Orizzonte recessione
L'ITALIA RISCHIA
UNA CRISI AL QUADRATO
di Arrigo Sadun 

"Gli Stati Uniti non possono pensare di rimanere un’isola di prosperità nel mezzo della recessione mondiale" (Alan Greenspan). Ancor più che a sofisticate analisi economiche, il governatore della Federal Reserve si affida al buon senso per tracciare il futuro corso della politica monetaria degli Stati Uniti. L’ex presidente del Consiglio Prodi, invece, finché era in carica, ha continuato a dichiararsi ottimista sulle prospettive dell’economia italiana: tutto sarebbe andato nel migliore dei modi, se solo i suoi alleati avessero sostenuto compatti l’opera del governo. Paradossalmente, la cautela proviene da un Paese che, dopo aver conseguito il pieno impiego, l’attivo di bilancio ed un tasso d’inflazione praticamente nullo, continua a godere di un apprezzabile tasso di sviluppo. Da noi, invece, l’ottimismo ufficiale è inversamente proporzionale all’effettivo andamento della congiuntura: la timida ripresa manifestatasi nel 1997 si è già arenata, il tasso di disoccupazione è ai massimi storici e l’inflazione, per quanto stabile, è il doppio della media europea.

Non è facile conciliare questi opposti atteggiamenti; ma tra l’arcigno banchiere ed il serafico professore appare più probabile che sia quest’ultimo a peccare di poco realismo, lo stesso ingiustificato ottimismo che l’ha portato a sottovalutare le difficoltà politiche della sua maggioranza. Per tutta l’estate, il governo Prodi ha prospettato il rafforzamento dell’economia, quando invece la fase più dinamica della ripresa si era già esaurita.

Nell’ultimo Dpef si ipotizzava la progressiva accelerazione della crescita economica fino a raggiungere un tasso vicino al 3% nei prossimi 3 anni; in realtà, l’Italia rischia di dover affrontare una recessione globale; esattamente lo scenario che avevamo anticipato in tempi non sospetti proprio nelle pagine di questa rivista (Cfr. Ideazione n. 4/98).

Iniziata come una crisi finanziaria circoscritta ad alcuni Paesi asiatici, l’ondata recessiva ha finito per investire quasi tutti i Paesi emergenti, provocando forti ribassi sui principali mercati finanziari. La minaccia che grava sull’economia mondiale è particolarmente insidiosa, in quanto la crisi ha assunto le caratteristiche di una spirale deflattiva difficilmente contrastabile con le abituali politiche di stabilizzazione suggerite dal Fondo monetario e dalla Banca mondiale. Al contrario delle precedenti recessioni, il pericolo per l’economia mondiale è una carenza di domanda, provocata dalla deflazione e dalla crisi dei principali mercati finanziari. Come vedremo più avanti, c’è il rischio molto concreto che le turbolenze finanziarie finiscano per spingere l’economia Usa verso la recessione.

La caduta dei prezzi delle materie prime (soprattutto di quelle energetiche) è il meccanismo attraverso il quale la crisi si è propagata alla Russia ed agli altri Paesi emergenti. Insistere con le misure restrittive appare sempre meno opportuno, come comincia ad ammettere lo stesso Fondo monetario. In effetti, i Paesi emergenti si trovano nelle condizioni di un automobilista che preme sui freni mentre deve affrontare una salita con il motore che perde colpi: l’esito dei suoi sforzi è facilmente immaginabile. Per rimanere nella metafora, sarebbe innanzitutto necessario rilasciare i freni e - idealmente - ricorrere all’aiuto di un altro veicolo che facesse da traino. Purtroppo, queste soluzioni non sono disponibili nelle circostanze attuali.

Finora, le misure adottate per stabilizzare la crisi finanziaria si sono rivelate poco efficaci, se non addirittura controproducenti, a causa di una serie di circostanze sfavorevoli. Per esempio, le svalutazioni hanno interessato simultaneamente Paesi in concorrenza tra loro, con il risultato che nessuno è riuscito ad ottenere un vantaggio competitivo nell’ambito della regione, mentre tutti sono rimasti penalizzati dal peggioramento delle regioni di scambio con il resto del mondo. Un altro fattore, che ha contribuito ad aggravare la crisi, è stato la debolezza dell’economia giapponese, che non ha fornito sbocchi commerciali e ha ridotto i prestiti. Queste circostanze sono molto diverse da quelle che hanno permesso la ripresa del Messico dopo la crisi del 1995. All’epoca, il boom delle esportazioni, innescato dalle svalutazioni e dalla robusta crescita degli Stati Uniti, permise all’economia messicana di trovare nella domanda estera un efficace sostituto alla caduta di quella interna. La ripresa fu facilitata anche dal rapido ritorno degli investimenti esteri, frutto del rinnovato clima di fiducia. Purtroppo, l’andamento della crisi asiatica ha preso una direzione assai diversa. Invece di un andamento congiunturale a "V" (cioè una rapida caduta ed altrettanto una rapida ripresa, come era stato ipotizzato originariamente), la crisi assume sempre più il profilo di una "L" o quanto meno di una "U" molto allungata. Ciò significa un periodo relativamente lungo di difficoltà, che rischiano di destabilizzare i Paesi emergenti anche sotto il profilo socio-politico.

Lo scenario internazionale

Attualmente circa il 30% dell’economia mondiale (compreso il Giappone) è in recessione. La crisi sta investendo gli altri Paesi emergenti, a cominciare dall’America latina, mentre il tasso di crescita negli Usa ed in altri Paesi anglosassoni è fortemente rallentato. La ripresa continua in alcuni Paesi dell’euro, ma con ritmi insufficienti a risolvere il grave problema dell’occupazione, ed ancor meno a fornire un valido supporto al resto dell’economia mondiale.

Ogni scenario sulle prospettive della congiuntura internazionale deve necessariamente iniziare da una valutazione dell’economia americana, l’unica capace di condizionare in un senso o nell’altro l’andamento del ciclo economico a livello globale. Dalla fine dell’ultima recessione, è stata proprio la robusta crescita degli Stati Uniti a fornire il maggior stimolo al resto dell’economia mondiale. Questo ruolo continuerà ad essere determinante, anche se un certo rallentamento del tasso di crescita degli Usa è inevitabile.

Prima che la crisi asiatica minacciasse la stabilità dei mercati finanziari, la FED si era posta il problema di come moderare la tumultuosa crescita che rischiava di innescare forti pressioni inflazionistiche. Ovviamente, i termini della questione sono stati ribaltati: l’ondata deflattiva ha definitivamente eliminato la necessità di un inasprimento monetario. Al contrario, la FED ha cominciato a ridurre i tassi per aiutare i mercati a superare le crescenti difficoltà. Le previsioni dei principali centri di ricerca economica sul futuro andamento della congiuntura Usa sono rimaste sostanzialmente invariate, anche se sono aumentati i rischi derivanti dalle turbolenze finanziarie.

Fin dallo scoppio della crisi gli analisti avevano messo in luce il fatto che una recessione dei Paesi emergenti, anche se avesse assunto proporzioni molto gravi, non sarebbe stata sufficiente - da sola - a sospingere le economie occidentali in recessione. Questa valutazione, che giustificava l’atteggiamento distaccato degli Usa e dell’Europa nei mesi scorsi, è stata rimessa in discussione dall’aggravarsi delle turbolenze finanziarie. Perché, se è vero che la caduta degli scambi commerciali con i Paesi emergenti non basta ad arrestare la crescita delle principali economie avanzate, un eventuale collasso dei mercati finanziari potrebbe avere conseguenze ben più gravi sulla domanda interna.

Per quanto riguarda gli Stati Uniti, una serie di simulazioni, eseguite utilizzando i modelli econometrici della WEFA, indicano che l’economia americana sarebbe in grado di assorbire anche gli effetti di una nuova ondata di svalutazioni dei Paesi asiatici e l’estensione della crisi all’America latina e ad alcuni Paesi anglosassoni (Canada, Australia, Gran Bretagna). Soltanto un tracollo della Borsa, come quello del 1987, potrebbe incidere sui comportamenti delle imprese e dei consumatori in modo tale da determinare la caduta della domanda. In questo caso, l’economia Usa potrebbe cadere in recessione, subendo una riduzione del pil notevole: -0,8% nel 1999 e -2,8% nel 2000.

L’esercizio econometrico descritto sopra illustra quelli che potrebbero essere gli effetti di uno shock finanziario innescato dalla crisi dei Paesi emergenti. Esso non fornisce alcuna indicazione sulle probabilità che l’economia americana debba effettivamente trovarsi in una nuova recessione.

Tali indicazioni derivano da un altro strumento di analisi sviluppato dalla WEFA, il cosiddetto "Barometro della recessione WEFA". Come risulta evidente dalla fig. n. 3 le probabilità di una recessione sono molto alte (superiori al 50%) quando l’indice scende sotto il livello della linea orizzontale (valore=1). Attualmente, il "Barometro-WEFA" indica che le probabilità di una recessione negli Usa entro i prossimi 18 mesi sono di circa il 30%. Un livello di rischio che non può essere ignorato.

La politica economica dell’Italia

Di fronte al preoccupante aggravarsi della crisi internazionale ed agli evidenti segni di debolezza della domanda interna, la politica economica dell’Italia appare totalmente inadeguata.

Dopo aver raggiunto l’obiettivo di partecipare all’Unione monetaria europea, l’azione del governo Prodi in materia economica si è sfuocata, perdendo vigore, coerenza ed efficacia. Combattuto tra la necessità di perseguire l’opera di risanamento fiscale e di riforme strutturali (in realtà appena abbozzata) e quella di affrontare problemi più immediati, l’esecutivo ha finito per trascurare entrambi gli obiettivi. Certamente, l’acuirsi delle tensioni all’interno della maggioranza ha avuto un effetto deleterio nella condotta della politica economica, che comunque risulta viziata da una visione distorta delle realtà economiche.

Così come si sono sottovalutati i pericoli di una recessione globale, il governo dell’Ulivo è rimasto vittima del suo ottimismo di principio, ignorando i problemi che impediscono all’economia italiana una ripresa duratura. L’esistenza di alcune condizioni base, quali tassi d’interesse relativamente bassi ed inflazione stabile, non è sufficiente ad assicurare la ripresa degli investimenti e dei consumi, se le aziende temono l’introduzione di ulteriori rigidità nel mercato del lavoro e le famiglie si sentono bersagliate dall’inarrestabile aumento della pressione fiscale.

Quindi, una serie di misure inappropriate ha finito per aggravare i problemi economici di fondo. Inoltre, non si è ben compresa la differenza tra propaganda e realtà. Per esempio, la partecipazione dell’Italia all’euro è stata presentata come la soluzione a tutti i nostri problemi economici. In realtà, se l’euro apporta indiscussi vantaggi finanziari, esso pone nuovi problemi per le nostre aziende. Le imprese italiane si chiedono come riusciranno a rimanere competitive, penalizzate da una dinamica dei costi interni più rapida di quella dei nostri vicini e da gravi diseconomie esterne (l’inefficienza delle infrastrutture, rigidità normativa, eccetera). Accanto ai benefici di una moneta stabile vi sono i timori di aver perso la tradizionale scappatoia di manovre sul cambio per superare eventuali momenti difficili.

Oltre al mito dell’euro, la politica economica dell’Italia è rimasta vittima di una insufficiente comprensione dei cambiamenti strutturali che hanno condizionato il comportamento dei consumatori negli ultimi tempi.

Da alcuni anni vi è stata un’inversione nella dinamica dei consumi privati, che crescono ormai a ritmi più bassi del reddito nazionale. Le cause sono, in parte, strutturali - invecchiamento demografico, elevata disoccupazione tra le categorie con la più alta propensione al consumo, eccetera - e quindi difficilmente modificabili nel breve periodo. Inoltre, il comportamento delle famiglie ha risentito in maniera rilevante delle mutate condizioni dei mercati finanziari. Se la riduzione dei tassi d’interesse ha permesso allo Stato di dimezzare il deficit, la perdita delle rendite finanziarie ha ridotto la disponibilità delle famiglie. La recente perdita dei valori mobiliari rischia di aumentare ulteriormente l’"effetto ricchezza", con possibili gravi ripercussioni sui consumi.

La Finanziaria ’99 ignora questi problemi di fondo e cerca di rilanciare l’economia con una serie di provvedimenti contingenti, forse anche utili ad alleviare qualche situazione di disagio sociale particolarmente acuto, ma assolutamente insufficienti a fornire una "strategia per lo sviluppo". Corredata da queste iniziative, la Finanziaria ’99 è stata presentata come il ritorno alla normalità dopo l’emergenza fiscale e gli sforzi necessari per entrare nell’euro. In realtà, visto che i problemi strutturali della finanza pubblica (ed i nodi dell’economia) non sono stati risolti, la scelta del governo significa la rinuncia a colmare i ritardi che ancora ci separano dal resto dell’Europa.

E' proprio questo l’aspetto più criticabile dell’attuale politica economica. Si cerca di accreditare il preteso ritorno alla normalità come un fattore positivo, così come nel passato ci si vantava di essere l’unico tra i Paesi avanzati ad aver ridotto il deficit aumentando le imposte invece che razionalizzando le spese. Il risultato è stato quello di rimandare a tempo indeterminato il vero risanamento delle finanze pubbliche, soffocando l’economia con una pressione fiscale eccessiva. Non è un caso che negli ultimi anni il tasso di crescita dell’Italia sia stato la metà di quello già assai modesto dei nostri partners europei. La decisione di accantonare gli obiettivi delle riforme economiche è una scelta che potrebbe rivelarsi disastrosa, qualora l’Italia fosse costretta ad affrontare una recessione mondiale nei prossimi anni.

Le previsioni sulla progressiva accelerazione dell’attività economica si sono rivelate infondate. E' ormai scontato che il tasso di crescita del 1998 sarà pressoché uguale al già modesto 1,5% dell’anno precedente. Le prospettive per il 1999 sono ancora molto incerte, ma è sempre più probabile che l’anno prossimo riservi amare sorprese, contando su una graduale accelerazione della crescita.

Da tempo, le previsioni WEFA per l’Italia indicano un 1999 ancora più prudente dell’anno in corso.

Secondo il nostro barometro della recessione, anzi, la probabilità che si verifichi una contrazione dell’attività economica non è affatto trascurabile.

In queste circostanze, il primo compito della politica economica sarebbe quello di rafforzare gli anticorpi della recessione, eliminando alcune delle incertezze che gravano sull’attività economica, tra le quali l’accantonamento del progetto sulle 35 ore, un nuovo impulso al rinnovo della concertazione, la conferma di alcuni sgravi fiscali e la restituzione dell’euro-tassa.

La situazione politica italiana rende difficile la rapida adozione anche di questi modesti interventi. Figuriamoci, poi, l’adozione di strategie di risanamento ben più ambiziose. L’Italia si appresta, quindi, ad affrontare il pericolo di una recessione mondiale in condizioni di relativa debolezza strutturale e congiunturale. In mancanza di meglio, si ripongono molto speranze sull’azione di trascinamento dei nostri partners europei: a nostro avviso, ingiustificate, perché anche nel resto d’Europa cominciano ad affiorare serie preoccupazioni sulle prospettive della congiuntura.

Arrigo Sadun


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1998