Ai
confini del Mezzogiorno
C'ERA UNA VOLTA
IL "PRIMO SUD"
di Luciano Lanna
Il Mezzogiorno si
restringe e il suo confine settentrionale si sposta sempre più a sud.
All’iniziale collocazione storica dell’Abruzzo e allo scivolamento, nei
decenni scorsi, del baricentro del basso Lazio verso meridione è ormai
subentrato il deciso spostamento di questi territori verso la nuova area
propulsiva del Centro-Italia. In anticipo sui tempi, del resto,
l’economista giapponese Kenichi Ohmae ci aveva già avvertito del
superamento delle vecchie unità politico-amministrative, conseguente alle
nuove dinamiche economiche: "Tutti noi, managers e politici allo stesso
modo, dobbiamo guardare una volta per tutte la realtà, anche se difficile e
scomoda: la vecchia cartografia - ammoniva - non funziona più. Ormai non è
altro che un’illusione". Alle frontiere storiche e alle unità
geografico-culturali si sostituiscono nuove polarizzazioni economiche, dai
confini orografici di separazione si passa al ruolo degli assi di
collegamento.
È recente la notizia
che le regioni del Centro - tra di esse, a pieno titolo, l’Abruzzo - hanno
istituito una sede comune di rappresentanza a Bruxelles. E si tratta solo
dell’ultima tappa di un percorso di consapevolezza geo-economica.
Nell’aprile del 1997, infatti, è stato sottoscritto un documento comune
dei presidenti delle cinque regioni del Centro. Tra i punti fermi, la
consapevolezza che i loro territori sono ormai "un’area che presenta
una peculiare configurazione, con comuni caratteristiche culturali,
economiche e geografiche che la differenziano da altre aree del Paese".
Nello stesso periodo, il Cnel identificava nel Centro-Italia "uno dei
grandi sistemi nazionali ed europei, dove opera, nelle forme più organiche
e coerenti, il "modello italiano di sviluppo": Toscana, Marche,
Umbria, Lazio e, ormai, anche l’Abruzzo non godono di agevolazioni o
incentivi come è avvenuto per il Mezzogiorno, ma allo stesso tempo hanno
sfruttato la positiva contiguità con i mercati e con le aree più
sviluppate europee come il Nord-Est ed il Nord-Ovest".
La macro-regione del
Centro
Le cinque regioni del
Centro, pur nelle loro differenze e specificità, costituiscono quindi
un’unica area macro-regionale, una realtà economica e sociale che si è
sovrapposta alle precedenti aggregazioni politico-amministrative. È un
fenomeno che appare come "rivoluzionario", soprattutto se si
osserva quanto è accaduto alle "frontiere meridionali" di questa
nuova area, in Abruzzo e in Ciociaria, le zone "ai confini del
Mezzogiorno", lì dove si è verificata una eterogenesi dei fini che ha
del tutto invertito la direzione del vettore di attrazione territoriale. Il
primo dato che balza agli occhi dell’osservatore è, infatti, il
ribaltamento di impostazione rispetto agli anni Settanta, quando Abruzzo e
Ciociaria beneficiavano degli interventi straordinari e tendevano a venire
inglobate nel Meridione, e quando la frontiera tra Nord e Sud era delineata
non solo dalla storia, ma anche dai nuovi confini artificiali disegnati
dalla Cassa per il Mezzogiorno e dall’inclusione tra le aree depresse
stabilite dai quadri comunitari di sostegno.
Nella logica di
operare sulle aree del sottosviluppo, con la riforma del 1988 e la
regolamentazione del 1993, le risorse di questi fondi strutturali sono
state, infatti, destinate al perseguimento di cinque precisi obiettivi. Il
più importante, l’Obiettivo 1, che assorbe il 70 per cento delle risorse
dei fondi strutturali, è finalizzato alla crescita ed all’adeguamento
strutturale delle regioni considerate "in ritardo di sviluppo". In
pratica, fino all’aprile del ’93, la politica comunitaria di coesione
economica e sociale e la politica regionale italiana si integravano
nell’intervento straordinario per il Mezzogiorno.
Oggi, in parte anche
per il contributo di quegli interventi, l’Abruzzo è ormai fuori
dall’Obiettivo 1: accomunata al Mezzogiorno da secoli di storia, la
regione ha compiuto nel corso di un ventennio uno sviluppo davvero
prodigioso, terminando una lunga rincorsa verso una nuova collocazione
geo-economica, ormai anche formalmente e ufficialmente sancita
dall’ingresso nel novero di un gruppo di regioni alle quale finora
guardava solo come esempi da imitare. Da zona di confine settentrionale del
Sud, da regione inevitabilmente schiacciata nel sistema del Mezzogiorno, si
presenta oggi come area inserita, secondo la definizione di Giuseppe De
Rita, in quella sorta di "Nord-Est allargato" rappresentato in
prospettiva dal nuovo "centro propulsore dell’economia
italiana".
E per molti versi
analoga si presenta la situazione del Lazio. Qui la riduzione degli
squilibri territoriali del secondo dopoguerra è stata consentita
soprattutto per effetto dell’inserimento delle aree meridionali della
Regione nei piani d’intervento straordinario: ex Cassa per il Mezzogiorno
e legge n. 64 del 1986. Alla fine degli anni Settanta, l’intero sistema
regionale del Lazio, per la prima volta nella storia unitaria, assumeva un
carattere policentrico e dinamico, per effetto diretto delle localizzazioni
industriali favorite dalla Casmez. Uno sguardo ai suoi principali
insediamenti economici e produttivi, oltre all’area metropolitana romana
(che comprende la città di Roma, Pomezia, i Castelli e la zona
Tiburtino-Nomentana), rivela infatti due principali e significative aree
"meridionali". Quella pontina, che si addensa lungo l’asse
costiero da Pomezia fino al confine sud-occidentale della regione; e
l’altra, che dal polo industriale di Colleferro si estende lungo tutta la
Ciociaria, attraverso la Valle del Sacco e del Liri, fino alla Valle di
Comino ai confini dell’Abruzzo, con due grosse agglomerazioni nel
Frusinate e nella zona di Cassino. La fuoriuscita, negli anni scorsi, di
queste aree laziali dal novero delle aree assistite e quella recente
dell’Abruzzo dall’Obiettivo 1 rappresentano la chiave di volta
dell’inversione di tendenza dalla quale siamo partiti. È, infatti, nel
passaggio che porta dallo "sviluppo assistito" all’incognita del
mercato globale che si individua la ragione dello spostamento dei baricentri
di attrazione. I dati parlano chiaro. Un recente studio realizzato in
Francia dall’Insee, Istituto nazionale di statistica e di studi economici,
ha stilato la classifica delle 196 regioni dell’Unione europea secondo il
pil prodotto. E, a sorpresa, il Lazio si piazza al settimo posto con 216mila
miliardi di pil, dopo l’Ile de France, la Lombardia, la Grande Londra, e
tre regioni tedesche dell’area renana. Secondo un’altra classifica,
inoltre, il Lazio sarebbe la quinta regione italiana ad attrarre
investimenti. Più che naturale il contributo dell’area ciociara a questo
"miracolo economico" laziale, come quello della contiguità -
proprio sul versante ciociaro - con il mezzo miracolo economico abruzzese.
Da un certo punto di vista, è come se alla vecchia gravitazione del Lazio
meridionale sulla Campania si fosse ormai sostituito un asse
Roma-L’Aquila-Frosinone, a sua volta calamitato dal Centro-Italia.
Un’ulteriore conferma, questa, della tesi di Ohmae sulla strategicità dei
nuovi bacini territoriali economico-finanziari, i quali costituiscono oggi
motivo d’investimento, di interessi, di espansione, e dunque si
configurano come le unità vitali del "mondo globalizzato".
Il baricentro
appenninico
L’"emersione"
di quest’area centrale è sicuramente un dato significativo col quale
tutto il sistema-Italia deve fare i conti: si pone, infatti, per questa
"terra di mezzo" un problema che, prima ancora di essere
economico, è geopolitico. Ci si trova, infatti, di fronte ad un centro di
gravità innovativo che destabilizza lo schema tradizionale delle due
Italie. La vecchia contrapposizione tra Nord e Sud per spiegare la
"questione italiana" appare, infatti, ormai datata. La realtà è
più complessa, più esteso l’orizzonte di riferimento.
Un’opportuna chiave
interpretativa ce l’ha offerta indirettamente l’economista Geminello
Alvi quando, qualche tempo fa, invitava provocatoriamente ad abbandonare la
vecchia e consunta divisione di tipo orizzontale tra un’Italia
settentrionale e un’Italia meridionale, per sostituirla con la più
efficace divisione verticale tra altre due Italie: quella Adriatica e quella
Tirrenica. Da una parte il Paese burocratico e istituzionale delle capitali
storiche - lungo la linea Torino, Firenze, Roma, Napoli, Palermo -, quello
delle classi dirigenti egemoni, con una forte vocazione terrestre,
statalista, di intreccio tra politica ed economia; dall’altro lato,
l’Italia adriatica, quella del Levante, dei viaggiatori, dei navigatori,
dei mercanti, del primato dell’imprenditorialità sulla politica. Alvi
collegava a quest’area il miracolo del Nord-Est, lo sviluppo delle Marche,
l’espansione pugliese. E c’era sicuramente, in questa metafora delle due
Italie, qualcosa di reale, qualcosa che può anche spiegare il senso e la
storia di un’Italia che da Venezia a Brindisi, da Marco Polo in poi, ha
sempre privilegiato il traffico e lo scambio verso l’Est e il Centro
Europa, o verso l’Asia, e che ha sempre rappresentato un’area dinamica;
così come può spiegare l’introversione politico-istituzionale di buona
parte della classe dirigente italiana. Lo schema di Geminello Alvi deve, però,
fare ora i conti con l’emergere della terza Italia, quella che si sta
lasciando alle spalle l’assistenzialismo feudale e va alla ricerca di un
nuovo modello di sviluppo, più legato al mercato ed alle energie
imprenditoriali.
Non si tratta tanto di
evocare un’astratta Centronia o Centralia, come pure da qualche parte è
stato ventilato, ma di considerare come quell’Appennino, che è stato per
tanto tempo la barriera di separazione tra le due Italie, adesso sia
diventato non più solo l’elemento fisico e tangibile che unisce il Centro
della penisola. La direttrice appenninica rappresenta infatti, come quella
adriatica e quella tirrenica, un analogo fattore di civiltà, di sviluppo,
di espansione per vivere il mercato globale. Non è un caso che storicamente
gli assi trasversali economici attraverso l’Appennino siano stati
l’antidoto all’immobilismo, alle chiusura localistiche, alla stessa
secessione. Ogni qualvolta l’Appennino da barriera divisoria delle due
Italie si è trasformato in spina dorsale percorribile, lo sviluppo è stato
conseguente. Le Marche cominciarono a decollare quando a fine Ottocento la
ferrovia superò la barriera dei monti; e lo sviluppo dell’Abruzzo,
successivo a quello dell’area Nord-adriatica, è dipeso in gran parte
dalle autostrade. La crescita complessiva del Centro-Italia deve quindi
molto alla valorizzazione della dorsale appenninica, a partire dalle
infrastrutture viarie trasversali, che assumono rinnovato vigore in un nuovo
quadro d’insieme: la Civitavecchia-Orte, la Salaria per il collegamento
che essa crea tra Lazio, Umbria e Marche, la Frosinone-Sora, la
Cassino-Venafro in direzione dell’Abruzzo.
È significativo che
uno dei primi risultati concreti dell’intesa tra le cinque regioni del
Centro sia l’avvio del patto territoriale denominato Appennini Parco
d’Europa (APE). Il patto, che è l’unico tra quelli presentati
dall’Italia alla Ue per il sostegno finanziario, assume una forte valenza
simbolica e ha come finalità la valorizzazione delle risorse ambientali,
agricole, culturali e turistiche. In questa chiave va anche ricordato il
progetto presentato da Marche, Abruzzo e Molise per migliorare il sistema
infrastrutturale ed attivare interventi di sostegno ai sistemi produttivi.
Sull’onda
dell’emergenza settentrionale, negli anni scorsi si è molto parlato di
macro-regioni. Il Centro-Italia ne è una manifestazione concreta e
tangibile, tesa a dare visibilità e peso economico ad una parte del Paese
che rischiava di subire un sostanziale oscuramento nell’attenzione
generale, schiacciata com’è tra il Nord "padano", che con le
tensioni secessionistiche sembra aver monopolizzato la scena politica
nazionale, e un Mezzogiorno che, sia pure esaurita la lunga stagione
dell’intervento straordinario, continua a rappresentare per il Paese una
questione in gran parte irrisolta.
La mega-regione del
Centro esprime oggi in modo paradigmatico quel singolare modello di
industrializzazione diffusa che ha dato un contributo decisivo alla crescita
economica della società italiana nel suo insieme, e che ha consentito -
soprattutto nell’Italia centrale - lo sviluppo di una nuova fisionomia
industriale, in grado di sostituire in modo quasi indolore la preesistente
fisionomia agricola. Non a caso, nel nostro Paese molti distretti
industriali, anche alcuni tra i più importanti, si trovano in questa zona,
costituendone il principale motore economico. Il problema per le aree
territoriali del Centro diventa, allora, quello di come valorizzare
ulteriormente questo "spazio economico" comune, dove gli elementi
di forza non si limitano alla presenza di diverse realtà distrettuali, ma
si estendono al modello degli insediamenti, all’estensione del patrimonio
storico e culturale, e, più in generale, ad una qualità della vita che in
quest’area raggiunge livelli superiori alla maggior parte delle province
italiane, anche quando si presentano come economicamente più avanzate. Va,
infatti, registrato che sinora il consistente patrimonio del Centro ha visto
realizzate solo in parte le potenzialità di questa area, che attualmente
rappresenta il 23 per cento del prodotto interno lordo e il 20 per cento di
quello della produzione industriale. Se guardiamo ai dati della Relazione
generale sulla situazione economica del Paese, vediamo che le regioni del
Centro-Italia hanno confermato il loro dinamismo economico, contribuendo
all’economia nazionale con un incremento del pil compreso tra lo 0,9 e il
2,5 per cento, a fronte di un dato medio nazionale dello 0,7.
Lo stesso processo di
riforma dei fondi strutturali europei, ormai imminente, dovrà probabilmente
corrispondere ad una programmazione che travalichi i confini delle singole
regioni, consentendo così di candidare l’insieme dell’Italia centrale
alla fruizione dei finanziamenti comunitari secondo un modello diverso da
quello attuale. In futuro, il Centro-Italia avrà sempre più
un’importante funzione di cerniera, da svolgere tra il Nord e il Sud del
Paese e, sul piano dell’Unione, tra l’Europa continentale e i Paesi del
Mediterraneo. Come ha sostenuto Giuseppe De Rita, "è questa, in fondo,
la sfida di quest’area. La sfida di essere non una zona di
attraversamento, ma una zona coesa in orizzontale, che mette in connessione
Nord e Sud d’Italia, Europa e Mediterraneo. Questo è il futuro
dell’Italia centrale, che tra le grandi aree del Paese è quella rimasta
forse più nascosta, ma che oggi ha le chances maggiori di protagonismo
economico e politico, proprio per due ragioni: svolge un ruolo di tessuto
orizzontale, ma rappresenta anche un crocevia di sviluppo".
Nelle terre di
frontiera: Abruzzo e Ciociaria
In questo scenario
complessivo, appare estremamente significativo analizzare la
"situazione" delle zone che si sono sganciate dall’attrazione
meridionale e gravitano ora a pieno titolo in questa macro-regione centrale.
È quanto tentano di fotografare le inchieste che seguono, dedicate
specificatamente al modello di sviluppo della Ciociaria e al "miracolo
economico" abruzzese. È infatti in queste due aree, l’una terra di
confine tra il Regno delle Due Sicilie e lo Stato pontificio, l’altra a
pieno titolo nel "primo Sud" ma con lo sguardo rivolto
all’Adriatico, che si è delineato un modello economico particolare, che
trova le sue radici storico-politiche nelle politiche assistenziali targate
Dc, nelle due varianti andreottiana e gaspariana. Qui i soldi pubblici hanno
creato ricchezza, investimenti, produzione, occupazione. È una differenza
fondamentale rispetto alle regioni del Mezzogiorno incancrenite dalla
criminalità organizzata. In Sicilia, Calabria e Campania
l’assistenzialismo si è tradotto in sprechi, degrado, cattedrali nel
deserto, e ha finito per finanziare, a volte, la stessa attività mafiosa.
Queste aree stanno
comunque ancora vivendo una delicata fase di passaggio. Se, da un lato,
sembrano avere le potenzialità per sviluppare un’imprenditoria diffusa,
caratterizzata da piccole aziende agili e veloci, in grado di produrre anche
un certo export; dall’altro, ancora subiscono alcuni mali storici del
Mezzogiorno italiano: poli industriali in crisi, residui di
assistenzialismo, mancanza di investimenti, disoccupazione, sistemi bancari
inadeguati, infrastrutture ancora carenti. Insomma: pur attratte da una
nuova spinta che le aggrega al Centro, queste aree ancora oscillano. La
stessa frontiera della criminalità può ancora espandersi nel Lazio
meridionale, vicino alla Campania, al punto che non si esclude una lenta, ma
profonda, infiltrazione della camorra, soprattutto nell’area della
Ciociaria che ruota intorno a Cassino.
La scommessa di queste
terre è quindi forte, soprattutto sul fronte della capacità di passare
dalla fase del piccolo e medio commercio, la maggior parte delle volte a
carattere familiare, a quella imprenditoriale sul modello diffuso nel
Nord-Est. Le nostre inchieste tentano di capire se questo passaggio potrà
avvenire anche grazie al modello "andreottiano" e
"gaspariano" o malgrado questi modelli. O se, invece, lo sviluppo
completo di queste aree richiede un salto di qualità in grado di svincolare
dalle sirene assistenziali lo spirito imprenditoriale di queste terre.
L’Italia centrale appenninica avanza, spinta dalla nuova locomotiva
abruzzese, con le sue industrie ancora legate alla tradizione artigianale. E
l’esempio può essere quello dei pastifici De Cecco e Del Verde. Avanza,
anche se con tanti problemi da risolvere, con la Ciociaria di Antonio Fazio
e di sir Charles Forte. E così, in una chiave simbolica, si può dire che
sta al lupo della Ciociaria e all’orso marsicano d’Abruzzo fornire il
loro contributo dinamico dall’avamposto dei confini del Mezzogiorno.
Luciano
Lanna |

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