Editoriale
PRIMA REPUBBLICA
di Domenico Menniti 

Non è vero che Scalfaro abbia agito correttamente affidando a D’Alema l’incarico di formare il nuovo governo. Anzi, questa volta sul piano politico, cioè del rapporto fra cittadini ed istituzioni, il suo comportamento è stato molto più grave di quello che ci impose tre anni fa il governo tecnico presieduto da Dini. Perché allora si consentì di cambiare maggioranza rispetto a quella emersa dalle urne, ma si attribuì all’esecutivo il carattere della provvisorietà insito nella qualificazione "tecnica". Ora non si è soltanto stravolto il risultato delle urne, si è costituita una maggioranza di coalizione vecchia maniera che è estranea allo spirito della riforma elettorale introdotta nel 1993. Basta riflettere con un pizzico di onestà intellettuale per rendersi conto che si è insediato un governo nel quale non c’è un elettore del ’96 che possa riconoscersi. Perché è molto più di un ribaltone parlamentare: è la cancellazione dei passi avanti che gli italiani riuscirono ad imporre alla riluttante classe politica del nostro Paese. Lo scandalo non sta nell’incarico a D’Alema, piuttosto nel fatto ch’egli abbia portato indietro le lancette della storia, imponendo al Paese una vecchia combinazione di potere, che gli eventi degli ultimi anni avevano spazzato via.

Le cronache sono scarne di notizie sugli sforzi compiuti per intendersi sul programma; sono ricche di retroscena sulle difficoltà incontrate dal premier nella scelta dei ministri. La mentalità totalizzante di D’Alema lo ha indotto a concepire una maggioranza che avrebbe dovuto comprendere tutti i disponibili e vulnerabili dalle lusinghe del potere. Si è posto l’obiettivo di ampliarne lo spazio delle adesioni non tanto per assicurarsi un adeguato sostegno parlamentare quanto per restringere l’ambito di agibilità dell’opposizione. Lo ha fatto, in parte anche fallendo, adottando i metodi classici dell’intesa fra democristiani e comunisti, che sanno come contare nei palazzi anche quando sono contro i sentimenti e le aspettative degli elettori. Ma non è detto che i giochi siano chiusi e che la solidarietà dei cosiddetti poteri forti sia sufficiente ad assicurare al governo un lungo percorso: restano, ingombranti come macigni, alcuni peccati dai quali sarà difficile emendarsi. D’Alema, per insediarsi a palazzo Chigi, ha dovuto ordire una congiura ai danni di Prodi e, insieme al professore bolognese, ha mandato a casa l’Ulivo, esaurendone il cammino come progetto politico e culturale. La sinistra esce da questa operazione di palazzo dilaniata: a parte il drappello dei privilegiati che finalmente si sistemano, dirigenti e militanti delle molte formazioni oscillano tra contestazioni e paure. Non c’è più un punto di riferimento e il partito della Quercia, affidato a Veltroni in cambio del silenzio, non ha più una linea politica che non sia la brutale occupazione del potere.

Quanto a Cossiga, per tornare protagonista, ha accettato la condanna a ricostruire quanto aveva demolito. Chi ha condiviso la sua coraggiosa battaglia per rinnovare la politica e riformare le istituzioni non trova ragione di conforto nella promessa che si tratta di una partecipazione temporanea. Anche perché la sensazione è d’essere in presenza di una operazione costruita sulle furbizie di un vecchio centro, peraltro vivo e vitale solo nei giochi delle assemblee ma irrimediabilmente morto nella coscienza degli italiani. Cossiga ha portato in dote a D’Alema eletti, per giunta nelle liste del Polo, non elettori. C’è un deficit di democrazia incolmabile con artifizi dialettici.

La contrapposizione che ora si profila non è fra destra e sinistra intese nella loro interpretazione tradizionale: è fra chi vuole portare a compimento positivo la transizione italiana e chi tenta di recuperare il vecchio sistema. Il quadro degli schieramenti è tutt’altro che definito perché eventi così gravi sconvolgono le appartenenze. Per parte nostra, restiamo coerenti alla ragione per la quale questa rivista è nata. Oltre quattro anni fa, quando il percorso del cambiamento apparve subito impervio e noi ci impegnammo a renderlo praticabile.

Domenico Menniti


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1998