Congetture & confutazioni
IL CARROZZONE DEL REGIME
di Francesco Perfetti

La Resistenza è il mito fondante della Costituzione. La sua immagine prevalente è quella tramandata da una letteratura - più che storica in senso proprio - ideologica e politica, grazie alla quale è stato espunto o minimizzato il contributo alla liberazione dal fascismo di tutte le forze politiche non comuniste. Questa immagine, falsa e fuorviante, ha trovato credito e legittimazione grazie al predominio nella cultura e nella società italiana di una intellighenzia di sinistra, che, per mezzo secolo e oltre, ha dettato legge attraverso il controllo capillare delle case editrici, dei mezzi di informazione e comunicazione di massa, dell’insegnamento universitario e via dicendo. La cosiddetta vulgata resistenziale della storia contemporanea italiana è stata così imposta dall’alto a prezzo di silenzi, distorsioni, omissioni che non le hanno giovato.

Non a caso, un grande studioso come Renzo De Felice poté osservare che la Resistenza era venuta assumendo agli occhi dei più, soprattutto dei giovani, l’immagine di un mito incapace di sortire altri risultati che non fossero «la noia e il disinteresse oppure il desiderio di sentire altre campane». La storiografia ufficiale resistenziale, insomma, prevalentemente di marca comunista o azionista, aveva finito per diffondere una cortina fumogena - quanto mai oppressiva e assillante con il suo dogmatismo totalitario - sulle aspettative di conoscenza storica di gran parte del Paese. Solo negli ultimi tempi, questa cortina e quel "divieto di fare domande" tipico dell’intellettuale marxista o filo-marxista hanno cominciato ad essere lacerati da indagini e approfondimenti storiografici sul momento resistenziale nel suo complesso e sui singoli episodi in particolare.

È comprensibile come la crisi della Prima Repubblica e dei partiti che ne costituivano il puntello - una crisi che ha riportato con prepotenza alla luce il problema dell’identità nazionale - non sia stata estranea a tale fenomeno.

Già il crollo del regime sovietico e la crisi generalizzata dei partiti comunisti avevano, del resto, determinato - a livello più generale - un profondo contraccolpo che aveva mandato in frantumi molte certezze ideologiche e che aveva rimesso in discussione i capisaldi dell’egemonia culturale marxista in Italia, ma non solo in Italia. La pubblicazione e il successo di opere fondamentali come Il passato di un’illusione di François Furet e il Libro nero del comunismo rientrano in questo quadro.

In Italia, passato il primo momento di sconcerto e disorientamento, la cultura marxista e radical-azionista, madre della vulgata resistenziale della storia italiana più recente, ha rialzato la testa, si è riorganizzata ed è partita all’offensiva. La sua arma preferita è la non meglio precisata accusa di "revisionismo" - un’accusa che ha preso il posto dell’altra, ormai logora, frustra e non più proponibile di "fascismo" - scagliata contro chiunque avesse osato criticare o discutere l’interpretazione canonica e "progressiva" della storia contemporanea. Il caso più recente, e significativo, è il vero e proprio linciaggio morale al quale è stato sottoposto l’ambasciatore Sergio Romano, reo di avere rammentato che il franchismo non è assimilabile al fascismo, cosa che la storiografia e la politologia internazionali più avvertite avevano da tempo messo in luce e ben argomentato.

Si può dire di più. L’offensiva dei custodi della vulgata si è sviluppata e si sviluppa con una virulenza inusitata ora che l’Ulivo è al governo. Questo accade proprio perché la vulgata è, al tempo stesso, l’esito dell’egemonia culturale marxista e radical-azionista nella società italiana, ma anche la garanzia e la giustificazione della sopravvivenza di forze politiche e di una cultura politica sconfessate e messe in forse, altrove, dalla dura lezione della storia e dal fallimento dei regimi costruiti sulle attese escatologiche e messianiche dell’utopismo progressista.

Il luogo privilegiato di elaborazione della vulgata è costituito dall’Istituto nazionale per la Storia del movimento di liberazione, creato nel 1949 nel clima arroventato dell’immediato dopoguerra e sostenuto da un congruo contributo finanziario dello Stato. Con il tempo, esso si è sviluppato a macchia d’olio giungendo a creare una fitta rete della quale fanno parte ben 62 istituti regionali che percepiscono finanziamenti da regioni, comuni, provincie. La sua attività si è andata sempre più caratterizzando all’insegna della faziosità e dell’intolleranza ideologica, proponendo ricerche ed iniziative, tutte ruotanti attorno al mito di una Resistenza ad iniziativa popolare guidata dai comunisti.

È più che comprensibile come il regime dell’Ulivo veda nell’Istituto nazionale per la Storia del movimento di liberazione lo strumento più adatto non soltanto per garantire la sopravvivenza di una interpretazione della storia più recente, ormai sconfessata dagli studi storici più rigorosi, ma anche per assicurare la conservazione dell’egemonia culturale e il controllo degli strumenti educativi e formativi. È comprensibile, anche, il fatto che, per converso, i vertici di questo Istituto guardino a tale regime con giustificata fiducia: tempo fa, per esempio, il presidente dell’Istituto si è rivolto ufficialmente al ministro dei Beni culturali come "referente politico" oltre che "istituzionale" per chiedere finanziamenti aggiuntivi.

L’operazione politica e culturale che il regime dell’Ulivo sta cercando di porre in essere a favore dell’Istituto nazionale per la Storia del movimento di liberazione e a favore del mantenimento della posizione egemone della vulgata storiografica resistenziale utilizza lo strumento legislativo. Un gruppo di senatori, di area diessina e rifondista, ha presentato un disegno di legge che affida - tra l’altro - all’Istituto nazionale per la Storia del movimento di liberazione un ruolo di consulenza nell’organizzazione di iniziative di interesse storico-culturale "anche a fini didattici". In altre parole, il regime dell’Ulivo intende affidare ad un organismo che lavori "di concerto con i ministeri competenti" (Università e Beni culturali), tutte le manifestazioni - dai convegni alle pubblicazioni, periodiche e non, dalla ricerca scientifica ai corsi di aggiornamento didattico per docenti - che si rivelino utili per tramandare e diffondere la memoria storica più recente. Per conseguire questo obiettivo, avendo la garanzia di una gestione "politicamente corretta", l’attuale regime ha pensato bene di trasformare con un colpo di mano legislativo un Istituto, rinomato per la sua faziosità, in un vero e proprio carrozzone parastatale.

Il disegno di legge infatti prevede l’attribuzione di una dotazione di personale e l’inquadramento, anche in soprannumero, nei ruoli del ministero dei Beni culturali nelle corrispondenti qualifiche funzionali del personale in servizio presso l’Istituto alla data di entrata in vigore del provvedimento legislativo. In parole povere, a prescindere da ogni altra considerazione, l’Istituto nazionale per la Storia del movimento di liberazione diventa una specie di agenzia di collocamento per persone con precise connotazioni e garanzia politico-ideologiche.

L’aspetto scandaloso dell’operazione non sta tanto (o soltanto) nella concessione di un congruo stanziamento di 830 miliardi che graverebbe ogni anno sul ministero dei Beni culturali ed andrebbe a finanziare attività di ricerca o di altra natura, quanto meno discutibili e in alcuni casi gestite con estrema disinvoltura (come dimostrano le vicende dell’Istituto della Toscana, di cui Ideazione si è già compiutamente occupata), quanto piuttosto nel fatto che essa finirebbe per sancire il riconoscimento giuridico della vulgata resistenziale come interpretazione ufficiale della storia più recente. Che è poi, mutatis mutandis, quanto avveniva nella Russia staliniana e nei Paesi a regime comunista.

Francesco Perfetti


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1998