Affari
esteri. Turchia
ISTANBUL RENAISSANCE
di Luciano Lanna
Sì, in fondo Istanbul
ha sempre rappresentato l’Oriente più vicino. Conosciuta come la Porta
d’Oriente, è da noi pensata, sognata e vissuta come la città di
frontiera tra due mondi e due civiltà. Eppure, siamo davvero sicuri della
presunta appartenenza ad un universo "altro da noi"? È stato un
film, Il bagno turco, a riaprire recentemente il dibattito sull’identità
di questa metropoli. La pellicola, del turco Ferzan Ozpetek, un quarantenne
che per anni ha lavorato in Italia, è tutta giocata sul potere di
fascinazione che la città esercita sugli occidentali. La storia è quella
di una coppia di borghesi italiani in crisi esistenziale e coniugale, che
vengono come trasformati dal contatto con Istanbul, le sue genti, i suoi
suoni, i suoi colori. C’è la nostalgia per la Istanbul che fu, per i suoi
bagni turchi, per la contaminazione tra culture di tanti e diversi popoli.
È il richiamo dell’esotico: ma cosa c’è, in realtà, di più
occidentale dell’esotismo? Da Erodoto fino alle Lettere Persiane di
Montesquieu, dalle turqueries di Voltaire alle suggestioni di Mozart, siamo
stati noi - europei e occidentali - ad aver sempre avuto bisogno di un
interlocutore "altro", per "orientarci", riconoscerci,
definirci. Ci siamo inventati un Oriente a uso e consumo che, proprio per
questo, è in realtà più occidentale di quanto siamo disposti ad
ammettere. E Istanbul è forse la migliore metafora di questo gioco
dell’immaginario.
Arrivandoci, la prima
sensazione è insieme di familiarità e di esotismo, già quando dai
finestrini dell’aereo si può scrutare il gioco d’acqua disegnato dal
Bosforo e dal Corno d’Oro nella complessa geografia urbanistica della città.
Una geografia plurale, tridimensionale: tre città sul Bosforo unite da una
serie di ponti e da un nome: Istanbul. Balza subito agli occhi la sua natura
bifronte, modellata su marcati contrasti: la Moschea Blu e l’Hilton, il
Gran Bazar e la modernità novecentesca del quartiere Taksim, Palazzo
Topkapi e il grande ponte che collega l’Europa all’Asia. "È qui
che si comprende la realtà della Turchia", ammette Süleyman, una
guida turistica che si esprime in un curioso italiano del Nord-Est:
"Noi siamo l’una e l’altra cosa assieme".
Ha ragione: non esiste
probabilmente al mondo una metropoli così duale, con due anime a un tempo
diverse e compresenti, senza che l’una prevalga sull’altra. Lo dimostra
la capacità di Istanbul nel trasmettere la sua storia, le sue antiche
memorie, le sue esperienze millenarie, tutte prove di questa sua particolare
vocazione. "Ed è stato sempre così - prosegue la nostra guida - in
tutte e tre le sue fasi. Sia quando si chiamava Bisanzio, sia quando divenne
Costantinopoli, come da quando è diventata Istanbul". Non a caso i
greci continuano ancora oggi a chiamarla la Poli, la città per antonomasia,
quasi a evocare i vecchi fasti dell’antica Bisanzio, la "città del
desiderio universale", situata com’era tra Europa e Asia, Danubio ed
Eufrate; porto d’accesso all’Africa, al Mediterraneo, al Mar Nero, ma,
comunque, porto greco, romano. Con Costantino, diventa capitale: seguirà un
millennio d’Impero, quando sarà la più grande e raffinata città
d’Europa. E la dimensione europea non svanisce neanche con l’arrivo di
Mehmet II e con i cinquecento anni di Impero Ottomano. Conosciuta come Alem
Penah, "rifugio del mondo", era una capitale multinazionale con la
presenza di 72 nazionalità: la compresenza di greci, turchi, veneziani,
genovesi, fiorentini, ebrei, franchi, serbi, persiani, arabi, armeni, curdi,
costituì per secoli la cifra più propria della città.
La collina di Galata,
dove campeggia la Torre dei Genovesi, fu, in particolare, la dimostrazione
della convivenza possibile tra Oriente e Occidente. Qui risiedevano le
dinastie mercantili di lingua italiana, i Testa, i Draperi, i Fornetti,
tutte famiglie di antichissima residenza. Qui c’è ancora l’edificio
civile più antico della città: è la vecchia Loggia del Palazzo del
Comune, una costruzione che fu ispirata a Palazzo San Giorgio di Genova:
era, al tempo, l’equivalente dell’odierna Borsa. Adesso, senza più lo
stemma genovese e le finestre gotiche, ospita la bottega Nereket Hani,
all’angolo fra Galatakulesi e Bankalar Caddesi. E ancora oggi, sulla
collina di Galata, il lembo di Istanbul più ricco ed europeo, i giovani
rampanti della borghesia turca vestono "griffato" e frequentano le
prestigiose scuole straniere. Il liceo italiano è considerato uno dei più
"esclusivi". E non è un caso: "La vostra - ci dice Süleyman,
che qui ha studiato - è stata per secoli la seconda lingua della città. La
parlavano tutti gli europei, quasi tutti i greci, molti armeni e,
naturalmente, i turchi". Sì, Costantinopoli per secoli è stata la
minacciosa capitale della mezzaluna, ma anche di quella cultura commerciale,
tipica del Mediterraneo orientale, che chiamiamo Levante. A differenza di
quanto accadeva in Europa occidentale, qui all’inizio dell’era moderna
non vi erano restrizioni alla libertà di commercio. Ha ragione Franco
Battiato, allora, quando paragona Istanbul a Venezia, "stessi palazzi
addosso al mare, rossi tramonti che si perdono nel nulla […]". Sarà
la forza evocativa delle immagini, ma Frederick Testa, l’ultimo della
vecchia famiglia levantina a lasciare la città, ha sostenuto che "dopo
Istanbul c’è il nulla". Da allora, era il 1950, vive a Parigi, dove
l’ambasciata turca è la sua seconda casa, persuaso com’è dalla
formazione avuta nella "sua" città che "una cultura sola non
basta a nutrire l’intelletto".
Di questa eredità di
Istanbul, di questo ruolo di civiltà, è consapevole lo storico Philip
Mansel, che proprio in questa chiave ha ricostruito una storia della città
nel periodo ottomano, Costantinopoli, pubblicata in Italia lo scorso anno da
Mondadori. "La molteplicità di identità - scrive - era un fatto
naturale: la città era una porta aperta nel muro che separava Islam e
cristianesimo. La "sede del Califfato" apparteneva al
"sistema Europa": a Costantinopoli si poteva essere a un tempo
greci e ottomani, musulmani ed europei, e considerare la nazionalità un
mestiere anziché una passione".
Ancora oggi,
nell’area della città nuova, quella che, attraverso la zona di Beyoglu,
unisce i borghi di Taksim e Pera, dove un tempo c’erano i fondachi
commerciali dei mercanti italiani, è possibile respirare quest’atmosfera
cosmopolita. Basta passeggiare per la Istiklal Caddesi, la vecchia Grande
Rue de Pera, la via cara a Ian Fleming - che vi ha spesso immaginato il suo
James Bond - e a Michael Jackson: tra boutique, gioiellerie da jet set e
ristoranti internazionali, eleganti turchi occidentalizzati si mescolano a
poche musulmane velate dalla testa ai piedi. Ma anche queste, a ben notare,
sotto i veli indossano jeans di Calvin Klein e qualche volta hanno sul naso
occhiali di Armani o Ferré. In tutta quest’area ci sono vita notturna,
locali, discoteche. E tracce di un passato moderno: Cité de Pera, Passage
Oriental, vecchie iscrizioni in francese, la seconda lingua tra Otto e
Novecento. Molti gli edifici in stile liberty: l’architettura mostra
l’eco dei modelli di Parigi, Londra, Venezia.
Certo, con il nostro
secolo e il germe dei nazionalismi, le città cosmopolite andarono tutte
declinando. Dopo gli anni Venti, le grandi città internazionali si
provincializzarono: Praga divenne una città nettamente ceca, Trieste
italiana, Vienna e San Pietroburgo si ripiegarono su se stesse, Delhi
perdette la presenza dei musulmani, Alessandria quella dei greci. E anche
Costantinopoli si privò via via di italiani, francesi, ebrei, arabi, curdi.
Ma, malgrado ciò, la sua dimensione internazionale resistette. Magari
riformulandosi sotto le vesti di città dell’immaginario letterario. Meta
intellettuale, ammaliò Le Corbusier e Hemingway, Borgese e Agatha Christie,
Eric Ambler e Alberto Arbasino, mentre resistevano i miti dell’Orient
Express, la linea ferroviaria che collegava Parigi a Istanbul, e del Pera
Palace Hotel, l’albergo tutto sfarzo, velluti rossi e scaloni, creato per
i suoi viaggiatori. La città divenne l’icona di un’epopea, tutta
occidentale, fatta di avventurieri, granduchesse, agenti segreti e
letterati. Intorno alle moschee, ancora e sempre la cultura occidentale. E
anche dopo non mancarono altre strade europee per Istanbul.
Ad ovest di Galata,
collegata tramite due ponti, c’è la città vecchia, la parte più antica,
spiccatamente orientale, dove sorse Costantinopoli, affacciata da un lato
sul Bosforo aperto sul Mar di Marmara e dall’altro sul Corno d’Oro. È
la vecchia Stamboul, come la chiamavano gli europei levantini, quelli che
soprattutto negli anni ’50 lasciarono la Poli per la Grecia. Qui, nella
zona delle moschee e dei principali monumenti, l’odore di spezie e della
tipica cucina aromatica si mescola al caos del traffico, all’appello alla
preghiera dei muezzin, agli accesi tramonti. Siamo nella zona di
Sultanhamet: al ristorante Vitamine, locale cult "alternativo",
notiamo le tracce di un successivo ruolo di Istanbul nell’immaginario
occidentale. Sulle pareti e sui tavoli leggiamo in inglese che qui si
ritrovavano e facevano tappa gli hippies e i contestatori tra la fine degli
anni ’60 e gli anni ’70. Era la stagione dei Beatles e di un Cat Stevens
che cambiò nome e cultura, diventando Yusuf Islam. Tra moda e
trasgressione, per i giovani occidentali cominciava il pellegrinaggio in
Oriente. E dove cominciare, se non da Istanbul, per poi proseguire verso
Benares o Katmandu? A piedi, in bus, in autostop, milioni di giovani
mettevano piede nella città di Costantino per provare i colori e i sapori
dell’Oriente. Magari andavano a fumare il narghilè nel verde cortile
della Corlolu Ali Pasa Medredesi, vicino al Gran Bazar, dove ancora
campeggia la scritta Water Pipe Garden. Lì incontriamo Ibrahim - avrà
dieci anni - che, in un’atmosfera di silenzio meditativo, ci porta da
fumare dopo averci offerto in un piccolo bicchiere di vetro colorato il çay,
il tè aromatico turco, bevanda centellinata a qualsiasi ora. Ci chiede se
siamo italiani. E con la consueta ospitalità e gentilezza dei turchi ci
ripete: "Italiani, amici", facendoci capire che lì passano tanti
nostri connazionali. Così come si recano all’hammam, il bagno turco,
altro topos mitico di una Turchia evocatrice di una diversa concezione del
tempo.
Insomma, Istanbul
continua ad esercitare il suo ruolo di calamita. Ieri di avventurieri e
letterati, oggi di turisti, di commercianti russi, di immigrati interni
dall’Anatolia, di polacchi, rumeni e ungheresi che vengono in
pellegrinaggio per riempirsi di valige di merci. E la città continua a
rinascere. Anzi, a moltiplicarsi. Lo notiamo mentre percorriamo le sue
strade avviluppate da nuovi condomini e nuovi quartieri, i quali sorgono
spesso dal tramonto all’alba, popolati da frotte di persone che si
spingono qui condotte da un continuo moto centripeto. "Quanti siamo?
Solo Allah può dirlo", confessa un venditore di tappeti e kilim che ci
ha abbordato per strada. Lui ha vissuto da emigrante in Germania e, quasi
con senso di revanche, sostiene che la Turchia con i suoi 60 milioni di
abitanti potrebbe essere il Paese più popoloso d’Europa dopo,
naturalmente, i tedeschi. Fatto sta che la città è in preda ad
un’esplosione demografica incontrollata: nel 1970 aveva tre milioni di
abitanti, nel 1985 cinque e mezzo, ora si contano circa dodici milioni di
persone. Di questo passo saranno venti nel Duemila. Sono tanti i nuovi
immigrati provenienti dall’Anatolia o dall’Armenia, richiamati dalla
ricerca di lavoro; sono loro la manodopera che ogni notte tira su nuovi
quartieri senza acqua, fogne o impianti elettrici. Sarà quindi anche per il
trionfo della geopolitica, ma Istanbul è ancora più di ieri crocevia del
mondo, gran bazar postmoderno. La caduta dell’Impero sovietico ha
accelerato la rinascita economica della città: brulicanti di persone e di
affari, di un vociare indistinto e di contrattazioni continue, il Gran Bazar
e il quartiere circostante sono diventati la Oxford Street dell’Est
europeo e dell’Asia centrale. La liberalizzazione del commercio è assai
spinta e si sposa assai bene con la vocazione tradizionale di Istanbul. I
commercianti hanno vissuto tutti, o quasi, qualche anno in Germania o in
Italia e parlano senza difficoltà le altre lingue. Anche per questo, la
Turchia sta conoscendo sin dai primi anni ’90 un incremento produttivo da
"tigre asiatica" - l’8 per cento annuo - con un’economia
sommersa di gran lunga superiore a quella ufficiale. Certo, da un lato sono
ricomparsi dopo cinquant’anni il velo e il turbante, ma dall’altro solo
tre anni fa è stata inaugurata a Istinye, sul Bosforo, la Borsa di
Istanbul, dotata di tecnologie tra le più avanzate. L’Università e le
biblioteche cittadine sono quasi tutte connesse a Internet. Si contano circa
duemila tra televisioni e radio private.
Ed è così che si
apre, forse, una nuova fase dell’internazionalizzazione di Istanbul,
questa volta sotto l’egida del mercato globale. Ci sono le cupole, ci sono
i minareti, ma è anche vero che le mode, i locali, la stampa, sono per lo
più gli stessi di Roma, New York o Berlino. E la musica. I concerti
all’Inönü Stadium di Istanbul sono sempre strapieni. I giovanissimi
ascoltano i Pearl Jam, Tracy Chapman, Eros Ramazzotti, Claudio Baglioni.
L’algerino Kalhed con la sua Aisha non è da meno. Ma la vera colonna
sonora della nuova Istanbul, quella che ossessivamente si ripete nei caffè
e nelle discoteche, nei grandi magazzini e nel Gran Bazar, è basata sulle
sonorità di due pop-star turche: Tarkan e Mustafà Sandal. Hepsi Senin Mi?
e Gitme del primo e Araba del secondo sono i brani più gettonati. Ma il
vero fenomeno è Tarkan, un giovanotto di ventiquattro anni in grado di
mandare in estasi stadi pieni di teenagers, con una musica che fonde
abilmente i suoni del pop-rock angloamericano con i ritmi tradizionali
turchi. Nato in Germania da emigrati rientrati in patria quando lui era poco
più che adolescente, rappresenta in qualche modo il simbolo della Turchia
globale. In sole cinque settimane è riuscito a vendere un milione e mezzo
di copie del suo ultimo disco, Ölürüm sana. Sarà proprio lui a
rappresentare in questi giorni il debutto della turkish music prima negli
Usa e poi nel mercato discografico internazionale. L’idea è stata di
Ahmet e Nesuhi Ertegun, figli dell’ambasciatore turco negli Usa e
fondatori, nell’ormai lontano 1947, della casa discografica Atlantic, che
così rivelano la loro identità turca.
Nel frattempo è stato
già tradotto in dieci lingue, con milioni di copie vendute, il giallo Happy
birthday, turco! di Jacob Arjouni, un giovane scrittore di thriller di
origine turca, che vive in Francia. Il protagonista dei suoi romanzi, Kemal
Kayankaya, è stato definito l’erede turco-tedesco di Philippe Marlowe.
Potenza dell’immaginario, ma anche questa è la via turca alla
globalizzazione. I due discografici fratelli Ertegun, il regista Ozpetek, il
giallista Arjouni ne sono la prova più evidente.
Lasciando Istanbul, ci
colpisce l’immagine di un pendolare, in perfetta tenuta da manager
occidentale, con tanto di valigetta ventiquattr’ore, che, attraversando il
Bosforo sul traghetto, controlla il suo computer portatile ma solo dopo aver
bevuto il suo çay. È in questo atteggiamento, forse, la sfida
rappresentata da questa città, dalla sua storia, dal suo futuro. Non a
caso, proprio al ritorno da un viaggio a Istanbul, Stuart Eizenstat,
ambasciatore Usa presso l’Unione europea, ha dovuto confessare:
"L’Europa non sarebbe completa senza la Turchia".
Luciano
Lanna |

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