L'Europa dei moderati
LA STRATEGIA
DEL DOPO KOHL

di Pierluigi Mennitti

Con la sconfitta elettorale di Helmut Kohl e della sua coalizione moderata in Germania può dirsi concluso un ciclo quasi ventennale di riscossa liberista e neo-conservatrice, avviato agli albori degli anni Ottanta dal presidente statunitense Ronald Reagan e dal premier inglese Margaret Thatcher, proseguito in Germania da Helmut Kohl e negli stessi Stati Uniti da George Bush, incarnato in Francia da Jacques Chirac, appena accennato in Italia da Silvio Berlusconi. In questi vent’anni le teorie del libero mercato hanno condizionato le scelte politiche anche in Stati "minori", come la Grecia e la Danimarca, la Finlandia e l’Irlanda. Hanno fornito le basi teoriche di nuove coalizioni democratiche di centro-destra nell’America latina (l’Argentina di Menem in primo luogo) e sono state considerate il toccasana per gli Stati dell’Europa orientale fuoriusciti dal lungo inverno del comunismo e dell’economia statalizzata.

La stagione dei moderati - neo-conservatori, liberisti, cattolici liberali e destre democratiche - è stata segnata da una serie di innegabili successi realizzati sull’onda di una "ideologia" dinamica e positiva, che ha accompagnato la modernizzazione delle mature democrazie industriali d’Occidente e ha creato le premesse per la caduta dei regimi comunisti d’Oriente. Il risultato è stato una lunga e travolgente crescita economica e un maggiore e più diffuso benessere per i cittadini.

Riassumendo i caratteri distintivi delle politiche neo-conservatrici, vanno segnalati l’attenzione costante allo sviluppo, lo stimolo fornito all’impresa attraverso una deregolamentazione che la liberasse dai troppi impacci burocratici, la flessibilità del mercato del lavoro, la riduzione degli spazi di intervento statale e il ridimensionamento dei welfare state, diventati mastodontici carrozzoni di inefficienza quando non di spreco clientelare. E sul piano internazionale, nel confronto-scontro con il blocco sovietico e comunista, il distacco crescente tra il benessere dell’Occidente (e i suoi stili di vita liberali e moderni) e la miseria dell’Oriente (con le sue repressioni e le sue illibertà) ha rappresentato il detonatore capace di far esplodere - dieci anni fa - l’intera impalcatura militaresca che imprigionava centinaia di milioni di persone.

Di questa lunga era neo-conservatrice, a livello europeo, restano in piedi alcune esperienze minori ma significative (l’Estonia, la Romania, l’Irlanda) e soprattutto quella spagnola di José Maria Aznar, legata ad una tipica "anomalia mediterranea" che ha visto la Spagna (ma anche l’Italia) tagliate fuori da esperienze liberiste negli anni Ottanta.

Focalizzando l’attenzione sull’Unione europea, proprio gli Stati mediterranei appaiono l’ultimo baluardo del neo-conservatorismo: da un lato, la Spagna, con il suo sempre più stabile governo Aznar; dall’altro, l’Italia con una maggioranza politica di centro-sinistra che, secondo sondaggi d’opinione, non corrisponde alle esigenze della maggioranza dei cittadini e dove la divisione politica tra Polo e Lega non permette all’elettorato moderato di esprimere un governo per il Paese. Spagna e Italia, non a caso, sono state tagliate fuori dalla ventata neo-conservatrice e liberista degli anni Ottanta: la prima ha vissuto una lunga stagione di governo socialista, la seconda una serie di gabinetti di centro-sinistra (politici e tecnici) interrotta solo per otto mesi - nel 1994 - dal governo Berlusconi.

Le nuove parole d’ordine della socialdemocrazia

Oggi che, una dopo l’altra, le grandi nazioni europee hanno abbracciato le soluzioni politiche proposte da una rinnovata socialdemocrazia, l’onda lunga della svolta americana (la vittoria dei democratici di Clinton nel 1992) sembra aver completato la sua marcia. L’Europa in rosa, inatteso scenario di questa fine secolo, si propone come la risposta più adeguata alle ansie e alle paure che pervadono i cittadini del Vecchio Continente: la recessione mondiale, la crisi finanziaria globale, la crescente disoccupazione. Non è detto che le soluzioni proposte siano le più idonee ad affrontare questi problemi, ma l’elettorato le reputa tali e di questo mutato "sentimento popolare" dovranno tenere conto le élites moderate nel reimpostare le loro politiche.

Tanto più che i nuovi vincitori, forti del loro successo, non si accontentano più di realizzare le stesse vituperate politiche dei loro predecessori neo-conservatori, magari addolcite da un po’ di retorica egalitarista e da una maggiore attenzione verso le posizioni più protette dai sistemi di welfare, ma iniziano a proporre le vecchie-nuove teorie della terza via, l’immancabile utopia di ogni socialismo per imbrigliare le forze del mercato attraverso una più decisa presenza dello Stato nell’economia. Dalla proposta delle 35 ore in Francia e in Italia alle pressioni politiche che il nuovo ministro delle Finanze tedesco, Oskar Lafontaine, ha esercitato dopo la vittoria elettorale nei confronti della Bundesbank, gli esempi non mancano. E proprio nella Germania votata alla guida della nuova socialdemocrazia europea prendono vigore le critiche più feroci verso le politiche moderate dell’ultimo ventennio: "Meno Stato è ormai uno slogan del passato?", si chiede il settimanale amburghese Die Zeit, annunciando che, dopo la perdita di credibilità del mercato in seguito alle crisi borsistiche dell’ultimo anno, è forse giunta l’ora della politica.

La babele dei moderati

I tempi cambiano e lo scenario nel quale si muoveranno i leaders moderati europei in cerca di unità politica in vista delle elezioni per il Parlamento di Strasburgo della prossima primavera non è dei più favorevoli. Ma ancora meno confortante è lo stato di salute dei singoli movimenti moderati. Le sconfitte elettorali nazionali hanno aperto una lunga stagione di conflitti interni e di faide e, più che alla riflessione sui motivi degli insuccessi, le classi dirigenti conservatrici sembrano interessate ad eliminarsi a vicenda per conquistare la testa di leaderships sempre più incerte. È il caso della Gran Bretagna, dove il tentativo del giovane pupillo della Thatcher, William Hague, di mettere fine alla guerra intestina nel nome del rifiuto dell’Unione europea si è rivelato un boomerang, capace solo di moltiplicare le liti tra le varie anime di un partito che fu glorioso e che oggi stenta a riorganizzarsi. È anche il caso della Francia, dove la destra gollista e il centro giscardiano sono dilaniati da linee politiche sempre più divergenti - tra di loro e all’interno dei rispettivi raggruppamenti - con i rappresentanti più in vista che si muovono autonomamente alla ricerca di soluzioni che si rivelano sempre di corto respiro rispetto ai grandi temi che agitano il Paese. È adesso anche il caso della Germania, dove i partiti della coalizione moderata, i cristiano democratici orfani di Kohl, i cristiano sociali orfani di Waigel e i liberali orfani del governo, hanno appena avviato una fase di riorganizzazione e di rinnovamento che non si presenta per nulla facile. Per Wolfgang Schäuble ed Edmund Stoiber, rispettivamente nuovi leaders della Cdu e della Csu, si tratterà da un lato di assorbire il rientro nei ranghi del partito dei tanti ministri e viceministri "licenziati" dagli elettori, dall’altro di frenare le legittime aspirazioni dei "giovani selvaggi", i quarantenni che premono per avviare quel rinnovamento della classe dirigente che ritengono ormai indispensabile. Tutto questo cercando di evitare la sindrome cannibalesca che, dopo tanti anni di governo, ha colpito i tories inglesi.

Tra Spagna, Baviera e Lombardia

Il panorama non è dunque tanto roseo per i moderati europei che, nel giro di un paio d’anni, hanno perso i loro uomini di maggior spicco, dalla Thatcher a Major, da Chirac a Kohl. E in più mantengono divisioni profonde che si riflettono negativamente sugli equilibri generali nel Parlamento europeo: il centro cattolico-liberale spagnolo, la destra gollista francese e il centro laico giscardiano, il centro democristiano ed europeista tedesco e i conservatori antieuropeisti inglesi, il nuovo centro-destra italiano di Berlusconi e Fini (alleato in patria ma diviso in Europa) e la galassia post-democristiana di Cossiga, Prodi e Marini, alleata di Kohl a Strasburgo e di D’Alema a Roma. Una babele, appena mitigata dall’ingresso dei rappresentanti di Forza Italia nel Ppe, ben quattro anni dopo il loro ingresso nell’assemblea europea. C’è una crisi di linea politica, un deficit pauroso di politica delle alleanze e c’è anche una crisi di leadership che difficilmente potrà essere colmata in breve tempo. Aznar ha bisogno di crescere sul piano internazionale ed è tuttavia l’uomo politico emergente, abile non solo ad amalgamare le diverse anime del moderatismo spagnolo ma anche ad indicare ai sofferenti colleghi europei una strategia politica (quella dei partiti unici del centro-destra) capace di diluire le differenze e di esaltare le somiglianze.

Un altro scenario da tenere d’occhio per le speranze dei moderati è quello regionale. L’Europa non è solo Bruxelles o Strasburgo e neppure i singoli Stati nazionali e le segreterie centrali dei partiti. Emergono con sempre maggior forza le realtà regionali e in alcune di esse si stanno misurando esperienze e uomini che possono rappresentare un serbatoio al quale attingere per il rinnovamento. Si guarda con attenzione alle realtà della Baviera e della Lombardia (Milano compresa), regioni locomotiva dell’economia continentale, dove amministrazioni moderate, di centro-destra, governano con successo, sperimentando aggregazioni e politiche in grado di garantire prosperità e sviluppo alle popolazioni di quelle terre.

Il ruolo di Helmut Kohl

Da più parti si avanza l’ipotesi che, per superare il gap organizzativo dei moderati europei, sarebbe utile e proficuo affidarsi all’esperienza e al carisma di un disoccupato illustre come l’ex-cancelliere tedesco Helmut Kohl. L’uomo, smaltita la delusione per il voto tedesco (non inatteso e ampiamente previsto dalla sondaggista di famiglia Elisabeth Noelle-Neumann), sarebbe pronto a scendere in campo per tessere le fila di un nuovo grande schieramento europeo alternativo alla sinistra. Questa stessa rivista ha segnalato nel numero precedente, non senza qualche entusiasmo, una simile prospettiva. E i moderati sanno quanto bisogno ci sia di una leadership forte e autorevole. Ma è proprio Kohl l’uomo in grado di assicurarla? Senza voler far le pulci ai monumenti, l’interrogativo si pone con grande attualità, dopo aver analizzato le dinamiche del voto in Germania del 27 settembre e dopo aver studiato le mosse dell’ex-cancelliere nei rapporti con i partiti affini europei.

Nel primo caso, l’analisi del risultato delle elezioni tedesche (e delle motivazioni di voto) ha dimostrato quanto peso abbiano avuto in negativo il "fattore Kohl", la sua campagna elettorale sulla difensiva racchiusa nello slogan Keine Experimente!, l’incapacità riformatrice dimostrata (anche se molto per causa di una ferrea opposizione nella seconda Camera, dominata dalla Spd) nel corso dell’ultimo mandato. L’ex-cancelliere non esce bene dalle urne, non tanto per aver perso quanto per il modo in cui ha perso. Un leader ritenuto non più adeguato a gestire le sorti di un Paese può recuperare autorità e vigore alla guida di un super-Centro europeo?

Nel secondo caso, i rapporti con i partiti europei affini e con quelli italiani in particolare, ci si può agevolmente rifare ad un libro pubblicato in queste settimane dalla nostra casa editrice, L’amico tedesco, scritto da Heinz-Joachim Fischer, il corrispondente romano della Frankfurter Allgemeine Zeitung, che ha seguito l’ex-cancelliere nella sua lunga stagione governativa. Dall’ultimo capitolo, non a caso intitolato "L’Europa dei moderati", emerge quanto la strategia di Kohl sia diventata incerta e attendista nel momento in cui, in Italia, la Democrazia Cristiana ha perduto la propria forza e la propria centralità ed è stata soppiantata dalla nuova alleanza di centro-destra guidata da Berlusconi e Fini.

Il lungo travaglio che Forza Italia ha dovuto seguire prima di essere accolta nel Partito popolare europeo non è stato dovuto soltanto all’interessato ostracismo della componente democristiana italiana, quanto ad una diffidenza di fondo che lo stesso Kohl ha sempre mantenuto nei confronti del nuovo centro-destra italiano. È vero che, alla fine, fu proprio l’ex-cancelliere a dare il via libera definitivo all’intesa, ma esso - ancor oggi - sembra essere stato dettato più dall’opportunismo (i seggi di Forza Italia sono indispensabili per reggere il confronto con i socialisti nel Parlamento) e dalle pressioni dei popolari spagnoli. Fonti vicine a Kohl testimoniano che il politico renano non ha abbandonato l’idea di un ritorno della Democrazia Cristiana sulla scena politica italiana, e che questo ritorno passi attraverso la ricomposizione della diaspora scudocrociata e lo svuotamento progressivo dell’elettorato forzista lo testimoniano le politiche adottate in questi ultimi anni da due grandi amici dell’ex cancelliere: Rocco Buttiglione e Francesco Cossiga.

Anche in questo caso è bene che, almeno, il centro-destra italiano si ponga un interrogativo: può un uomo, tanto nostalgico di un vecchio assetto politico da puntare su partiti che non raccolgono che pochi spiccioli di voti e da sacrificare realtà ben più consistenti della politica italiana, guidare l’unione dei moderati europei? Non si corre il rischio che, per perseguire il difficile progetto della ricostruzione della Dc e dello svuotamento di Forza Italia e An, si perda del tempo utile a rinsaldare le fila dei conservatori europei?

Le elezioni continentali sono fissate per la prossima primavera e spesso le sconfitte politiche sono più il frutto della propria incapacità che dell’abilità degli avversari.

Pierluigi Mennitti


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1998