella nostra infanzia abbiamo così consumato - ci hanno fatto consumare - quello di cui avremmo dovuto vivere nella nostra età adulta. E il dislivello fra l’epoca nella quale siamo cresciuti e quella nella quale viviamo oggi si è perciò ulteriormente allargato.

Visto che il mondo del lavoro è oggi così duro e difficile che spesso ci permette tutt’al più di scegliere fra la disoccupazione e la sottoccupazione, e visto che i nostri genitori hanno conservato dai decenni passati un bel po’ di risorse, riuscendo allo stesso tempo a salvaguardare, grazie a vincoli corporativi e garanzie sociali, almeno parte del proprio tenore di vita, per quale motivo dovremmo abbandonare la famiglia d’origine e crearcene una nostra? Certo, molti di noi lo hanno fatto e lo fanno. Chi a casa non si trova bene; le persone la cui voglia di indipendenza è incontenibile, oppure la vocazione alla maternità o paternità particolarmente robusta; chi per abilità o fortuna si trova nelle condizioni di farlo. Tanti altri, però, hanno preferito agire sulla base degli incentivi economici, i quali indicano al contrario che, se si vuole salvaguardare la qualità materiale della propria vita, l’opzione più conveniente è quella di restarsene a casa. Né d’altra parte, vivendo ormai all’indomani della rivoluzione sessuale e dell’emancipazione femminile, possiamo sperare che l’assenza di stimoli economici sia del tutto ovviata dalla presenza di stimoli di altra natura, biologica o sociale. L’attività sessuale è ormai disgiunta sul piano sia tecnico sia morale tanto dal vincolo matrimoniale quanto dalla procreazione. E le giovani donne hanno allargato l’orizzonte dei propri interessi ben oltre i limiti della vita familiare.

Continuando ad attingere al patrimonio dei nostri genitori, inoltre, altro non stiamo facendo che recuperare almeno in parte i beni che spettavano a quest’ultimo lustro del secolo e che l’Italia degli anni Ottanta si è invece divorata in anticipo. A livello pubblico, la politica dei privilegi consolidati e del debito ha impedito che le risorse fossero ripartite equamente fra le generazioni; e attraverso i circuiti privati della solidarietà familiare coloro i quali appartengono alle fasce d’età privilegiate stanno adesso restituendo quelle risorse ai loro meno fortunati discendenti. Allo stesso modo - ma il fenomeno è senza dubbio meno rilevante sotto il profilo quantitativo, oltre a essere meno tollerabile sotto quello morale -, non sono pochi i trentenni che, approfittando individualmente delle rigidità sociali dalle quali la loro generazione è stata nel suo complesso penalizzata, sono riusciti grazie ai vincoli di parentela ad essere ammessi all’interno delle corporazioni professionali. Il meccanismo di risanamento privato delle iniquità pubbliche, in ogni modo, non è riuscito a riportare il sistema a un equilibrio virtuoso. Al contrario, incentivando la nostra generazione a prolungare la propria dipendenza dalla famiglia di origine ed a ritardare il passaggio dall’infanzia alla maturità, l’ha indotta a rinchiudersi in un patologico circuito di irresponsabilità. Impedendole di reclamare pubblicamente i propri diritti di generazione, insomma, l’ha spinta a ripiegare costantemente all’interno dei recinti privati della solidarietà familiare, che, comodi e protettivi, ostacolano però per ciò stesso l’ingresso nell’età adulta.

La situazione nella quale oggi, in Italia, si trova la generazione dei trentenni, essendo per lo più causata dalle profonde trasformazioni che il mondo occidentale ha subìto negli ultimi decenni e sta ancora subendo, appare o irreversibile o comunque difficilmente modificabile. Poiché, d’altra parte, essa dipende anche dalle caratteristiche specifiche della recente storia politica del nostro Paese, è almeno in una certa misura riformabile. Sarà - è già - inevitabile rinunciare al posto fisso, agli scatti di stipendio disgiunti dalla produttività, alle sinecure, a un sistema di Welfare universale, alle pensioni che prescindono dai contributi. Ma non è assurdo chiedere allo Stato italiano di prendere finalmente atto che Cipputi non esiste più, e che la regolamentazione del mondo produttivo deve essere ripensata alla luce delle numerose, e pressanti, esigenze emerse negli ultimi anni e, fra queste, quelle dei giovani disoccupati o sottoccupati. E chiedergli inoltre di agire in fretta, prima che per molti l’infanzia - e l’assenza di responsabilità che le appartiene - si prolunghi tanto da creare danni irreversibili, con l’ulteriore conseguenza che la procreazione ritardata rischierebbe in quel caso di diventare procreazione mancata. Il problema della generazione dei trentenni è dunque, almeno in parte, un problema di natura politica. Che però non ha ancora trovato chi lo rappresenti.

I sindacati si sono formati nell’era delle grandi industrie e delle burocrazie ministeriali, e appaiono del tutto incapaci di organizzare e difendere i disoccupati e quanti si muovono nel nuovo mercato del lavoro autonomo e precario. Continuano allora a rivolgersi al proprio pubblico di sempre, un pubblico che si sta progressivamente diradando, che è composto in misura sempre crescente di pensionati, e che rimane tuttavia numeroso abbastanza da conservare un peso sociale considerevole. Nemmeno il mondo politico è apparso finora capace di rappresentare le aspirazioni e i bisogni delle "nuove classi". Tradizionalmente, le istituzioni pubbliche italiane rispondono assai poco alle richieste che attraverso i meccanismi della democrazia giungono ad esse dal Paese nel suo complesso, e appaiono invece ben altrimenti sensibili agli interessi e alle sollecitazioni di specifici gruppi sociali organizzati. Ancorate agli assetti consolidati di potere, non solo si dimostrano incapaci di anticipare e indirizzare le trasformazioni della società, ma nemmeno riescono a seguirle da vicino. Il sistema politico continua così a rispondere a quesiti che sono stati posti anni - se non decenni - fa, e chi ha esigenze nuove da far valere si trova escluso da un circuito di potere ormai saldamente consolidato o, meglio, sclerotizzato. La preoccupante mancanza di inventiva che la politica italiana dimostra sul piano tanto ideologico quanto programmatico è in gran parte una conseguenza di questo perenne ritardo. Non è un caso, allora, che per risolvere il problema del lavoro giovanile si continuino a proporre ancora oggi strategie vecchie di decenni, strategie che, oltre tutto, anche in passato si sono dimostrate fallimentari.

Le qualità generali che caratterizzano i ceti emergenti di questa fine secolo li rendono, inoltre, più difficili da rappresentare. Non è soltanto la loro formazione recente, in altre parole, a impedirne o ritardarne l’ingresso fra gli interessi sociali considerati degni di tutela politica, ma anche la profonda diversità che li separa dalle classi tradizionali. Non si tratta di raggruppamenti omogenei, composti da individui che svolgono attività professionali affini e che sono fisicamente concentrati in un numero limitato di luoghi di lavoro, cioè individui la cui comune identità e i cui interessi condivisi siano facilmente riconoscibili, e che un agitatore politico o sindacale potrebbe contattare personalmente. Sono invece ceti diversificati per cultura, provenienza sociale e tipo di attività lavorativa, diffusi sull’intero territorio nazionale, privi di legami comunitari e poco inclini alle solidarietà collettive. Persone che, ammesso che lo volessero, i sindacati potrebbero raggiungere soltanto con grandissima difficoltà. E che nemmeno le forze politiche riescono a mobilitare con strumenti tradizionali, poiché sono insensibili al richiamo di cellule o sezioni di partito.

Oggi, insomma, c’è in Italia un’immensa nuvola di individui privi di rappresentanza: una nuvola all’interno della quale ritroviamo gran parte della generazione dei trentenni, ma anche, ad esempio, l’intero "popolo delle partite Iva". È una base sociale in libera uscita, priva di un punto di riferimento nella vita pubblica, scarsamente consapevole di se stessa e del proprio potere, che tuttavia sta cercando, sia pure confusamente, qualcuno che le dia voce e ne difenda gli interessi. Una base sociale, inoltre, con la quale non è certo difficile entrare in contatto, poiché è alfabetizzata, attenta e informata, saldamente collegata, insomma, alla rete dei mezzi di comunicazione.

Recuperare questi ceti, dare loro un’identità, il senso dei propri interessi, uno scopo o degli scopi da raggiungere, è uno dei compiti fondamentali che le forze politiche italiane non potranno fare a meno di affrontare. Perché nessuna democrazia può permettersi di allontanare dalle istituzioni una parte così consistente della popolazione, nella quale, soprattutto, troviamo gli individui professionalmente più moderni e dinamici. E perché nessun Paese può permettersi di escludere un’intera generazione dalla vita civile adulta.

Vittorio Macioce
Giovanni Orsina


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1999