Editoriale
DIAMO UN FUTURO ALL'ITALIA
di Antonio Martino

Una vecchia massima della politica estera russa recita: «Tutto ciò che smette di crescere comincia a marcire». La situazione dell’Italia di oggi richiama, sia pure per ragioni diverse, quella massima. Il nostro Paese ha smesso di crescere: la nostra economia, un tempo una delle più vigorose in Europa (in 48 anni, dal 1950 al 1997, abbiamo avuto soltanto due anni in cui il pil reale è diminuito rispetto all’anno precedente: 1975 e 1993), versa in condizioni comatose. Se è vero, infatti, che l’economia italiana è da mezzo secolo in espansione, è altresì vero che il tasso di sviluppo economico è andato rapidamente diminuendo. Dai tassi di crescita medi annui del 6-7% degli anni Cinquanta e Sessanta, attraverso un rispettabile 5,5% persino negli anni Settanta, siamo rapidamente passati ad un tasso medio annuo del 2,9% negli anni Ottanta, e ad uno dell’1,1% degli anni Novanta. Siamo un Paese in via di sottosviluppo.

Secondo i dati dell’Ocse, recentemente riferiti da The Economist (nota 1), l’Italia, che per molti decenni è stata uno dei Paesi più parsimoniosi al mondo, ha drasticamente ridotto la propria propensione al risparmio. Nel 1988 eravamo al primo posto fra i Paesi considerati dall’Ocse quanto a propensione al risparmio delle famiglie, con un significativo 17,3%, nel 1998 siamo scesi al 10,5%. Alla inadeguata formazione di risparmio - con tutti i problemi che essa comporta per l’accumulazione di capitale, gli investimenti, la crescita ed il finanziamento del sistema pensionistico - vanno aggiunte le desolanti cifre sull’occupazione.

Sempre secondo i dati dell’Ocse riferiti da The Economist, fra i sei Paesi maggiormente industrializzati, l’Italia è l’unico in cui il numero degli occupati nel 1997 fosse inferiore (del 3,2%) a quello del 1980! Quanto alla disoccupazione, secondo i dati ufficiali, sono (invano) in cerca di lavoro quasi tre milioni di persone. Pur con tutte le avvertenze del caso - esistenza di lavoro nero, frodi, eccetera - si tratta di un problema economico e sociale di dimensioni paurose, specie per i nostri giovani e per le regioni più deboli.

Né il declino riguarda soltanto i dati macroeconomici. Le cose sono ancora più gravi per quelli demografici: l’Italia, infatti, vanta il dubbio privilegio di avere il più basso tasso di fertilità al mondo (nota 2), e, a partire dal 1992, il numero di nati in un dato anno è diventato pari e poi inferiore al numero di morti (negli anni Sessanta era quasi doppio) (nota 3). Come se non bastasse, siamo anche afflitti dal rapido invecchiamento della popolazione: già oggi gli ultra-sessantenni rappresentano il 22,5% della popolazione totale ma, secondo alcune stime, nel 2020 rappresenteranno il 52% della popolazione compresa fra i 20 ed i 59 anni - l’incidenza più alta in Europa, più che doppia rispetto a quella che prevaleva nel 1960 (nota 4).

La crisi endemica del nostro sistema scolastico, la situazione di potenziale bancarotta del sistema pensionistico, la permanente e disperata stagnazione delle regioni meridionali, il deplorevole stato della pubblica moralità, la paralisi delle istituzioni rappresentative, la crescente burocratizzazione della società e politicizzazione della vita sono tutti indicatori che suggeriscono che l’Italia non ha soltanto smesso di crescere, ma ha anche cominciato a marcire.

Molti di questi problemi, anche se non tutti, hanno cause politiche, sono cioè connessi alla crisi dello Stato. Abbiamo infatti troppo Stato in termini di costo - mai nell’intera storia d’Italia lo Stato era costato tanto - e, al tempo stesso, troppo poco Stato in termini di risultato. Abbiamo uno Stato che assorbe una percentuale di reddito nazionale che non ha precedenti nella nostra storia, ma che fallisce miseramente persino nei suoi compiti fondamentali. Basti pensare alla situazione dell’ordine pubblico - ci sono zone d’Italia in cui lo Stato assente lascia il controllo del territorio alla criminalità organizzata - o della giustizia. La giustizia civile, date le inammissibili lungaggini della giustizia pubblica, è stata in larga misura "privatizzata" col ricorso massiccio a transazioni ed arbitrati. La giustizia penale riesce ad essere contemporaneamente permissiva e liberticida: non ci protegge dai criminali - il 65% degli omicidi ed il 95% dei furti dichiarati restano impuniti - e lascia marcire in carcere molte migliaia di nostri concittadini innocenti, se non altro perché non condannati in via definitiva. Stando così le cose, non stupisce che vada crescendo nel Paese un rifiuto di questo Stato burocratizzato, inefficiente, centralista, sprecone e corrotto, in cui i cittadini non si riconoscono. La crescita esponenziale dello statalismo, della fiscalità, dello spreco e dell’invasione della politica nella nostra vita di tutti i giorni sta spaccando il Paese. Giorno dopo giorno si fa sempre più grave la disperazione dei disoccupati, specie al Sud, e sempre più minacciosa l’esasperazione dei contribuenti, specie al Nord.

La politica ha due scopi, in qualche misura connessi ma che vanno analizzati separatamente: la gestione dell’esistente e la preparazione all’avvenire. I problemi cui si accennava prima non sono nuovi, né inattesi; sono connaturati all’esistente, la conseguenza, prevedibile e prevista, delle politiche seguite negli ultimi decenni che, gonfiando a dismisura la sfera di intervento politico-burocratico, da un lato hanno reso ingestibile il settore pubblico, con il conseguente fallimento dello Stato nei suoi compiti istituzionali, e dall’altro hanno compresso le libertà personali fino al punto di gravemente compromettere o stroncare le forze spontanee che sono da sempre il motore del progresso, della dinamica economica e sociale di tutti i Paesi.

Sotto questo profilo, l’attuale esecutivo rappresenta null’altro che l’ultimo anello di una lunga serie di governi a maggioranza di sinistra che, con la breve parentesi del governo Berlusconi, hanno retto le sorti d’Italia negli ultimi decenni. È, il governo Prodi, il più tipico degli esecutivi della continuità con l’impostazione statalistica ed inefficiente che prevale in Italia da moltissimo tempo.

Vengono in mente le parole di Hayek: «[…] Il conservatorismo è naturalmente incapace di offrire un’alternativa alla direzione verso cui muoviamo. Può riuscire, grazie alla sua resistenza alle tendenze correnti, a rallentare gli sviluppi indesiderabili ma, dal momento che non indica un’altra direzione, non può impedire che continuino» (1960).

L’attuale è un governo conservatore nel senso indicato da Hayek. Sprovvisto di un qualsivoglia progetto politico, incapace di indicare la direzione verso cui muovere, "galleggia", trascinato lungo direzioni non di sua scelta, di volta in volta decise dalle varie componenti della sua eterogenea maggioranza. Si può a ragione utilizzare a proposito del governo Prodi una vecchia immagine: è come una fune, può tirare ma non può spingere. Può con la sua resistenza rallentare sviluppi che considera indesiderabili, ma non può promuoverne di suoi. La sua caratteristica preminente è l’incapacità di assumere, e soprattutto di mantenere, impegni seri per il futuro dell’Italia.

Tutti gli sforzi dell’esecutivo sono volti alla difesa dell’esistente. Diceva Victor Hugo: «Mettete sempre un po’ d’avvenire in ciò che fate. Soltanto - aggiungeva - misurate la dose». Nell’attività del governo Prodi non c’è avvenire, non c’è posto per il cambiamento, c’è solo l’intransigente difesa di quanto l’establishment delle sinistre ha costruito finora, la protezione dell’esistente.

Stando così le cose, appare in tutta la sua evidenza il problema per antonomasia dell’Italia di oggi: occorre dare vita al partito del cambiamento e della libertà che si opponga al blocco della conservazione e dello statalismo attualmente al potere. Non è un’impresa facile ma non è nemmeno impossibile, perché, a mio avviso, esistono tutte le condizioni per realizzarla.

Il punto di partenza per comprendere la situazione mi sembra di una ovvietà assoluta: a meno di non volere ricostituire il vecchio sistema politico, fondato sulla proporzionale e sulla conseguente pluralità di partiti e partitini, senza una maggioranza stabile né una vera opposizione, il nostro sistema politico deve "rassegnarsi" ad avere una maggioranza che governa ed una opposizione che ne controlla l’operato e si prepara a sostituirla quando gli elettori così decideranno. Questo significa che l’"oligopolio differenziato" caratterizzato dalla molteplicità di soggetti politici deve lasciare il posto ad un sistema fondato sulla competizione fra due progetti politici alternativi. Tutto il resto è secondario.

Il passaggio dall’oligopolio al bipolarismo è un fatto rivoluzionario e che richiede un processo temporale potenzialmente lungo. Non è pensabile che un Paese in cui il bipolarismo, ammesso che sia mai esistito, non c’è stato per oltre un secolo possa improvvisamente realizzare una compiuta democrazia competitiva. Ma questo non significa né che il bipolarismo sia - per non meglio precisate ragioni storiche o culturali - inadatto all’Italia, né tanto meno che sia velleitario adoperarsi per realizzarlo. Non dimentichiamo che quasi tutte le difficoltà che il sistema bipolare oggi incontra sono dovute ad ostacoli eliminabili: il 25% di quota proporzionale, l’attribuzione su base proporzionale del finanziamento pubblico, la ripartizione su base egualitaria del tempo in televisione, l’esiguo numero di parlamentari necessario per dare vita a gruppi autonomi, sono tutti elementi che incentivano la sopravvivenza o la creazione di partitini dotati di potere di ricatto.

Una democrazia competitiva, tuttavia, può funzionare solo se alla maggioranza di governo si contrappone un progetto politico alternativo, condiviso da tutta l’opposizione. Oggi, invece, assistiamo ad un processo di disgregazione: i partiti e i movimenti di opposizione, mentre si organizzano al loro interno, sembrano poco interessati a dare vita ad un soggetto politico unitario. Stando così le cose, cosa dovrebbe fare il centro-destra per diventare un soggetto politico unitario, compatto e credibilmente alternativo all’arcipelago delle sinistre? La mia risposta è: non moltissimo, soltanto alcune cose fondamentali.

Anzitutto, è indilazionabile l’identificazione di un programma unico, composto di pochi punti (non più di dieci) che, accettati da tutti, servano ad evidenziare che, al di là delle differenze, esiste un progetto politico dell’opposizione, alternativo a quello delle sinistre. Tale programma dovrebbe, in un secondo momento, venire precisato e definito nei suoi contenuti effettivi. In secondo luogo, per rendere più efficace l’azione dell’opposizione, si dovrebbe dare vita ad un governo ombra, i cui membri informino sistematicamente l’opinione pubblica sulle posizioni dell’opposizione, alternative a quelle del governo. In terzo luogo, si dovrebbe individuare un meccanismo per la selezione dei candidati dell’opposizione alle elezioni politiche che, predeterminato e trasparente, coinvolga fin dall’inizio gli elettori nella scelta dei candidati. Infine, in attesa che maturino le condizioni per la formazione di un gruppo parlamentare unico, è essenziale un forte coordinamento fra i gruppi dell’opposizione. È possibile che su questioni secondarie i partiti che sono oggi all’opposizione votino in modo diverso, ma non sui punti del programma comune. La credibilità dell’opposizione non deve essere compromessa dalla disunione sulle questioni importanti.

Se si risolveranno questi problemi organizzativi (ma di grande importanza) e se le forze oggi all’opposizione sapranno scegliere un programma di radicale cambiamento e sapranno darsi quello che Croce chiamava il "coraggio della libertà", forse l’Italia potrà presto invertire la rotta, fermare la decadenza, risanare le sue ferite. L’alternativa sarebbe impensabile.

Note 

1. 1 agosto 1998, pp. 92-93. (torna al testo)

2. "Why Italians don’t make babies", The Economist, 9 maggio 1998, p. 39. (torna al testo)

3. V. Giovanni Palladino, "Italy: Regional Perspective, Investment Opportunities, Pension Issues", Malta, 18 settembre 1997. La cattolica Italia vanta il dubbio record del più basso numero di figli per donna: 1,26. V. Giuliano Cazzola, Le nuove pensioni degli italiani, Il Mulino/Contemporanea 81, Bologna, 1995, p. 12. È stato calcolato che nel periodo 1995-2000 ci saranno 9,6 nascite e 9,9 morti per 1000 abitanti: v. "Tutti i numeri per capire il mondo", Panorama e The Economist, The Economist Newspapers Ltd., 1996, trad. italiana, 1997, p. 17 e p. 64. (torna al testo)

4. Erasmus, "Dallo spreco alla previdenza", in Il Buongoverno. Restituire lo Stato ai cittadini, a cura di Giuliano Urbani, Vallecchi Editore, Firenze, 1996, p. 321. (torna al testo)

Antonio Martino


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1998