Affari esteri. Mal d'Africa
AFRICA, ADDIO? 
dibattito con Emma Bonino, Giovanni Negri e Sergio Romano
coordinato da Vittorio Mathieu

Mathieu - L’Africa è oggi il terzo polo di riferimento del vasto scacchiere geopolitico mondiale: ai due punti dialettici per eccellenza, la civiltà occidentale dell’Europa e degli Stati Uniti e la civiltà asiatica, si deve infatti aggiungere il Continente Nero. Tenendo in debito conto la crisi che per differenti motivi vivono le prime due civiltà, ci si deve augurare che questo terzo polo, questa nuova società africana, possa contenere elementi di speranza in grado di realizzare una sorta di conciliazione. E in un triangolo ideale dello scenario globale, il terzo vertice, quello africano, non può che venire collocato a in Sud Africa. Hic Rodus, hic salta: in un certo senso il problema si risolve o non si risolve lì, in particolare a Città del Capo.

Romano - Qualsiasi analisi sullo scenario africano deve partire dalla decolonizzazione, vale a dire da un grande fenomeno che ha impegnato gli ultimi cinquant’anni della storia europea. In realtà, alla voce decolonizzazione corrispondono situazioni alquanto diverse. All’inizio del primo dopoguerra essa significò soprattutto la decolonizzazione dell’impero italiano. Ma fu una vera decolonizzazione quella che ci riguardò? Nel caso della Libia fu dato il potere alla gerarchia di una struttura tribale-religiosa, la Sedussia, che era in quel momento rilevante soprattutto in Cirenaica. Nel caso dell’Abissinia - l’Etiopia - fu semplicemente restituita l’indipendenza a uno degli Stati africani di più lunga tradizione. L’Eritrea fu data all’Etiopia, consentendo dunque il passaggio dalla colonizzazione italiana a quella etiopica, tanto è vero che una delle prime guerre post-coloniali fu proprio quella tra Eritrea ed Etiopia. L’unico caso di vera e propria decolonizzazione fu quello della Somalia. Nel 1950 l’Italia ebbe infatti la Somalia in amministrazione fiduciaria dall’Onu per dieci anni con il compito di prepararla all’indipendenza. In realtà, nessuno aveva voglia di decolonizzare: toccò all’impero italiano perché l’Italia aveva perso la guerra, mentre Francia e Gran Bretagna non avevano alcuna intenzione di seguire questo percorso. Fu solo con il fallimento della spedizione anglo-francese a Suez, realizzata nel tentativo di annullare il provvedimento di nazionalizzazione del Canale di Suez promulgato da Nasser in Egitto, che avviene la svolta. Nell’opinione pubblica europea - e segnatamente in quella inglese - tale spedizione suscitò un’ondata di sentimenti anti-colonialisti che convinsero il governo inglese a prendere atto della nuova situazione e a decolonizzare l’impero africano. In dieci anni l’Inghilterra diede l’indipendenza a tutte le sue colonie e lo stesso fu costretto a fare de Gaulle in Francia, pur seguendo strade differenti. «Restituire l’Africa agli africani» è stato il grande slogan degli anni Cinquanta e Sessanta.

Mathieu - Questo processo, tuttavia, non è stato indolore…

Romano - No di certo. Il problema principale fu quello di essersi dimenticati di una distinzione che era stata fatta con molta precisione e coerenza in tutta la pubblicistica colonialista fino alla seconda guerra mondiale. E cioè che di colonie ve ne sono almeno due tipi: le colonie di sfruttamento e quelle di insediamento o di popolamento. Le prime, magari ricche di risorse, sono quelle nelle quali una potenza europea si installa nella convinzione di poterne trarre vantaggio; per questo tipo di colonie è relativamente semplice affrontare la fase della decolonizzazione, anche se, beninteso, nessuno sa come poi i governi locali riusciranno ad organizzare il territorio. Le seconde, le colonie di insediamento o popolamento, presentano invece i problemi più difficili. Lì non è chiaro chi siano gli africani. Si pensi alla Tunisia, all’Algeria, alla Rhodesia, in parte al Kenya e soprattutto al Sud Africa. Qui, nella scia del sentimento di riprovazione verso il colonialismo, ci si è dimenticati che vivevano dei bianchi, i quali non erano particolarmente ricchi, né particolarmente dominatori o sfruttatori e spesso appartenevano a fasce medio-basse della popolazione, come il milione di algerini di origine prevalentemente popolare. Ci si è dimenticati, ad esempio, che le colonie olandesi del Sud Africa erano il risultato di un processo fortemente democratico, espressione di quello stesso dissenso religioso che era all’origine delle colonie nordamericane. In altre parole, se l’America è un fatto di democrazia, perché mai i bianchi del Sud Africa dovrebbero essere trattati diversamente? E perché, dopo aver perdonato i nordamericani per come hanno risolto il loro problema indiano, dovremmo essere così severi nei confronti dei bianchi del Sud Africa? Attenzione, non sto condonando l’apartheid, dico semplicemente che si è voluto frullare tutto nello stesso calderone della decolonizzazione, pretendendo di applicare a situazioni diverse soluzioni uguali. Le conseguenze sono state alcuni grandi traumi, come la guerra d’Algeria, la tragedia della Rhodesia o l’apartheid del Sud Africa.

Mathieu - Pare di capire che il bilancio di questa lunga esperienza della decolonizzazione non sia stato molto positivo.

Romano - Anzi, a me francamente pare un bilancio in gran parte negativo. Laddove vi erano colonie di sfruttamento è stato facile concedere l’indipendenza ma è stato poi molto difficile creare governi che avessero sostegno, consenso locale e che fossero in grado di organizzare una dignitosa amministrazione del territorio. In molti casi si è passati dall’amministrazione coloniale di una potenza europea a una forma di Stato patrimoniale, in cui il proprietario è semplicemente un dignitario, despota o tiranno locale, che si è impossessato di tutto ciò che è sul territorio, facendone un uso personale e autoritario. In alcuni casi le risorse di questi Paesi sono reali, come quelle minerarie: petrolio in Nigeria, rame in Katanga. In altri casi sono risorse geopolitiche, che sono state spendibili sul mercato internazionale soprattutto negli anni della guerra fredda: è stato il caso di Siad Barre, che ha saputo sfruttare abilmente la posizione strategica della Somalia. Dopo la guerra fredda, molte delle risorse geopolitiche non fanno più gola a nessuno e gli Stati che ne usufruivano si sono ritrovati senza più denaro: in questi ultimi anni abbiamo assistito al collasso di molti Stati africani, dalla Somalia alla Sierra Leone, alla Liberia. La Somalia ha rappresentato il caso più grave ed è stato il Paese dove forse si è persa la partita del post-guerra fredda.

Mathieu - Perché proprio in Somalia?

Romano - Perché credo che se noi occidentali fossimo stati in grado di assumerci la responsabilità della restaurazione dell’ordine in una Somalia afflitta da disordini e da una grave guerra civile, probabilmente avremmo dato un segnale a tante altre situazioni analoghe. Penso soprattutto a Ruanda e Burundi. Purtroppo, non siamo riusciti a farlo. Le Nazioni Unite si sono impegnate a fondo, ma come tutti sanno l’Onu è una scatola vuota che va di volta in volta riempita con il potere, il denaro, le armi e la volontà politica dei maggiori Paesi. In una prima fase sembrò che questa volontà ci fosse. Dopo la morte di numerosi soldati americani in un’imboscata e il conseguente disimpegno degli Usa, la scatola dell’Onu cominciò a svuotarsi, tutti gli altri Paesi declinarono l’impegno, precipitando di nuovo la Somalia nel disordine. E così, invece di dare agli altri Stati africani un segnale positivo, ne abbiamo dato uno negativo: tutti hanno capito che in Africa sarebbe potuto accadere di tutto, senza che l’Europa o gli Stati Uniti intervenissero.

Mathieu - Perché questo disimpegno dell’Occidente?

Romano - Forse perché abbiamo avuto paura della parola che, inevitabilmente, sarebbe stata pronunciata nel momento in cui avessimo deciso di fare questa politica: neocolonialismo. Una parola brutta, che suscita diffidenza e reazioni negative e che io, invece, credo debba essere pronunciata sempre più frequentemente.

Bonino - Certo, la decolonizzazione è stata un fenomeno complesso e problematico, sfociato talvolta in paradossi come la definizione dei confini tra i nuovi Stati africani con squadre e righelli. Ma la situazione attuale, così come io la sperimento sul campo, è ancora più drammatica e incandescente. Occorre mettere tutti sull’avviso: ho l’impressione che, dopo due decenni di generico e cupo pessimismo nei confronti del continente africano, ci si stia avviando con altrettanta superficialità verso un’euforia ingiustificata. Esistono alcune eccezioni, come quella del Sud Africa di De Klerk e Mandela, che vanno sostenute e possono rappresentare un esempio per tutti, ma che non possono essere generalizzate. Si sente spesso parlare di Rinascimento africano e c’è addirittura chi pensa che dopo le tigri asiatiche, oggi in verità non troppo in salute, sia giunto il tempo dei leoni africani. Si nota, insomma, una tendenza a sopravvalutare ogni novità economica e politica che sia made in Africa, tendenza che coinvolge anche istituzioni del calibro del Fondo monetario internazionale o della stessa Unione europea. Io, per essere franca, tutto questo "afro-ottimismo" non riesco a condividerlo. Leggiamo i dati. È vero che, se diamo retta - come piace a molti - al tasso di crescita dei 53 Paesi africani, abbiamo dati complessivi del più 5,6 per cento nel 1996, di oltre il 3 per cento nel 1997 e una stima del 5 per cento per il 1998. È vero che il numero di Paesi con crescita negativa è passato da 17 a 6 nell’arco di un decennio (dati Fmi). L’inflazione media è scesa dal 40 al 18 per cento. Ma se abbiamo la pazienza di andare oltre dati così generici, la realtà appare più complessa. Prendiamo il reddito pro capite: per ogni africano esso è fissato a 665 dollari, inferiore di un quarto a quello del 1980; la metà dei 730 milioni di africani vive al di sotto di quella che viene definita "soglia di estrema povertà"; 160 milioni di essi sono analfabeti e metà della popolazione in età scolare non frequenta alcuna scuola. Se parliamo di sviluppo e non solo di elementi macro-economici, questi ultimi dati devono almeno fare da contrappeso a quelli positivi che ho indicato, pena il rischio di sbagliare le analisi.

Mathieu - Alla luce di questi dati, quali sono, dunque, le priorità del continente africano?

Bonino - Credo che innanzitutto l’Africa abbia bisogno di democrazia. E il mio non è ingenuo idealismo. Bisogna superare quel relativismo culturale che ci fa ritenere improponibili per gli africani quei "lussi" civili e politici dell’Occidente. Si dice che a sud dell’Equatore certe istituzioni o certi diritti civili non funzionino. Ma non credo si possa trattare di un problema di temperature se è vero che, ogni volta che gliene si dà l’opportunità, i cittadini del Benin votano come gli svedesi. La verità è che questo relativismo culturale viene tirato in ballo ogni qualvolta ci sono da nascondere episodi di oppressione. Non è vero che gli africani siano troppo poveri per essere democratici, come si sosteneva negli anni Settanta. E credo che i nuovi autocrati illuminati oggi al potere dall’Eritrea al Ruanda, dall’Etiopia all’Uganda, tanto coccolati dalla Banca mondiale o dal Fondo monetario, debbano essere valutati con maggior rigore. Non discuto la cifra morale o le buone intenzioni di ogni singolo leader, ma mi lascia molto diffidente un modello di dittatura dello sviluppo, nel quale c’è sempre spazio per l’uso delle armi - dentro e fuori le frontiere e senza reazioni da parte della comunità internazionale - e invece non c’è mai posto per le istituzioni parlamentari, per la separazione dei poteri, per la trasparenza delle procedure, per una opposizione che svolga la sua funzione di controllo, per una stampa libera, per i diritti umani. Né c’è mai posto per le regole: il nuovo Rinascimento africano si fonda anche sulla sistematica violazione delle convenzioni umanitarie, dalla Convenzione di Ginevra alla Dichiarazione sui diritti dell’uomo. Ecco quello che si accompagna alla crescita economica africana, quello che la mina alla base. Allora, resistiamo agli slogan di moda tipo market oriented and good government. Come nei decenni precedenti non era sufficiente essere anticomunisti per essere dei buoni governanti, oggi non è sufficiente essere market oriented per assicurare uno sviluppo reale al proprio Paese.

Mathieu - E l’Europa come interviene in questo scenario?

Romano - L’Europa è intervenuta, la Commissione ha fatto tanto ma limitandosi al piano degli aiuti umanitari. Non aveva la possibilità di far molto di più ma bisogna ammettere che gli aiuti umanitari non si sono mai tradotti in una politica europea coerente e organica, diretta ad assumersi la responsabilità di questi Paesi.

Bonino - A mio avviso l’Europa dovrebbe assumersi il controllo rigoroso dell’operato dei governi africani. C’è sinora stato l’intervento umanitario europeo nelle maggiori zone di crisi. Ma gli strumenti a disposizione della Commissione non consentono di andare oltre e di trovare soluzioni politiche a conflitti e drammi di natura politica. Noi possiamo solo dare l’aspirina, possiamo salvare delle vite, il che non è poco non solo per il valore in sé della vita umana ma anche perché non credo che si possa costruire un futuro migliore sui cadaveri. Il problema è che, anche da questo versante, l’Europa, quella politica, non c’è. C’è un’Europa economica, una della pesca, una dell’agricoltura, una del mercato unico, ci sarà un’Europa della moneta. Ma quella politica no. In più, nelle votazioni di politica estera, non si vota a maggioranza, si decide solo all’unanimità e vige pure il potere di veto da parte di un Paese. Questo è il contesto nel quale ci muoviamo a Bruxelles. Finché resisterà la volontà di non far nascere l’Europa politica e di non dotarla degli strumenti opportuni, sarà difficile operare in Africa - o altrove - con mezzi che non siano gli aiuti umanitari.

Mathieu - Eppure lo scenario africano, non fosse altro per la sua vicinanza geografica, dovrebbe essere tra le priorità dell’agenda politica europea.

Bonino - Mi pare evidente che l’Africa, per semplici ragioni geopolitiche, rappresenti per l’Europa una zona di interesse reciproco. Ma ribadisco la necessità di dotarci di una politica estera che non sia sempre e solo quella che gli americani decidono per noi. Personalmente non ho nulla - ma proprio nulla - contro gli Stati Uniti d’America, ma non è detto che le loro decisioni siano sempre le migliori per noi. L’assenza dell’Europa, sul piano politico e su quello militare, ha dunque dei costi: noi paghiamo finanziariamente una politica estera di interesse americano. E non mi lamento del "tanto" di America ma del "poco" di Europa.

Mathieu - Concludiamo dalla considerazione di partenza. E quindi da Città del Capo. Giovanni Negri, nel suo saggio Africa addio?, sottolinea la specifità del Sud Africa, la sua natura di mosca bianca nell’intero panorama africano. Quante possibilità vi sono che questo nuovo Stato divenga il modello prima, la locomotiva poi di una rinascita del continente?

Negri - Credo che, se di speranza africana si possa parlare, essa possa risiedere solo a Città del Capo. Sono d’accordo con il commissario Emma Bonino sul fatto che per valutare le vicende africane non ci si debba soffermare solo sui dati della crescita economica, delle belle promesse o delle potenzialità inespresse. Spesso è un problema di diritto. In Sud Africa, quello che fa sperare è proprio la capacità dell’intero Paese di uscire da una fase drammatica della propria storia aggrappandosi all’ancora del diritto. La Commissione per la Verità e la Riconciliazione, della quale si parla abbondantemente nel mio libro, è lo strumento attraverso il quale un’intera società si analizza, si guarda dentro, si racconta nei suoi drammi e nei suoi orrori ma alla fine si ritrova pronta ad affrontare il proprio futuro. La speranza è a Città del Capo perché lì la strada maestra del diritto si è affermata e lì vi è la conferma che senza diritto non c’è vera transizione. Può non essere sufficiente ma la sfida resta aperta. E può essere vinta.

Bonino - Anche io mi auguro che quello possa essere il modello e che vi siano possibilità di successo. Dal mio punto di vista, non posso che temere il fatto che l’assenza di un indirizzo comune europeo ci impedisca di sostenere come meriterebbe questo splendido esperimento sudafricano.

Romano - Quando pensiamo al Sud Africa, dobbiamo renderci conto che la soluzione data alla crisi sudafricana, la soluzione De Klerk-Mandela, è il risultato di un lungo e traumatico processo storico. Questa soluzione non è nata in contraddizione con l’apartheid, ma è stata individuata quando ci si è resi conto che esso non avrebbe funzionato. In altre parole, l’incontro fra queste due grandi personalità è originato dalla constatazione che le due comunità non potevano eliminarsi a vicenda e che dovevano in qualche modo trovare un punto d’incontro. Paradossalmente, questa soluzione è forte perché nasce dall’apartheid, da un conflitto che ha prodotto un accordo capace di durare nel tempo. Ecco perché nutro buone speranze per il Sud Africa. Ma il futuro di questo Paese dipende anche dalla capacità della popolazione nera di rendersi conto che per almeno una o due generazioni potrà esercitare il potere politico ma non quello amministrativo, a causa della mancanza di una classe dirigente. Se i leaders neri saranno così saggi da capire che, per un periodo relativamente lungo dovranno ancora delegare alla comunità bianca una serie di funzioni, il sistema potrà andare avanti. Se il successore di Mandela non sarà in grado di assicurare questo, allora correremo qualche guaio.

Quanto alla politica estera, io sono convinto che il Sud Africa farà una politica estera di tipo imperiale, inevitabilmente conflittuale con i Paesi confinanti. C’è troppa disparità tra la forza del Sud Africa e tutto ciò che c’è intorno. E a questo punto l’Europa deve calibrare bene un investimento di tipo economico che non la coinvolga in responsabilità verso la politica estera sudafricana.

Concluderei con un’ultima osservazione sul terrorismo e sull’Algeria, osservazione irrilevante dal momento che la storia non si fa con i "se": se quel milione di europei non se ne fosse andato, forse oggi avremmo un’Algeria più vicina al Sud Africa. Il dramma del Continente Nero è anche questo.


Torna al sommario


Archivio
1998