Editoriale
SMEMORATI ALLA META
di Gaetano Quagliariello

Forse è ancora possibile aggiungere qualcosa alla polemica suscitata dall’articolo di Sandro Viola sull’assordante silenzio che, di fronte allo svelarsi dei massacri causati dal comunismo, hanno mantenuto gli intellettuali ex militanti nelle fila del Pci e quanti dei comunisti sono stati "compagni di strada". Tentiamo un breve e parziale riassunto delle puntate precedenti. Le tante reazioni suscitate dall’articolo possono essere schematicamente riportate a due tesi contrapposte. Molti, con Ernesto Galli della Loggia, hanno notato come far luce fino in fondo su connessioni e connivenze del comunismo italiano con il movimento internazionale ed i suoi crimini possa minare alla base il tentativo portato avanti dagli eredi del Pci di costruirsi una posizione egemonica nell’Italia del "dopo-guerra fredda": un tentativo che non potrebbe fare a meno del sostegno di una vulgata parziale e politicamente orientata della nostra storia repubblicana. Altri, con Montanelli, hanno contrapposto a questa tesi i rischi derivanti da una presunta "ossessione della storia". Rivangare il passato risulterebbe politicamente sterile. L’attualità dell’anti-comunismo sarebbe caduta assieme al muro. Dissoltasi la minaccia internazionale assieme all’Impero sovietico, assai più proficuo risulterebbe accettare pragmaticamente il "cambiamento possibile". Quello che può prodursi senza bisogno di proclami e pubbliche abiure; senza infrangere miti e uccidere "padri nobili". Lasciando ai politici la politica ed agli storici il compito di ripristinare - per quanto possibile - la verità.

Fin qui il già detto. Ma mentre il ricorso al potere costituente è nel nostro Paese problema di scottante attualità, sarebbe uno spreco non cogliere l’occasione offertaci dalla polemica per tentare di spingerci più in profondità ed investire la sostanza del dibattito, che si autonomizza perfino dal suo oggetto contingente. Ci sembra, infatti, che la domanda posta da Viola rischi di restare in parte elusa se non posta in relazione con un problema più generale: quale rapporto debba avere con la storia - e precipuamente con la storia nazionale - un potere politico che aspiri ad essere avvertito come legittimo dalla quasi totalità dei cittadini.

A tale proposito, non basta ricordare in premessa come il passato, le sue rappresentazioni e la sua percezione a livello diffuso siano attributi indispensabili di ogni potere legittimo. Si devono anche brevemente riassumere le peculiarità che, in questo ambito, la storia d’Italia presenta. Guglielmo Ferrero definì "semi-legittimo" il potere esercitato dai liberali nel primo cinquantennio dello Stato unitario. La definizione si riferiva anche e soprattutto alle conseguenze politiche derivate dalla mancata accettazione del passato risorgimentale da parte di un numero consistente d’italiani. Il fascismo riuscì a rendere questa legittimità ancora più precaria, derubricando la nazione ed i suoi miti a patrimonio di parte ed espellendo dalla comunità nazionale - quando non proprio dall’esistere - quanti da esso dissentivano. Il dopoguerra non è stato in grado di sanare queste carenze. Non solo perché avrebbe dovuto chiudere la ferita di una guerra civile a lungo negata. Soprattutto perché si è dato miti fondatori che richiedevano una lettura parziale del passato e che, di conseguenza, si presentavano particolarmente esposti all’usura del tempo. Lo comprese Alcide De Gasperi che, agli inizi degli anni Cinquanta, senza per ciò negare il valore di alcune pagine della Resistenza e della Liberazione, notò come un Paese che si apprestava ad affrontare la sfida della modernità dovesse forgiare miti più comprensivi e pregnanti dell’antifascismo.

Oggi siamo in presenza di una transizione istituzionale che stancamente si trascina. Venuti meno i presupposti strutturali della prima Repubblica, tramontati la gran parte degli attori individuali e collettivi che l’hanno caratterizzata, è necessario dar vita ad un nuovo potere legittimo. È un’esigenza storica che può essere trascurata, maltrattata, differita, ma non elusa. In un modo o in un altro essa troverà una risposta. Ci si era augurati, con un pizzico d’incosciente ottimismo, che la legittimità del nuovo potere potesse risultare più forte e meno "particolare" di quella che ha caratterizzato tutte le passate stagioni della nostra storia patria. Che, di conseguenza, le zone di esclusione del nuovo sistema politico potessero quasi scomparire. Che la classe politica potesse essere percepita non più come un’entità distante simile ad una oligarchia prepotente da subire o da abbattere. Che il cambiamento potesse divenire fisiologico e non traumatico. Che i "potenti" potessero uscire di scena senza drammi; senza la necessità di ricorrere ad impiccagioni, d’immaginare fini solitarie da leader spodestato, di dover apprendere con orrore di barbariche uccisioni terroristiche, di assistere a interminabili processi, di dover ritenere normale la prospettiva del carcere ovvero quella dell’esilio volontario in terra straniera.

Si era pensato che, a tal fine, un contributo importante potesse derivare da nuove soluzioni istituzionali, più vicine a quelle che governano la politica in quei Paesi che vantano una lunga pratica di potere legittimo. Alla luce di quanto accaduto in questi ultimi anni, le convinzioni originarie vanno riaffermate, ma si avverte anche il bisogno di integrarle. Al fine di sanare la carenza di legittimità di cui soffre il nostro potere politico, una buona riforma delle istituzioni è condizione necessaria ma non sufficiente. È altrettanto importante riconciliare gli italiani con la loro storia, proponendo un passato comune, condiviso e condivisibile. E, a tal fine, il contributo che può venire da una crostata consumata su un terrazzo romano è poca cosa: ammesso e non concesso che la sua cottura non sia stata sbagliata. Nessun uomo politico che possieda qualità che gli facciano scorgere i "geni invisibili" che legano il passato con il futuro di una nazione dovrebbe anche solo immaginare la possibilità che una nuova stagione della politica possa inaugurarsi in un’aula semi-deserta del Parlamento, in mezzo agli sghignazzi del Paese provocati dalle irriverenti telecamere di Striscia la notizia pronte ad immortalare il totale "vuoto d’interesse" della classe politica.

Con sempre più forza ed autorità gli eredi politici di comunismo e fascismo candidano le rispettive forze a protagoniste del nuovo patto costituzionale. Non siamo tra quanti negano a priori che post-fascisti e post-comunisti possano divenire i protagonisti di una nuova stagione della storia repubblicana. Riteniamo, di contro, che tra i pochi e migliori frutti di quella stagione, inauguratasi con il ’94, sia da annoverare il percorso di revisione silenziosa che a livello sia ideologico sia di comportamento tradizioni politiche derivanti dall’età dei totalitarismi - con tempi, modalità e approfondimenti differenti - hanno comunque saputo compiere. Proprio per questo, però, ad esse non può essere concesso alcuno sconto. Chi si candida ad un ruolo di protagonista non occasionale della nuova Repubblica, a cardine di un assetto politico maggioritario, deve dimostrare di saper fare fino in fondo i conti con la propria storia. Non si tratta di "ossessione del passato" ma di garanzia per il futuro. Perché solo dimostrando di saper guardare con spregiudicata franchezza alla propria eredità si darà la garanzia di lavorare per affermare una storia nazionale condivisa, attributo indispensabile per sanare il deficit di legittimità di cui ha sempre sofferto il potere politico in Italia. Per evitare equivoci, è bene chiarire che questo sforzo non può esaurirsi nella ricerca di conciliazione delle ragioni di partigiani e repubblichini. Ancora più importante è recuperare ed adeguatamente valorizzare come patrimonio comune tutta quella parte della storia patria che sfugge alla proiezione della guerra civile. Proporre il cinquantennio repubblicano abbandonando gli stereotipi imposti dalla guerra fredda, senza fingere di non sapere come quella guerra incruenta sia andata a finire e perché. Si potrà obiettare: questo è compito degli storici, non dei politici. Ma per diverse ragioni questa tesi non ci convince. Non c’è bisogno di ricordare come vulgate di parte della storia patria siano state accreditate innanzi tutto sul terreno della politica. Sono state proposte come miti diffusi, sub-cultura basilare che ha permeato la formazione di una generazione: proprio quella che oggi ha l’occasione di metter mano al potere costituente. D’altro canto, come ha di recente dimostrato un coraggioso intervento dell’on. D’Alema, per i politici revisionare la storia è più semplice e meno doloroso. Ad essi è consentito smentirsi e correggersi, assai più di quanto sia consentito agli storici.

Vi è, però, una ragione più forte che rende l’emersione di un passato condiviso un’esigenza politica "fondamentale". Solo se tale processo verrà portato avanti con coraggio si potrà sperare che i miti fondanti una nuova stagione della nostra vita pubblica possano non risultare ancora più parziali e limitati di quelli della stagione che si è conclusa. A tale proposito, va innanzi tutto fatta chiarezza su un punto: non si è qui a sostenere amnistie generali, affogando ogni responsabilità individuale in una generica chiamata di correo del sociale. Né si ritiene che meriti originari possano sanare il giudizio su una classe politica che, valutata nel suo complesso, si è dimostrata indegna dei padri dai quali ha derivato la sua legittimazione. D’altro canto, però, non si può esser disposti ad accreditare l’operazione di chi vorrebbe suddividere attori politici e partiti protagonisti del cinquantennio repubblicano in due grandi categorie omnicomprensive: gli "onesti" ed i "corrotti". E per di più proporre questa distinzione come mito legittimante del nuovo potere.

Si comprenderà, a questo punto, come il problema non è solo quello di qualche dichiarazione "revisionista". I nostri costituenti, se vorranno dimostrarsi all’altezza del loro compito, devono trovare il coraggio di compiere atti politicamente rilevanti per scongiurare che questa operazione passi a livello di cattiva coscienza diffusa. Il coraggio di non temere le ragioni di una storia più complessa, che riconosca compromissioni e connessioni diffuse e si rifiuti di appagare sensi di colpa collettivi scaricando su pochi mostri ogni responsabilità storica.

L’impressione è che la mancanza di questo coraggio sia tra le cause che hanno fatto cadere un assordante silenzio sui lavori e sui dibattiti che dovrebbero condurci alla seconda Repubblica. Senza un preventivo esame di coscienza ogni soluzione istituzionale nascerà rachitica. Ai più il potere continuerà a risultare lontano ed illegittimo. In attesa della prossima revisione storiografica e della prossima bella polemica giornalistica sulla responsabilità degli intellettuali.

Gaetano Quagliariello


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1998