Feuilleton
L'AMBIENTE
E' ANCHE TRASFORMAZIONE
di Luigi Cavallari

Nell’Italia del dopoguerra la cultura della trasformazione del territorio ha oscillato tra due atteggiamenti di segno opposto, che hanno caratterizzato due distinti periodi: da una parte, soprattutto fino alla metà degli anni ’80, la salvaguardia ambientale è stata rigidamente subordinata alle ragioni dello sviluppo (conseguenti, quindi, la moltiplicazione a volte ossessiva delle infrastrutture, la debolezza rispetto alle pressioni speculative e insediative, la disseminazione di impianti industriali inquinanti); dall’altra, soprattutto in questi ultimi anni, la difesa intransigente di una linea di conservazione integrale, che non ha mai saputo o voluto assumere un ruolo autenticamente progettuale in termini di trasformazione dell’habitat. Permissività e astratto rigore vincolistico sono i due estremi in cui si è arroccata una cultura urbanistica che, anche quando ha proposto modelli trasformativi, non è stata in grado di incontrarsi con le esigenze che nel territorio si manifestavano, ma spesso neanche di capirne la portata o prevederne gli esiti e le necessità.

La mancanza di un soddisfacente ed equilibrato rapporto tra gestione urbanistica e processi realmente agenti sul territorio si riflette in un apparato normativo abnorme e ingestibile, in cui l’impotenza di una visione politica velleitariamente dirigistica si sposa all’illusione utopica di una cultura urbanistica che non ha mai fatto i conti con i propri fallimenti. Assistiamo però, da alcuni anni, all’emergere di un fenomeno nuovo: la cultura dell’ambiente, che rivendica una propria verginità rispetto ai fallimenti del passato, tende ad occupare spazi, sia politici che culturali, sempre maggiori. Questo potrebbe essere un fenomeno positivo, se fosse in grado di restituirci una diffusa maggiore qualità ambientale. È però legittimo esprimere qualche dubbio, almeno finché non sarà fatta chiarezza su alcune questioni basilari.

Anzitutto, ci sembra che lo stesso concetto di ambiente sia spesso definito ed usato in modo ambiguo e contraddittorio. L’ambiente è tutto ciò che circonda e riguarda l’individuo, mentre il più delle volte viene descritto come qualcosa con cui l’uomo non ha relazione, che non lo riguarda, in cui è visto, anzi, come un elemento di disturbo, quando non come un pericoloso nemico. Eppure l’uomo ha con il suo ambiente un rapporto di necessità biunivoca: in esso deve non solo sopravvivere (questa condizione lo accomuna a tutto il mondo animale), ma assolvere al ruolo, che gli è proprio, di produttore di cultura. Senza l’uomo non c’è ambiente, ma solo natura incontaminata; l’ambiente non può che costituire un insieme di fattori in equilibrio instabile, al cui centro c’è l’uomo, che non è un’entità immobile, ma evoluta ed evolutiva, il quale, interagendo necessariamente col suo habitat, continuamente lo modifica. Il concetto di ambiente, invece, sia nella volgarizzazione mediatica che in quella politica, viene generalmente confuso con quello di natura o di paesaggio, cioè con qualcosa che vive al di fuori o senza (se non contro) l’uomo; qualcosa che l’uomo può al più, se vuole, contemplare, ma senza interagire con esso, senza trasformarlo, senza, quindi, progettarlo. La nozione di ambiente contiene in sé, invece, il concetto di cambiamento, di una trasformazione che va governata, pensata, progettata. Se la nostra epoca è caratterizzata da un’evoluzione culturale e tecnologica di spettacolare accelerazione, questo non può non riflettersi nell’ambiente. Per raggiungere un determinato livello di civiltà, occorre modificare l’ambiente in maniera adeguata. Se vogliamo, quindi, continuare ad accrescere il nostro livello di cultura (cosa a cui non possiamo sottrarci, se non vogliamo tradire la nostra condizione di uomini), dovremo necessariamente intervenire sul nostro ambiente. L’ambiente, insomma, non lo si può contemplare: si può solo trasformarlo. Si può invece contemplare la natura, leggendola come paesaggio, ma solo dall’esterno, solo se non c’è l’uomo, fattore strutturalmente squilibrante del contesto ambientale. Del resto, la natura incontaminata non esiste più, o quasi; la natura è ormai, anch’essa, artificiale. Quello che siamo abituati a definire "ambiente naturale" è sempre un ambiente antropizzato, profondamente modificato dall’uomo.

Il rapporto contemplativo con la natura è un’esigenza fondamentale dell’esperienza culturale umana. All’interno della cultura architettonica i due filoni, così come si sono determinati nell’800, l’uno della contemplazione (che potremmo ascrivere alla tradizione romantica di John Ruskin), e l’altro della trasformazione (che potremmo riferire alla cultura tecnico-scientifica e sistemica di Eugène Viollet-le-Duc), rappresentano l’alternativa tra gestione e distacco, tra fruizione e rispetto, che riflette anche la dicotomia tra cultura umanistica e cultura tecnica. Per superare questo dissidio c’è una sola strada: quella di trovare l’elemento di connessione tra le due culture, e questo è il progetto. Una normativa della progettazione dovrebbe dunque garantire le esigenze della tutela dei valori ambientali e della contemplazione, ma anche liberare le energie necessarie alla trasformazione.

La normativa attuale, che sempre più massivamente connota il nostro rapporto istituzionale con l’ambiente, è più che altro finalizzata a impedire le trasformazioni, in una visione riduzionista e statica della gestione e della cultura, non collegata ai fermenti vitali in gioco nella società, e che non riesce a considerare il progetto come un possibile accrescitore di qualità abitativa e ambientale.

Se è necessario superare i limiti di una normativa astratta, articolata in una rigida gabbia di regole numeriche o prescrittive, un sistema di vincoli certo non in grado di generare qualità ambientale, occorre allora mettere a punto i criteri di una normativa adattabile ed elastica rispetto all’enorme varietà di casi che si possono presentare nell’evoluzione dell’ambiente, e quindi rispetto all’esigenza di una verifica non burocratica delle intenzioni progettuali. Più che regole e divieti automatici e rigidi, è necessaria una pluralità di norme e indirizzi, che indichino le qualità richieste e contemplino l’adesione alle diverse condizioni del contesto e del progetto. La normativa dovrebbe essere in grado di favorire un metodo di progetto che non cerca soluzioni fisse e determinate del problema, ma livelli più avanzati di qualità, in grado di essere continuamente sottoposti a verifica. Non, quindi, vincoli rigidi e immutabili, ma indicazione delle qualità che l’intervento deve raggiungere; non una precettistica pignola e rituale, quanto piuttosto un’attenta descrizione delle prestazioni richieste.

Oggi il progetto, da atto autonomo di invenzione aderente alle necessità del reale, diviene acquiescente ed acritica adesione ai precetti dettati dal sistema normativo-burocratico, che lascia uno spazio ristrettissimo alle soluzioni creative. Ogni rigida restrizione normativa, evidentemente, è penalizzante rispetto alla possibilità di intervenire e confrontarsi con l’ambiente, aderendo alle sue potenzialità e qualità: non c’è, del resto, alcuna possibilità di commisurare con una norma la realtà esistente. Per un migliore rapporto con l’ambiente, c’è bisogno invece di una normativa che accresca i gradi di libertà progettuale, ridefinendo il rapporto piano-norma-progetto, in modo da assicurare alla sperimentazione progettuale più spazio per l’invenzione e la qualità. L’indicazione è quella (già suggerita da Giancarlo De Carlo) di invertire il processo, cioè di non far dipendere il progetto dalla norma, ma la norma dal progetto, ed entrambi dal piano, inteso come piano-programma per le trasformazioni spaziali ed ambientali. Occorre partire dalla qualità, insita nell’ambiente esistente e nel programma della trasformazione, e mettere a punto il sistema degli obiettivi (delle qualità da raggiungere e delle esigenze da soddisfare) su cui definire un sistema normativo adeguato agli obiettivi. Una normativa, insomma, non di vincoli ma progettuale, non prescrittiva ma di orientamenti. L’esigenza di controllo globale del processo di trasformazione dell’ambiente, tipica di una concezione normativa rigida ed astratta, può essere, paradossalmente, molto pericolosa per la qualità ambientale. Un po’ come accade per le strutture eccessivamente rigide in presenza di terremoti: contrariamente a quanto si può banalmente pensare, sono le prime a crollare, non riuscendo ad adattarsi a un mutamento di condizioni esterne improvviso e violento.

Luigi Cavallari


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1999