L'Europa dei moderati
L'ANOMALIA ITALIANA

di Stefano Folli

L’accordo tra D’Alema e Cossiga ha modificato in fretta la fisionomia del quadro politico. Più in fretta di quanto non fosse ragionevole prevedere e in termini tali da costituire un azzardo rilevante per entrambi i contraenti del patto. Si potrebbe dire che il capo del Pds e l’ex presidente della Repubblica hanno tentato di dar vita a una piccola Grosse Koalition. C’è un richiamo costante, soprattutto da parte di Cossiga ma anche nelle parole di D’Alema, allo scenario europeo. Si vuole suggerire l’idea che l’Italia debba passare oggi attraverso la fase già conosciuta dalla Germania quasi trent’anni fa: un periodo di collaborazione tra popolari e socialisti, in vista di una successiva e stabile alternanza tra un centro-sinistra e un centro-destra entrambi moderati.

Il paradosso di questo schema è evidente. Cossiga, di cui tutto si può dire tranne che non abbia immaginazione politica, parla e si comporta come se rappresentasse l’intero arco del mondo moderato italiano. Di qui la definizione del suo piano politico come di una "piccola grande coalizione". Dove l’aggettivo "grande" si riferisce alle ambizioni; e l’aggettivo "piccola" ricorda il fatto che tutto il Polo di Berlusconi e Fini resta fuori dall’aggregazione. Avendo in un primo tempo evocato le "larghe intese", sullo sfondo di un governo istituzionale, l’ex presidente e il suo gruppo hanno poi scelto l’alleanza con il Pds, convinti di ripetere in Italia l’esperienza tedesca. Un centro-sinistra forte e "d’emergenza": due anni di governo per risollevare l’economia e fare qualche riforma, magari solo la più urgente di tutte, quella elettorale.

Dov’è il punto debole di questo progetto? Naturalmente nel fatto che la Grosse Koalition all’italiana non esiste se non sul piano di una fantasia intellettuale. La situazione tedesca della fine degli anni Sessanta era del tutto diversa. Allora, il patto di governo fu sottoscritto da due partiti che rappresentavano la grande maggioranza della società tedesca. Da una parte, un partito popolare forte dell’eredità di Adenauer e ben radicato in un blocco sociale imponente. Dall’altra, un partito socialdemocratico che, avendo tagliato i legami con il marxismo, cercava la via per legittimarsi come forza di governo. Nel caso italiano di oggi è riconoscibile soltanto la seconda metà dell’equazione. Il Pds di D’Alema è, in effetti, paragonabile a grandi linee alla socialdemocrazia di Brandt. Si tratta di una forza che vuole visibilità e non accetta più di governare attraverso filtri e mascheramenti. Del resto, l’esperienza dell’Ulivo nella versione Prodi è venuta meno anche perché non riusciva più a dominare il dualismo ormai incontenibile tra il premier di diritto e il premier di fatto.

S’intende che tutto questo non esclude un giudizio negativo sul modo attraverso cui D’Alema è arrivato a palazzo Chigi. Resta il sapore di una manovra di palazzo, la sensazione di un passo indotto dalla disperazione, ossia dal progressivo sbandamento del quadro politico. D’Alema ha accelerato la sua marcia di avvicinamento al potere mosso da uno stato di necessità. E tuttavia c’è una logica nel suo comportamento e nei suoi progetti: fare del Pds la versione italiana dei nuovi "socialismi" che governano l’Europa. Si capirà poi a quale dei diversi modelli egli intende ispirarsi: Blair, Jospin o Schröder? Ma è facile prevedere che tenderà a miscelare in forme del tutto pragmatiche l’esperienza dei tre.

La questione di fondo è un’altra. Il partner moderato di questa "piccola grande coalizione" non è la Cdu tedesca, bensì il partitino di Cossiga, con i suoi trenta deputati transfughi dal Polo. A voler essere generosi, si deve aggiungere al conto il Partito popolare di Marini e De Mita, che vale intorno al 4-5 per cento nei sondaggi (con l’incognita, però, della sinistra interna); nonché il gruppo di Rinnovamento italiano, le cui radici nel Paese sembrano sempre più esili; e qualche formazione laica e liberale di grandi tradizioni, ma oggi di scarsa o minima presa elettorale. Nel complesso, l’area moderata di cui Cossiga si dice interprete e che egli ha portato all’intesa storica con il Pds, rappresenta meno del 10 per cento del corpo elettorale, anche se alla Camera è ben rappresentata da oltre cento deputati.

L’interrogativo è, dunque, il seguente: si può fare un centro-sinistra senza il centro? O per essere più precisi: può avere un futuro un centro-sinistra in cui la componente di sinistra è forte e ormai ben visibile con il suo leader alla guida dell’esecutivo; e, viceversa, il centro appare troppo esile sul piano della rappresentatività sociale, visto che il mondo moderato italiano si riconosce, stando ai numeri, nelle posizioni del Polo piuttosto che in quelle dell’ex capo dello Stato? È qui il nodo di fondo del rebus italiano. Ed è qui che interviene la scommessa europea.

La partita in corso tra Berlusconi e Cossiga per la rappresentanza dei ceti moderati, o per meglio dire la partita a quattro D’Alema-Cossiga-Berlusconi-Fini, si trasferisce da oggi definitivamente su scala continentale. E lì si deciderà. Sulla base di semplici elementi di fatto. Il ponte lanciato ormai da mesi da Berlusconi verso i popolari di Kohl e di Aznar è stata una mossa felice, soprattutto con il senno del poi. Solo l’Europa, a questo punto, può garantire Forza Italia e Alleanza nazionale rispetto alla progressiva opera di delegittimazione che il nuovo quadro politico perseguirà ai loro danni. È chiaro, infatti, che quando Cossiga parla come membro moderato della Grosse Koalition egli sottintende che il Polo non rappresenta più quegli stessi ceti moderati. Il capo dell’Udr lancia un duplice messaggio: in Italia offre un tetto a quanti vogliono abbandonare il centro-destra attratti dalla prospettiva di rafforzare la gamba "centrista" della nuova coalizione. E si può star certi che D’Alema favorirà l’operazione perché ha il medesimo interesse ad accreditarsi (direttamente o tramite l’opera di Cossiga) nell’Italia dell’economia, della finanza, delle grandi professioni.

Sul piano europeo l’ex presidente della Repubblica sta invece tentando di far capire a Kohl che è sbagliato puntare su Berlusconi. Fino a ieri la scelta aveva un senso perché i popolari di Marini erano troppo deboli; da oggi conviene avere lui, Cossiga, come interlocutore nel progetto di cui sopra. L’operazione è rischiosa (perché i numeri sono quelli che sono), ma può avere successo se riesce a dimostrare che il Polo si va estremizzando, che è fuori dal gioco politico, che non riesce più a farsi capire dall’Italia moderata. Se alcuni nomi di richiamo abbandonano il centro-destra nel momento in cui nasce il nuovo equilibrio politico, questo accredita il disegno di Cossiga. Come pure lo aiuterà la sovraesposizione mediatica di cui sicuramente l’ex capo dello Stato beneficerà nei prossimi mesi.

Il punto debole è che i popolari in Europa sono alternativi alla sinistra e ancor più lo saranno in vista delle elezioni del prossimo giugno. Questa è la carta debole in mano a Cossiga ed è l’unico asso di cui dispongono Berlusconi e Fini. Tutto quello che accadrà in Italia, da oggi fino alla prossima primavera, sarà finalizzato alle elezioni per il Parlamento europeo persino più che alle manovre per il nuovo capo dello Stato. Nei mesi a venire l’Europa non potrà non essere il grande palcoscenico sul quale gli esponenti del Polo dovranno trovare la credibilità e lo spazio politico che l’evolversi della situazione italiana tenderà a sottrarre loro.

Le ragioni dell’opposizione in Italia dovranno essere correlate sempre più alle ragioni delle forze moderate in quei Paesi, come la Germania e la Francia, in cui il centro-destra è all’opposizione, o in cui, come in Spagna, sono al governo. Questo pone a Berlusconi e Fini, ma anche al partito cattolico di Casini, il problema di elaborare una proposta politica assai più complessa di quanto non abbiano saputo fare fino a ieri. Prima del governo D’Alema-Cossiga era abbastanza facile irridere la debolezza dei moderati dell’Ulivo, prigionieri di un quadro in cui l’ultima parola l’aveva Bertinotti. Sul piano propagandistico la polemica della destra funzionava quasi sempre. Con Bertinotti all’opposizione e Cossiga saldo ispiratore del governo D’Alema, le cose cambiano. E non in meglio per Berlusconi, Fini e Casini.

Non basta dire che l’avvento di D’Alema alla guida del governo equivale a "una truffa" ai danni degli elettori. L’argomento è troppo debole per avere vita lunga. Si tratta, invece, di riprendere con qualche umiltà la strada dell’Europa. Dove Berlusconi e Fini parlano a famiglie politiche diverse, ma tutt’altro che dissonanti. Ne deriva che il centro-destra italiano non può limitarsi a cercare oltralpe una generica credibilità, ovvero la fine del tendenziale provincialismo che ha caratterizzato per anni la destra italiana e la fuoriuscita da una condizione di isolamento che nei fatti è già venuta meno. I tempi cambiano. Oggi le novità politiche in Italia pongono in termini diversi anche il tema del consenso.

Per la destra italiana la credibilità europea deve tradursi in un lavoro comune con i partners continentali per la definizione di programmi e strategie. Nella coscienza che il tempo stringe e che la sfida di Cossiga non va presa sotto gamba, proprio perché non è solo un esempio di trasformismo parlamentare. In altre parole, Berlusconi e Fini devono omologarsi in fretta al mondo moderato europeo, nelle sue varie articolazioni, e devono presentarsi come i soli, affidabili interlocutori italiani dei popolari tedeschi, dei gollisti francesi, dei conservatori inglesi. Se in Europa passa l’idea che la piccola Grosse Koalition di D’Alema e Cossiga interpreta e rappresenta i moderati italiani e che è solo questione di tempo perché anche la mappa elettorale assimili la novità, il destino del Polo potrebbe essere segnato.

Berlusconi, Fini e Casini hanno sei mesi di tempo per dimostrare ai partners europei e agli elettori italiani che sono loro e non Cossiga gli interpreti di un sentimento liberale, laico e cattolico-moderato. Per farlo con maggiore efficacia servirebbe un partito unico della destra, la fine di un gioco di sigle e di apparati non sempre comprensibile. Ma la questione non è all’ordine del giorno. Conta molto di più dimostrare che il richiamo all’Europa dei Kohl e degli Aznar non è solo un’astuzia retorica. È invece un’agenda di lavoro, una scala di priorità nel campo dell’economia e dei bisogni sociali, una scelta istituzionale. D’Alema e Cossiga non possono permettersi di perdere tempo e hanno interesse a presentare il Polo come un’accolita di estremisti incapaci di far politica. Viceversa, l’Europa può offrire a Berlusconi e ai suoi alleati l’occasione per dimostrare l’infondatezza di questa accusa e per riprendere l’iniziativa che negli ultimi tempi è del tutto mancata. Ma occorre essere consapevoli che in Italia è ormai cominciata l’ultima sfida per la rappresentanza degli interessi moderati e per il riassetto del sistema politico. Chi sbaglia la prossima mossa potrebbe non avere più il tempo di correggersi.

Stefano Folli


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1998