Élie
Halévy, lo sguardo sul leviatano
HALÉVY, NOSTRO MAESTRO
di Gaetano Quagliariello
Nel 1938 il filosofo
francese Emile Chartier - più noto con il nome di Alain - formulò una
previsione sulla fortuna postuma dell’opera di Élie Halévy, l’amico di
una vita, scomparso l’anno precedente: "Credo che l’opera di Élie
avrà tra cinquant’anni una importanza capitale". Non si trattava di
un giudizio di circostanza né di una profezia scontata. Halévy,
proveniente dagli studi filosofici, aveva consacrato quasi tutta la sua vita
allo studio di due soggetti: la storia dell’Inghilterra del XIX secolo e
l’analisi del movimento socialista e dei suoi sviluppi ideologici. Il
primo filone di studi portò al concepimento di un’ambiziosa Storia del
popolo inglese nel XIX secolo, un’opera in più volumi che si proponeva di
ricostruire l’egemonia dell’Inghilterra nel corso dell’Ottocento e di
scoprirne le radici più profonde. Halévy l’avrebbe lasciata incompiuta a
causa del sopraggiungere improvviso della morte. Gli studi sul socialismo
furono meno organici: restano saggi in apparenza sparsi - alcuni dei quali
raccolti nel volume postumo L’era delle tirannie - e il resoconto dei
corsi che su tale argomento egli svolse per oltre un trentennio presso l’École
Libres des Science Politique di Parigi.
Solo chi conobbe a
fondo Halévy e gli era stato da sempre amico avrebbe potuto, dunque,
avanzare quella previsione. Perché essa presupponeva l’aver capito che
Halévy ebbe un interesse di fondo che unificò argomenti di studio
all’apparenza così distanti: la comprensione del progressivo tramonto
dell’Ottocento - del suo equilibrio geopolitico non meno che dei suoi
costumi e della sua moralità - e il tentativo di interpretare il nuovo
secolo, che egli vide definirsi, non senza inquietudine, sotto i suoi occhi.
L’Inghilterra e il socialismo non rappresentavano altro che le due polarità
di questa rottura epocale. Lo studio della prima gli avrebbe consentito di
scorgere da un angolo visuale privilegiato - quello offerto dalla storia
della nazione che più di ogni altra lo condizionò - i segreti
dell’Ottocento. Il socialismo, invece, rappresentò il centro ordinatore
della sua riflessione intorno al nuovo secolo, riflessione che, a partire
dalla guerra del 1914, avrebbe assorbito quasi per intero la sua attenzione.
Oggi si può affermare
che Alain ha avuto ragione: mentre il secolo declina è più facile scorgere
in Halévy uno dei massimi interpreti del Novecento. Ed è anche più facile
avere nei riguardi della sua opera un approccio critico, che ne sottolinei
l’assoluto valore delle analisi e delle intuizioni ma che, d’altra
parte, metta anche in evidenza le aporie e le incomprensioni alle quali un
così ardito programma di ricerca si è inevitabilmente esposto. Per questo
Ideazione ha deciso di proporre al pubblico italiano questo autore a lungo
dimenticato e la cui conoscenza nel nostro Paese è ancora limitata a un
pugno di specialisti. Lo ha fatto innanzi tutto attraverso la pubblicazione
di L’era delle tirannie: un libro divenuto un classico in tutta Europa ma
che fino ad ora non aveva ancora una traduzione italiana.
Questo libro non
rappresenta solo la raccolta di alcuni saggi, di diversa natura e valore
scientifico, che illuminano sull’influenza che il primo conflitto mondiale
ebbe sul destino del socialismo. Esso, ancor di più, può essere
considerato alla stregua di una vera biografia intellettuale, perché è in
grado di presentare i vari stadi di un percorso intellettuale che non ha
conosciuto preconcetti e non è stato appesantito da bardature ideologiche.
La raccolta si conclude con un breve scritto dal quale deriva il titolo:
L’era delle tirannie. Alla luce dei saggi che lo precedono, esso, più che
il frutto di una brillante intuizione, appare come l’approdo finale di una
riflessione di lungo periodo. Qui Halévy sarebbe giunto alla conclusione
che le concrete dinamiche storiche hanno portato comunismo, fascismo e
nazismo a incarnare tre tipologie di socialismo nazionale. Il loro
itinerario sarebbe stato diverso, così come i retroterra ideologici dai
quali partirono. Ma gli aspetti formali dei regimi ai quali diedero vita e
l’essenza concreta del loro operare avrebbero autorizzato d’accomunarli
nella categoria di "tirannie".
La pubblicazione
dell’edizione italiana del libro è stata l’occasione per lo svolgimento
di un convegno internazionale su Élie Halévy che, organizzato
congiuntamente dalle riviste Ideazione e Commentaire, si è svolto a Roma il
30 e 31 ottobre. Vi hanno preso parte alcuni tra i più accreditati studiosi
dell’opera di Halévy, francesi, inglesi, statunitensi e italiani. La
presenza di Commentaire tra gli organizzatori non è stata una casualità. A
buona ragione la rivista rappresenta l’eredità di quel filone del
liberalismo francese, pragmatico e fortemente condizionato dalla tradizione
anglosassone, della quale Halévy fu espressione. E l’incontro romano ha
inteso riprendere quel solco di riflessione, cercando di approfondirlo e
arricchirlo.
In tal senso il
convegno, accanto a nuovi contributi sugli snodi più consueti
dell’itinerario di Halévy - il liberalismo, l’Inghilterra, la guerra,
il socialismo - ha portato alla luce direzioni di indagine inedite, che
hanno notevolmente arricchito la conoscenza del personaggio. Ed in primo
luogo ha proposto la scoperta del rapporto di Halévy con l’Italia e con
alcuni tra i maggiori intellettuali italiani a lui contemporanei. Inoltre,
esso ha evidenziato alcuni snodi sui quali si dovrà tornare, e che
sottolineano come riscoprire Halévy oggi non significhi solo colmare una
lacuna della cultura italiana. Proviamo, perciò, a riproporre nelle loro
linee essenziali alcune delle tracce di ricerca che il convegno ha
evidenziato.
1) La riscoperta
dell’ambiente e del clima dal quale derivò L’era delle tirannie ha
messo in luce la ricchezza delle analisi che, a partire dagli anni ’20,
proposero la categoria del totalitarismo - in qualche caso attraverso
termini ad esso equivalenti - per designare i regimi sorti in conseguenza
della prima guerra mondiale. Queste riflessioni presentarono a volte una
natura storica, altre volte un’ambizione concettuale. In entrambe le
circostanze si basarono prevalentemente sulla valutazione dei fatti e
dell’evoluzione dei regimi. A volte furono utilizzate politicamente, a
volte no. Ma quasi mai scaturirono dall’esigenza prioritaria di
affermazione ideologica.
2) Questo patrimonio
porta a riflettere su un’ambivalenza originaria della categoria
"totalitarismo", che ha con ogni probabilità condizionato la sua
fortuna postuma. In alcuni analisti - soprattutto quelli maggiormente
impegnati nella lotta politica - il termine ha conosciuto un utilizzo
innanzi tutto etico. Esso è stato usato per accomunare in un’unica
condanna fascismo, nazismo e comunismo. In altri casi, il termine ha
conosciuto un’accezione esclusivamente gnoseologica. Tra questi rientra
anche la costruzione proposta da Halévy per la categoria di
"tirannia". Nella sua analisi, infatti, non vi è il minimo
intento valutativo. Il suo obiettivo non fu quello di condannare alcunché,
né il regime più tirannico gli apparve come il più prossimo al male. Halévy
diede alla sua categoria un significato "idealtipico". Si propose,
cioè, di individuare una forma astratta che gli permettesse di comparare
casi concreti, mettendone in evidenza le similitudini ma anche le diversità.
3) Uno dei pregi
dell’approccio idealtipico è di consentire la condensazione di una mole
di sapere storico, che altrimenti l’interprete riuscirebbe assai
difficilmente a gestire. In tal senso è impossibile non prestare attenzione
alla fase storica nella quale la categoria di totalitarismo con più forza
si propose e nella quale Halévy elaborò la sua analisi sulle tirannie. Ci
si riferisce a quel periodo successivo al 1933 nel quale l’ascesa al
potere di Hitler mise in piena luce le capacità estensive e le mire
revisionistiche dei fascismi. D’altro canto quegli anni - e più
esattamente quelli successivi al 1935 - fecero emergere la volontà
dell’Unione Sovietica di uscire dall’isolamento diplomatico che fino ad
allora aveva osservato e di assicurare al comunismo, a livello mondiale, la
guida dello schieramento antifascista. Questa "svolta", dalla
quale derivò la stagione dei "Fronti popolari", ebbe conseguenze
diverse sugli intellettuali non comunisti, che fino ad allora avevano
condotto in posizione non subordinata la battaglia contro il fascismo.
Alcuni si piegarono alla nuova situazione; altri - tra i quali Halévy - la
ritennero un accresciuto pericolo per la libertà. Giocarono in tal senso
sia considerazioni sulla natura interna del regime sovietico (furono quelli
gli anni delle "grandi purghe"), sia considerazioni d’ordine
internazionale. Alcuni ritennero che quella egemonia potesse rinforzare
un’attitudine al pacifismo e potesse così ancor più fiaccare la volontà
di resistenza delle liberal-democrazie nello scontro finale che andava
preparandosi. Riguardo a questa fase cruciale della storia emerge, perciò,
un intreccio di posizioni e di comportamenti sui quali l’indagine deve
essere portata più in profondità, liberandosi da radicati giudizi.
3) La considerazione
dell’itinerario di pensiero di Halévy porta poi ad una riflessione
finale. Che Halévy fosse un liberale non vi è alcun dubbio. Ma le sue
analisi mettono in luce come per lui il liberalismo fosse un prodotto
residuale della storia, sempre incerto ed impossibile da fissare come
conquista stabile. Inutile racchiuderlo in formule e soluzioni definite.
Inutile cercarne un’affermazione "integrale". Per questa via -
egli ci dice - si sarebbe sempre giunti ad esiti opposti da quelli
intenzionali. È questa, forse, la parte più attuale del messaggio di Halévy.
Quella che dovrebbe consigliare la lettura di questo autore non solo ad una
sparuta schiera di "chierici", ma innanzi tutto a quanti vorranno
tentare di portare, attraverso concrete scelte politiche, un po’ di libertà
in più nella vita di ogni giorno.
S’impone, infine, un
ricordo. Questa traccia di ricerca fu concepita circa due anni fa assieme a
François Furet. In particolare, fino al suo ultimo giorno egli partecipò
al progetto del convegno. Ed è stato anche grazie al suo impegno che questo
lavoro si è potuto iniziare.
Gaetano
Quagliariello |

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