Feuilleton
RIPRENDIAMOCI
GLI ANNI OTTANTA
di Eugenia Roccella Cavallari

Come nelle storie delle famiglie si alternano generazioni che costruiscono e accumulano, e generazioni che spendono, dissipano e magari si giocano interi patrimoni, così, nella storia politica dell’Occidente contemporaneo, destra e sinistra si sono avvicendate al potere secondo una ricorsività generale abbastanza precisa: la destra crea ricchezza, la sinistra la spende. Quando c’è crisi, si fanno politiche economiche di destra, si tira la cinghia, come facevano le destre "di bilancio" di un tempo, o si incentivano deregulation e sviluppo, come hanno fatto negli ultimi decenni le destre liberiste. Quando ci sono risorse disponibili si ridistribuisce, si allarga il welfare, si aumentano le spese statali.

In America e in Europa gli anni Ottanta, che hanno seguìto un decennio di crisi, sono stati simbolicamente dominati dalle figure di Reagan e della Thatcher; in Italia, è stata l’era di Craxi. Non è la stessa cosa: se i primi due incarnavano in modo fin troppo tipico il nuovo vento liberista, il terzo era un membro dell’Internazionale socialista, capo di un partito di sinistra, legato all’organizzazione sindacale, cultore di Garibaldi e di Turati. Ma per la prima volta, nella storia italiana più recente, qualcuno si ficcava, come un cuneo, nella tenaglia cattocomunista, pretendeva di mettere in discussione le parole d’ordine, i presupposti culturali, le consonanze ideologiche e politiche di Dc e Pci, e soprattutto gli assetti di potere. Lo faceva con arroganza (ma si poteva farlo con umiltà?); lo faceva rincorrendo sullo stesso terreno i due grandi partiti, abituati alla spartizione dello Stato, al patteggiamento, alla divisione della geografia fisica e sociale del Paese in zone d’influenza e di potenza. Alla "correttezza" di chi stabiliva: due a me, uno a te, mezzo a te, secondo un codice non scritto ma indiscusso, opponeva la scorrettezza di chi pretende di sregolare il gioco, chiedendo di più.

Sul significato dell’azione e dello stile politico di Craxi, il dibattito non si è ancora veramente aperto. Sono troppo recenti la polvere e l’altare, l’ascesa e la caduta; troppo rovinosa e tragica, soprattutto, quest’ultima, perché si riesca a parlarne con serenità, senza essere influenzati dalla damnatio memoriae che si è immediatamente praticata sul suo nome.

Resta, coperto dall’ombra della sua assenza, il vuoto, il pozzo nero degli anni Ottanta. Del nostro dopoguerra quasi tutto è stato recuperato dalla spensierata rivisitazione della post-modernità: decontestualizzati e ripuliti dalle scorie ideologiche, vengono riproposti oggi anche i brutali anni Settanta, miscelando eskimo, zatteroni, "Cugini di campagna" e studenti di città, Che Guevara, kefiah e zampa d’elefante. L’operazione è già stata fatta con i Cinquanta poveri ma belli, e con i (mitici) anni Sessanta del boom. Ma l’ultimo decennio, quello resta irrecuperabile, sospeso in un limbo di inaccettabilità.

La generazione depoliticizzata, cresciuta senza il soffio vitale della rivoluzione, senza canti di guerra e di guerriglia urbana, allevata a pubblicità e Canale 5, a videogiochi e Duran Duran, è la prima che non può aspettarsi un miglioramento di status e di condizione economica; la prima che, formata sull’esplosione di nuovi consumi, troverà difficile mantenere gli standard di vita a cui è abituata; quella su cui graveranno le spese per il benessere dei padri. L’improvvisa eliminazione, per via giudiziario-politica, di un’intera classe dirigente ha lasciato i quarantenni ai posti di comando, e i trentenni a vagare per birrerie senza ben capire cosa è accaduto.

Il nodo è proprio lì, in quegli anni rifiutati dalle élites culturali italiane, che li definirono sprezzantemente "rampanti". Un decennio di grande vitalità, che ha visto il successo internazionale del made in Italy, della moda italiana, della dieta mediterranea; la moltiplicazione delle piccole imprese, l’emersione dalla zona grigia dell’economia di intere regioni; l’affermazione delle tv private, con tutto quello che ha comportato: aggiornamento dei linguaggi, espansione della pubblicità, spinta alla diversificazione e moltiplicazione dei consumi. Ma gli anni Ottanta, che pure si potrebbero per certi aspetti paragonare ai Sessanta, non hanno mai raggiunto il grado di popolarità e celebrazione di questi ultimi, proprio per il motivo individuato da Pilati nel saggio che segue: il razionalismo economico-tecnologico e quello politico-pianificatore non coincidono più, ma anzi, pur coesistendo, vanno in direzioni opposte.

È l’inizio di nuovi conflitti, di nuove (e gravi) lacerazioni che non hanno smesso di dare i loro frutti. Il tentativo di modernizzazione di Craxi, volto proprio a dare sbocco politico ai nuovi fenomeni economici e sociali (va inteso in questo senso, e non solo come vorace appropriazione di reti, anche l’appoggio fornito alle televisioni commerciali), non ha avuto lunga durata, sia perché troppo contraddittorio, impantanato nel vecchio sistema, sia perché duramente osteggiato da buona parte delle forze politiche ed extrapolitiche. Ma, dopo aver eliminato dalla scena il Psi, i "buoni", contraddicendo ogni aspettativa, non hanno trionfato: il Paese ha cercato tumultuosamente di esprimere una nuova rappresentanza politica prima con la Lega e poi con Forza Italia. E non è certo casuale che sia stato proprio l’uomo-simbolo delle televisioni private a raccogliere la delega dei nuovi produttori e consumatori.

Oggi, ancora una volta, si cerca di mettere la camicia di forza di un "modello" (culturale, sociale, economico, di sviluppo) a un Paese che in gran parte lo rifiuta. La tenaglia cattocomunista si è ricreata e tende a richiudersi, lasciando fuori tutto quello che gli è estraneo, anche il populismo "selvaggio" di Bertinotti. Il modello si deve realizzare grazie alla pervasività del controllo, che deve coprire ogni campo. Non c’è spazio per spinte sociali autonome, che vanno represse o lasciate ai margini.

L’eredità dei rifiutati anni Ottanta è in questi Novanta spaccati tra vecchio e nuovo, tra una classe dirigente che con i più raffinati (ma anche spregiudicati) strumenti della politica cerca la sopravvivenza per sé e per i ceti protetti, e una maggioranza elettorale che non riesce ad ottenere il peso politico che le spetterebbe. Se la vecchia politica vincerà, più che un Paese normale l’Italia rischierà di essere un Paese normalizzato.

Eugenia Roccella Cavallari


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1998