Feuilleton
LA CITTA' IMBALSAMATA
di Eugenia Roccella Cavallari

Chiunque vada un po’ a spasso per l’Europa può vedere la trasformazione urbanistica ed estetica delle grandi (ma spesso anche delle piccole) città. Come nella famosa gita a Chiasso di Arbasino, basta varcare la frontiera per notare la differenza: ovunque si progetta, si modifica, si recupera, per adeguare i centri urbani, gangli vitali della società, ai profondi cambiamenti in corso. In Italia, invece, si batte la grancassa per ogni rara opera lungamente sospirata e finalmente realizzata, che si tratti di un nuovo auditorium o una galleria chiusa da anni, strutture spesso obsolete e inadeguate già al festoso momento dell’inaugurazione (politica). Ma il progetto, e quanto di rischioso, imprenditoriale, insopprimibilmente individuale e creativo è ad esso legato, fa paura alla nostra classe dirigente. La capacità di imprimere significati e idee forti nel tessuto urbano sembra esaurita. Non c’è più, per citare solo l’esempio della capitale, un Sisto V, ma nemmeno un Mussolini; non ci sono più progetti da discutere, scelte architettoniche che dividono, che aprono dibattiti, che si possano amare o rifiutare. Conservatori in tutto, i nostri amministratori e governanti lo sono tanto più in questo settore: conservare è la parola d’ordine, il progetto è azzardo, creatività, scelta, e non c’è niente di più lontano dalla cultura dell’attuale centro-sinistra.

Si dirà che conservare non è un male, per un Paese come il nostro traboccante di opere d’arte trascurate e di centri storici pericolanti. Ma come in politica per conservare davvero (cultura, tradizioni, civiltà) è necessario riformare, altrettanto accade per le architetture: l’imbalsamazione non funziona, irrigidisce in modo innaturale ciò che è già morto, non serve a dare vita. Karl Kraus, mettendo a fuoco con sintesi felice la falsa estetica della conservazione, scriveva nel 1912: "Devo dare una delusione agli esteti: la vecchia Vienna un tempo fu nuova". Quel che oggi vale la pena conservare è sempre frutto di un progetto, che presuppone un autore creativo e un committente lungimirante, i quali hanno a volte agito con una feroce mancanza di rispetto nei confronti del preesistente. Cosa conserveremo, in Italia, della nostra epoca? Forse solo i miniprogetti di recupero di qualche piazza (aggiungi due sampietrini, sposta una panchina, infila lì un faretto), o l’orrore dell’arredo urbano affidato a qualche disgraziato assessore (cambia i contenitori per le cartacce e falli disegnare da mio genero).

La politica di questa sinistra oscilla tra due tendenze apparentemente contraddittorie ma entrambe detestabili: immobilismo e sfrenata corsa al consumo. Da una parte, la mancanza di scelte significative da parte della committenza pubblica, che ha come corollario il mito della "norma": ovvero l’impianto a norma, la finestra a norma, la tenda per la veranda a norma, e via di questo passo, tra richieste di permessi e licenze e verifiche anche per cambiare il tubo che perde. Dall’altra, la trasformazione di tutto quello che è bene culturale in bene di consumo, evento, spettacolo, meglio se effimero e naturalmente di massa. Mentre gli ambientalisti suggeriscono di bloccare qualunque attività (ogni nostro gesto può arrecare danni all’ambiente), i "circensi" meditano su come convertire ogni edificio pubblico, piazza e giardinetto in contenitori di eventi ludici, latamente culturali (la mostra su Tex Willer o quella del Tiepolo sono, su questo piano, assolutamente equivalenti). È uno dei molti paradossi interni all’ideologia della sinistra post-comunista, in cui sono confluite le tante anime di un anticapitalismo senza più vere ragioni. Il nemico, si sa, non c’è più. Ma come esprimere l’esigenza (in sé certo non negativa) di cambiare il mondo senza identificare un colpevole storico, o perlomeno di categoria, in sostituzione del colpevole di classe, o dell’onnicomprensivo "sistema"? Una cultura come quella comunista, che non ha mai fatto davvero i conti con le proprie radici e con i motivi del proprio fallimento, non può che ricorrere a surrogati, inevitabilmente meno saporiti. Invece del caffè la cicoria, invece dei borghesi capitalisti coloro che inquinano l’ambiente (ma anche quelli che abbandonano gli animali, che ormai possono essere puniti penalmente, o altri soggetti di prossima individuazione).

Dall’altra parte sopravvive il filone del "diritto al lusso" che, mescolato con l’antica vocazione alla propaganda, ha prodotto il nuovo modello di assessore alla Cultura, e di ministro dei Beni culturali. Per non incorrere più nel rischio di un altro ’77 (ricordate Luciano Lama investito dal grido di "scemo, scemo"?), l’ideologia post-comunista ne ha inglobato gli elementi caratterizzanti meno pericolosi, galleggiando tra effimero e spettacolarizzazione (ma non era la specialità di Berlusconi?).

In mezzo a queste oscillazioni, il progetto latita. A cambiare, o perlomeno a rinnovare, il volto delle nostre città hanno pensato, nel loro piccolo, i privati, le famiglie, i semplici cittadini, in larghissima maggioranza proprietari di case, che hanno mandato in porto, in questi ultimi anni, una massiccia operazione di recupero e ristrutturazione di appartamenti ed edifici. Con tardivi riconoscimenti governativi (qualche interessato sgravio fiscale) e sempre lottando con le burocrazie preposte: per rifare il bagno, occorre la licenza o basterà una comunicazione per "straordinaria manutenzione"?

Eugenia Roccella Cavallari


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1999