Pagine liberali
L'OCCIDENTE HA UN FUTURO. PAROLA DI HUNTINGTON

di Fabio Fossati

Il libro di Samuel P. Huntington, Lo scontro delle civiltà (Garzanti, 1997) - così come l’articolo apparso su Foreign Affairs nel ’93, che ne anticipava le tesi -, è sicuramente il saggio che negli ultimi tempi ha suscitato il più vasto dibattito in materia di world politics. Esso rappresenta nella fase post-Ottantanove ciò che Theory of International Politics di Waltz aveva significato nel periodo della guerra fredda: cioè il contributo scientifico che delinea il paradigma dominante nella politologia internazionalista. La perentorietà di molte proposizioni avanzate da Huntington ha innescato reazioni polari nei lettori (accademici o meno): o la totale avversione o l’assoluta ammirazione. Devo confessare che mi colloco senza dubbio nella seconda categoria.

La tesi fondamentale del saggio del ’93 era la seguente: i conflitti nella fase post-1989 sarebbero stati approfonditi prevalentemente da attori appartenenti a diverse civilizzazioni. Nel volume del ’96 viene fornita una teoria della cooperazione che coinvolgerebbe proprio gli Stati appartenenti ad una stessa civilizzazione e si prospettano anche i lineamenti di un ordine mondiale in fieri basato sul rispetto delle reciproche sfere di influenza delle diverse civilizzazioni. L’enunciazione di questa nuova versione di una balance of power multipolare è accompagnata da una quarta tesi piuttosto innovativa: le civilizzazioni, e non più gli Stati, rappresentano l’attore principale della politica mondiale dopo la guerra fredda. Va però aggiunto che Huntington non annulla il ruolo degli Stati; anzi, nel ponderare il potere di una civilizzazione, egli assegna un ruolo centrale all’esistenza di una potenza guida. Il paradigma basato sulle civilizzazioni non spiega tutti i fenomeni politici, ma secondo Huntington ci aiuta ad interpretare i più importanti.

Come detto, già l’articolo del ’93 aveva provocato forti reazioni negative, soprattutto da parte di coloro che mi accingo a definire come studiosi politically correct. Tale movimento di pensiero è di moda soprattutto negli Usa, ma ha influenzato anche molti intellettuali post-marxisti europei, alla ricerca di sicurezze dopo il crollo del muro di Berlino. La posizione di partenza è la seguente: individuare dei gruppi di individui "svantaggiati" e mirare, attraverso il linguaggio e la ricerca, ad annullare le differenze. Sono ben note tutte le espressioni politicamente corrette che tendono ad annullare i riferimenti maschili oppure a trasformare sostantivi dispregiativi in curiosi giochi di parole: un vagabondo, ad esempio, diventa un residentially challenged. Figuriamoci se un famoso politologo, americano per giunta, può permettersi non solo di trattare problemi culturali, ritenendoli il fattore centrale della politica mondiale, ma soprattutto di individuare delle differenze tra le diverse culture. Il passaggio più criticato dell’articolo del ’93 era infatti quello che imputava alla civilizzazione islamica il maggior numero di coinvolgimenti nei conflitti armati. Questa proposizione è inaccettabile per uno studioso politically correct che ha fra i suoi obiettivi esistenziali più profondi quello di "comprendere" e giustificare storicamente - magari imputandone la responsabilità all’Occidente - tutti i fondamentalismi dell’Islam.

Utilizzare variabili culturali di tipo sociologico ha sempre rappresentato una trappola per gli studiosi, specialmente se politologi. Esistono molte evidenze empiriche che segnalano determinate somiglianze e differenze proprio partendo dai fattori culturali. Ma si tratta di variabili difficilmente maneggiabili; risulta poi quasi impossibile operare un controllo empirico, attraverso le prove "ripetute e difficili" identificate da Waltz. Di fronte ai fattori culturali lo studioso si trova di fronte a un dilemma manicheo: prendere o lasciare. L’aspetto positivo delle variabili culturali, a mio avviso, è la loro ecletticità. Mi spiego meglio: l’individuazione di teorie culturaliste spesso non è incompatibile con la selezione di altre variabili intermedie, di tipo politico od economico, che sono senz’altro rilevanti nel determinare gli outcomes finali di tipo comportamentale. Si tratta, forse, dell’ultimo tentativo di individuare teorie generali nelle scienze sociali. E proprio perché tali strumenti sono flessibili, per l’osservatore è possibile stabilire quando la cultura smette di produrre effetti. È proprio quest’area di confine fra storia e cultura che rappresenta, a mio avviso, il più interessante terreno di incontro fra storici e politologi.

Il principale difetto di Huntington, e non è una novità, è lo scarso rigore metodologico, che si manifesta innanzitutto in una limitata attenzione alle definizioni. Ma emergerà in modo altrettanto chiaro che, anche attraverso definizioni imperfette, Huntington riuscirà sempre, almeno a mio avviso, a mantenere uno stretto contatto con la realtà empirica. Innanzitutto, Huntington precisa come il concetto da lui utilizzato non abbia niente a che fare con quello di civilizzazione al singolare, usato spesso in opposizione al concetto di barbarie. In italiano, la distinzione fra civiltà come attributo e civilizzazione come sostantivo è più immediata. Secondo Huntington, la civilizzazione è quel gruppo di popoli con il più alto livello di identità. A mio avviso, questa è una definizione limitativa; ci sarebbero solo due categorie (quella occidentale e quella orientale) che indicano piuttosto delle "famiglie" di civilizzazioni. Huntington, in realtà, rifiuta la distinzione fra Est e Ovest, sostenendo la tesi (poco convincente) che si tratta di concetti relativi.

Il problema principale è però un altro. Nel corso del volume, il lettore si rende conto che il criterio identificato da Huntington non è quello esposto nel secondo capitolo. Egli combina da un lato variabili culturali, identificabili in non ben precisati valori, dall’altro variabili politiche. Una civilizzazione è cioè quella che si configura in un determinato periodo storico - può quindi modificarsi e anche morire - sulla base di dinamiche politiche, sul modello della balance of power, a livello internazionale. Ecco che emerge il vero cleavage riguardo alla definizione di civilizzazione, che è poi lo stesso che si è presentato a proposito del concetto di nazione. Huntington opta per una definizione soggettiva di civilizzazione, che quindi per la sua stessa natura prescinde da criteri comuni. Essa dunque esisterà nella misura in cui vi è un gruppo di popoli con un’identità comune; e l’indicatore principale di tale identità - che può essere alta, intermedia o bassa - è dato appunto dal coordinamento che si sviluppa nell’arena politica mondiale fra più attori della stessa civilizzazione.

La definizione oggettiva che ritengo più sofisticata e al tempo stesso più interessante è quella di Galtung, che fa riferimento al fatto che un gruppo di popoli abbia le stesse cosmologie, riferite a sei ambiti: i fondamenti della conoscenza, la concezione del tempo, dello spazio, le relazioni persona-persona, persona-natura, persona-dio. Non è casuale il fatto che Galtung sia, al contrario di Huntington, uno studioso post-marxista, tendente dunque a privilegiare il punto di vista dell’osservatore - ricordo il suo concetto di violenza strutturale -. Aggiungo che non è, di nuovo, casuale la concezione anti-liberale che molti neo e post-marxisti hanno del concetto di nazione, che va, secondo loro, sempre e comunque ricondotto a categorie oggettive: la razza o l’etnia, la lingua, la religione...

Huntington passa poi ad elencare quelle che sono a suo avviso le civilizzazioni del periodo post-guerra fredda. Il carattere soggettivo di tale classificazione fa sì che in alcuni casi la civilizzazione sia identificabile con una nazione (Cina e Giappone), in molti altri con una religione (islamica, induista, cristiano-occidentale...), ma la distinzione resterebbe anche con il criterio delle cosmologie. Su queste cinque civilizzazioni non vi sono dubbi; si può semmai discutere sull’appartenenza di alcune nazioni all’uno o l’altro gruppo; Huntington fa rientrare Corea e Vietnam nell’area sinic, dato che si tratta di nazioni influenzate dal confucianesimo, i cui valori sono stati assimilati anche dal Giappone. L’individuazione delle civilizzazioni ortodossa, africana e latino-americana solleva dei dubbi. Nel corso del volume, Huntington preciserà, da un lato, che si tratta di gruppi vicini all’Occidente; dall’altro (almeno negli ultimi due casi), che la loro identità comune è debole. Il criterio legittimante la loro specificità è, di nuovo, quello soggettivo, oltre ad alcuni elementi oggettivi: la scissione in cristianità orientale e occidentale nel primo caso; l’incorporazione degli immigrati europei con gli indigeni in Sud America, al contrario di quanto avvenuto nelle colonie anglosassoni; l’elemento tribale che impedisce l’assimilazione alla cristianità o all’Islam in Africa.

Risulta meno convincente, invece, l’esclusione del buddismo. È senz’altro vero che questo non si è affermato come civilizzazione dominante nelle regioni in cui è stato esportato (Cina, Corea, Vietnam...), ma vi sono nazioni che non possono essere assimilate ad altre civilizzazioni. Il motivo principale per tale esclusione sembra, in realtà, la sua dispersione geografica, più che la bassa identità, condivisa fra l’altro anche dagli africani. Aggiungo che il fattore forse più rilevante per la scarsa considerazione del buddismo sta proprio nel fatto che il suo core state (il Tibet) è dominato dalla Cina e non gode del diritto all’autodeterminazione.

Infine, la civilizzazione ebraica viene assimilata a quella occidentale. Anche tale scelta è discutibile. Huntington porta come esempio l’assimilazione culturale di molti ebrei - forse in America la percezione è diversa rispetto all’Europa - ma al lettore resta la convinzione che l’esclusione sia basata soprattutto sul numero limitato di cittadini israeliani rispetto alle altre civilizzazioni. In sintesi, alla fine rimane l’impressione che Huntington s’interessi alle civilizzazioni che abbiano un certo equilibrio nelle risorse hard (territorio, popolazione). In ogni caso, dubito che esistano due studiosi che abbiano indicato lo stesso numero, con egual contenuto, di civilizzazioni. Un’ultima annotazione riguarda l’insoddisfazione del lettore derivante dalla mancata "etichettatura" delle sotto-categorie delle civilizzazioni - ad esempio, i musulmani comprendono: arabi, turco-persiani, malesi - da parte di Huntington che, nelle diverse sezioni del volume, oscilla fra criteri culturali e geografici.

Una caratteristica del volume è la scarsa considerazione per i fattori economici, rispetto a quelli culturali, politici e militari, riferiti cioè alla sfera conflittuale. Ma ritenere che Huntington sottostimi l’economia sarebbe un giudizio superficiale. Tra i valori che differenziano le varie civilizzazioni, egli mette l’accento su fattori psicologici, sociologici e politici, ad esempio, il cleavage democrazia-autoritarismo. Ma non viene mai enunciata l’incompatibilità di alcune civilizzazioni con il mercato, la cui affermazione, al contrario della democrazia, viene ricompresa piuttosto nel concetto più vasto di modernizzazione. La tesi dell’autore è che tutte le civilizzazioni mirano a modernizzarsi e molte (quelle a più alta identità) intendono farlo tenendo fede ai propri valori. Per l’ennesima volta, Huntington smentisce le teorie dello sviluppo politico basate sulla progressiva affermazione della democrazia. Huntington in questa sezione è in sintonia con gli studiosi di political economy che hanno enfatizzato le diversità nelle combinazioni di Stato e (una maggioranza di) mercato, a dispetto dei sostenitori della cosiddetta globalizzazione. E questo mancato attacco al mercato e al "neo" liberalismo è un altro motivo che spingerà molti neo-marxisti ad attaccare il volume in questione.

In sintesi, Huntington distingue fra modernizzazione e occidentalizzazione, arrivando alla conclusione che non si tratta dello stesso fenomeno. Le pagine in cui l’autore sostiene la tesi che bere la Coca Cola o vedere un film americano non comporta, per ciò stesso, un mutamento di valori nel fruitore che si identifica in altre civilizzazioni non occidentali, rappresenterà un pugno nello stomaco per tutti quei "credenti" che hanno come obiettivo la demonizzazione dell’Occidente. Allo stesso tempo, risulterà una sorpresa pensare che la diffusione dell’inglese su scala mondiale rappresenta lo strumento più efficace per conservare le lingue e i dialetti locali. In sintesi, Huntington ritiene che i valori e gli stili di vita occidentali, seppur diffusi su scala planetaria, siano condivisi da un’élite che rappresenta solo l’1% della popolazione mondiale. Huntington nega, quindi, che esista una civilizzazione (occidentale) universale e si concede anche lo sfizio "politicamente scorretto" di ironizzare sui sostenitori di tali tesi, citando alcuni studiosi non occidentali che vivono negli States, e che così risolvono un problema di identità personale. Comunque, egli ammette che vi sia un tentativo di esportare i valori occidentali, per costituire una civilizzazione universale, ma mette in guardia i sostenitori di tale progetto: il suddetto sforzo potrebbe portare ad una guerra mondiale.

Huntington ritiene che una maggiore omogeneità esistesse nelle diverse società tradizionali, che erano culturalmente meno comunicanti fra di loro. Le società moderne di culture diverse si differenziano, quindi, in misura maggiore. Ma la proposizione più provocatoria per i sostenitori della globalizzazione sarà forse quella che imputa al fenomeno in questione la pressione che porta ad approfondire le differenze culturali. I maggiori flussi di comunicazione non sono la premessa per una omologazione su scala mondiale, ma per ulteriori differenziazioni e contrapposizioni. Non a caso Huntington fornisce anche una teoria dei movimenti fondamentalisti anti-occidentali, la cui rinascita dipenderebbe proprio dalla crisi d’identità collegata alla modernizzazione e alla percepita minaccia di occidentalizzazione. Un’ulteriore (ma apparente) schizofrenia è la seguente: quanto più le società non occidentali adottano istituzioni democratiche, tanto più troveranno spazio movimenti anti-occidentali.

La mancata formalizzazione delle cosmologie delle diverse civilizzazioni, a mio avviso, conduce Huntington non solo ad incappare in alcune imprecisioni, ma anche a non comprendere lo sviluppo dinamico delle stesse. Il suo diniego della diversità fra Oriente e Occidente lo porta a sottostimare la differenza chiave fra le due famiglie di civilizzazioni: la cosmologia della conoscenza. Quelle occidentali, ci insegna Galtung, sono basate sui princìpi aristotelici di non contraddizione e del terzo escluso; quelle orientali sul principio taoistico dello yin-yang. La prima cosmologia favorisce le contrapposizioni manichee; la seconda, invece, incoraggia la continua mediazione fra gli opposti. Non a caso, un Paese islamico (occidentale) come la Turchia aveva optato per il cosiddetto kemalismo, facendo dunque coincidere la modernizzazione con l’occidentalizzazione; Cina e Giappone hanno saputo selezionare, modernizzandosi attraverso l’assimilazione della tecnologia occidentale, ma conservando i propri valori.

Ecco le altre tesi del volume, collegate a quelle esposte:

- il declino dell’Occidente. Nel quarto capitolo, egli fornisce dei dati (su territorio, popolazione, risorse economiche e militari), a supporto della sua tesi, che sono abbastanza convincenti: sarebbero stati raggiunti più o meno gli stessi risultati se si fossero sommate a quelle occidentali le statistiche sulle civilizzazioni ortodossa, africana e latino-americana. Huntington, comunque, continua a sostenere che la civilizzazione cristiana (cattolico-protestante), il cui leader è rappresentato dagli Usa, rappresenta sempre quella più potente.

- L’ascesa delle civilizzazioni cinese e islamica. Le spinte anti-occidentali provengono, secondo Huntington, dalla seconda generazione successiva all’indipendenza (leggi: decolonizzazione) che, al contrario della prima emigrata in Occidente, ha studiato nei propri Paesi. Questa tendenza è forte soprattutto nei Paesi musulmani, dove si assisterebbe a una vera e propria rinascita islamica. Huntington non enfatizza troppo il cleavage fra musulmani moderati e radicali; il fondamentalismo rappresenterebbe solo "l’onda di superficie di una marea molto più vasta". Tale mobilitazione minaccia tutti i regimi della regione; non a caso anche i capi dello Stato più secolarizzati stanno tentando di non essere travolti introducendo norme e prassi di tipo religioso. Come detto, l’Islam stenta ad affermarsi soprattutto a causa dell’assenza di uno Stato-guida, ma l’arma principale dei Paesi islamici è rappresentata dalla pressione demografica. Ben diversa è invece la situazione dei Paesi dell’orbita cinese: la loro ascesa, oltre che demografica, è stata soprattutto economica. Sorprende, ma allo stesso tempo convince, la diversità di percezione delle potenzialità cinesi e giapponesi. Entrambe sono civilizzazioni estremamente self-confident e assertive, ma secondo Huntington solo la prima può arrivare a scontrarsi con l’Occidente. I motivi sembrano sostanzialmente riferiti alla sfera militare: la sconfitta nella seconda guerra mondiale avrebbe posto il Giappone in una condizione psicologica di sudditanza nei confronti degli Usa; la Cina, invece, starebbe accoppiando al progetto di ricostituire la grande nazione (con Hong Kong, Macao e in futuro Taiwan) anche una malcelata aggressività militare. La sfera della Cina può in futuro comprendere non solo Corea e Vietnam - che sono parte integrante dell’area sinic - ma anche i Paesi buddisti, islamici e cristiani dell’Asean. Questi Stati fuoriescono dalla sfera d’influenza del Giappone, che appunto non si autopercepisce come Paese asiatico. Huntington ricorda, infine, altri episodi di revival culturale in India, Africa, America latina e nei Paesi ortodossi, ma tali esempi sembrano rivestire, secondo lo stesso autore, una minore importanza.

- L’affermazione del relativismo culturale. Di fronte a tali episodi di rinascita culturale, Huntington intravede, come detto, grandi potenzialità di conflitto, anche armato. Vi è dunque l’assoluta necessità, onde evitare lo scontro, che gli Stati Uniti e i Paesi europei smettano di promuovere valori occidentali (come il rispetto dei diritti umani) in contesti culturali diversi. Nel settimo capitolo, Huntington afferma perentoriamente: the world will be ordered on the basis of civilizations or not at all! Ogni civilizzazione deve avere un suo core state e deve, inoltre, rispettare le sfere di influenza degli altri leaders. Quindi, se esistono nazioni di altre civilizzazioni che rientrano in tali sfere, il loro diritto all’autodeterminazione sarà soppresso. Tale proposizione si evince dalla trattazione di casi come quello della Cecenia, nazione islamica all’interno del territorio (russo) della civilizzazione ortodossa. Huntington non si vergogna, poi, di sostenere che l’Occidente sta applicando la prassi dei due pesi e delle due misure in diversi settori della politica mondiale: la promozione della democrazia, a patto che non riguardi Paesi con movimenti fondamentalisti islamici; l’opposizione alla proliferazione nucleare, eccetto il caso di Israele; la difesa del Kuwait, ma non della Bosnia. In ogni caso, tale posizione è in contrasto con la politica sostenuta dal partito democratico statunitense (prima con Carter, poi con Clinton) di attuare la cosiddetta condizionalità politica alle relazioni economiche internazionali (commercio e cooperazione allo sviluppo). Huntington, fra l’altro, non riesce a nascondere la sua soddisfazione per il fallimento di tali tentativi.

- La graduatoria esistente fra i diversi conflitti culturali. Huntington non sostiene che le guerre infra-civilizzazione non siano probabili: i dati statistici (decimo capitolo) mostrano che negli anni ’90 vi sono stati più o meno tanti conflitti armati culturali di secondo livello (esempi: Iran vs Iraq; tutsi vs hutu in Ruanda; protestanti contro cattolici in Ulster) quante guerre inter-civilizzazioni (come in Bosnia). La differenza principale sta nel fatto che queste ultime sarebbero più suscettibili di escalation (leggi: multilateralizzazione) rispetto a quelle infra-civilizzazione. Enfatizzo in positivo il ricorso dell’autore alla pertinente espressione "conflitto culturale" rispetto all’orribile attributo conflitto "etnico". Ecco un altro esempio: Huntington ritiene probabile un conflitto armato infra-civilizzazione tra Cina e Vietnam. Al proposito - rimando alla parte in cui approfondisco la sua teoria sulla balance of power multipolar-culturale - egli si limita ad auspicare che le potenze occidentali si astengano dall’intervenire! Un particolare curioso (e contraddittorio) è che viene ritenuta meno probabile la guerra fra la Cina e i Paesi islamici, buddisti e cristiani dell’Asean.

La teoria basata sulla previsione che i conflitti attraverseranno le fault lines fra civilizzazioni è stata confermata nei primi anni ’90, votazione sulle Olimpiadi del 2000 inclusa (Sidney vs Pechino). Huntington si è tolto la soddisfazione di mostrare, dati alla mano, che l’Islam ha i confini più sanguinosi di tutti (decimo capitolo); tralascio la sezione in cui egli tenta di individuarne le cause. Attualmente, secondo Huntington, ci sarebbe una tendenza a rimuovere, più che a risolvere, certi conflitti: uno dei motivi di tanti "cessate il fuoco" è imputabile alla stanchezza dei partecipanti.

Si potrebbe obiettare a Huntington che la pregnanza dei fattori culturali si è materializzata soprattutto nell’immediata congiuntura post-guerra fredda. Le recenti ondate speculative nelle Borse asiatiche, successive all’uscita del volume, sembrano confermare l’esistenza di un profondo conflitto economico sull’asse Oriente-Occidente. La suddetta previsione, quindi, andrà messa alla prova dagli sviluppi futuri della politica mondiale. Se essa sarà confermata, assisteremo ai seguenti fenomeni:

- un rafforzamento sul piano economico dell’alleanza Europa-Usa;

- il raffreddamento della liberalizzazione economica sull’asse Occidente vs Cina e Giappone;

- il fallimento dei tentativi di integrazione inter-civilizzazioni come l’Apec e l’Asean o come l’area di libero scambio in Medio Oriente, comprendente cioè un Paese occidentale come Israele;

- il successo dei tentativi di integrazione infra-civilizzazioni in America latina, Asia centrale ed Est Europa ortodosso;

- il progressivo riavvicinamento fra le due Coree;

- la non ammissione all’interno della Nato di Paesi ortodossi (la Romania, con lingua latina, potrà rappresentare un’eccezione?);

- l’inasprirsi del conflitto in Ucraina fra Ovest ed Est e in tutti i cleft countries, divisi cioè fra più civilizzazioni;

- il fallimento di tutti i torn countries, cioè quelli che tentano di ridefinire la propria identità tentando l’aggancio ad altre civilizzazioni: ad esempio, il Messico verso l’Occidente (con il Nafta) o l’Australia verso l’Asia (con l’Apec e non solo);

- la non ammissione all’interno dell’Unione europea della Turchia islamica (mentre l’ortodossa Grecia, grazie alla sua tradizione classica, continuerà a stare nella Ue, magari con basso profilo?);

- l’inasprimento delle norme anti-immigrazione, introdotte non solo in Europa o in Australia, ma anche in Paesi storicamente più liberali come gli Usa (negli anni ’90).

In realtà, Huntington non tratta tutti i cleavages fra civilizzazioni allo stesso modo; ad esempio, egli stesso ritiene che il conflitto non sarà approfondito né in Ucraina né fra Messico e Usa. Pur non ammettendo l’esistenza di due famiglie di civilizzazioni (occidentali e orientali) - a mio avviso perché egli ritiene l’Islam poco assimilabile alla cristianità - Huntington arriva alla conclusione che vi sono fratture più profonde e più portatrici di conflitto. La parte forse più "fantascientifica" del volume è quella che postula una possibile coalizione fra le due civilizzazioni non occidentali più assertive (Cina e Islam). Huntington stesso, comunque, ammette che tale coalizione sembra improbabile nel futuro immediato ed è attualmente confermata solo dai traffici di armi (nucleari e non). Potrebbe consolidarsi nella misura in cui, come detto, l’Occidente insistesse nel tentativo di diventare civilizzazione universale. In questi scenari "futuribili", riveste una speciale importanza la relazione che la Cina sarà capace di sviluppare con l’India e il Giappone; Huntington prevede che vi sarà forse conflitto con la prima e cooperazione con la seconda. Egli configura, dunque, una possibile bipolarizzazione fra due gruppi di civilizzazioni: Occidente+America latina+Africa+Est ortodosso+induismo versus Islam+Cina+Giappone. Nondimeno, Huntington suggerisce che gli Usa facciano tutti i tentativi possibili per evitare un avvicinamento eccessivo fra Cina e Giappone, favorendo l’emergere di una balance of power tra le due potenze orientali.

Quanto appena sostenuto è collegato alle prospettive dell’ordine mondiale basato sul rispetto delle aree di influenza di ogni civilizzazione. Il processo di risoluzione del conflitto in Bosnia - che ha coinvolto Usa, Germania, Russia e qualche Paese islamico - è stato forse il caso empirico che ha suggerito ad Huntington il modello multipolar-culturale. Ma anche in quel caso, si è trattato di potenze sempre e soltanto della famiglia "occidentale" (Islam incluso). La mia obiezione è la seguente: sarà un simile modello adattabile anche ai Paesi dell’area orientale? La cosa non è secondaria: forse fra civilizzazioni orientali e occidentali è possibile, come suggerisce Huntington, solo la non ingerenza. Ecco che si configurano, a mio avviso, due diverse modalità di costituzione dell’ordine mondiale (cioè di risoluzione dei conflitti): quella consensuale, basata su un joint decision-making process (all’interno della stessa famiglia di civilizzazioni), del tipo concert of powers; quella unilaterale fondata sull’astensione dall’agire (fra esponenti di diverse famiglie di civilizzazioni), sul modello della balance of powers. Mi permetto di sostenere come tale differenziazione, sottostimata da Huntington, non sia secondaria; e soprattutto come la mancata consapevolezza di una diversità di atteggiamento a seconda delle civilizzazioni coinvolte possa condurre gli Stati a minacciare l’ordine mondiale in fieri. In sintesi, intendo sostenere che l’ordine è molto più compatibile con un multipolarismo "concertato" - secondo gli scenari identificati da Rosecrance - che non "bilanciato" (con aggiustamenti unilaterali).

In ogni caso, la caratteristica principale di tale ordine sembra essere legata ad accordi da realizzare ad hoc, senza istituzionalizzare alcun principio costante di risoluzione del conflitto. La stessa auto-determinazione nazionale sembra essere tutelata seguendo la prassi del case by case: cioè qualche volta sì, nella maggioranza dei casi no. L’ordine di Huntington si configura, dunque, sempre più come un ordine imposto e niente affatto "democratico". Huntington però non approfondisce le possibili incompatibilità fra le esigenze delle civilizzazioni e delle nazioni, anche se dalle sue pagine emerge come il mancato riconoscimento del diritto di autodeterminazione ai croati e ai serbi di Bosnia possa essere in futuro causa di nuovi conflitti!

Nelle conclusioni, Huntington invita dunque l’Occidente, e in particolar modo gli Usa, ad abbandonare la pretesa di esportare i propri valori all’esterno: solo in tal modo saranno evitati conflitti e il processo di modernizzazione dei Paesi islamici e confuciani sarà meno portatore di disordini. Tali posizioni riecheggiano alcune prese di posizione di intellettuali conservatori (Kissinger) nel dibattito che si sviluppò negli Usa allorché Clinton tentò di condizionare la Cina al rispetto dei diritti umani, minacciando alcune sanzioni in campo commerciale. Allo stesso tempo, Huntington auspica che l’America resti occidentale e che siano abbandonate le pretese di trasformare gli Usa in un Paese multiculturale (un cleft country). Huntington è molto perentorio al proposito: questo svuotamento di identità porterebbe alla fine della civilizzazione occidentale! Senza gli Stati Uniti, l’Occidente si ridurrebbe all’Europa, cioè a una minuscola penisola minacciata da ingenti flussi migratori.

Huntington finisce quindi per fornire dei suggerimenti anche agli esponenti dei governi di molti Paesi: soprattutto quelli occidentali. Le singole politiche estere, dunque, dovrebbero essere formulate seguendo le linee orientative dei cleavages fra civilizzazioni, mettendo da parte forme sia di neo-colonialismo di tipo culturale sia di un neo-idealismo "politicamente corretto". A livello sistemico, viene promossa una riforma del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, riorganizzato sulla base dell’assegnazione dei seggi permanenti a: Usa, Europa (invece che Francia, Regno Unito e Germania), Russia, Cina, Giappone, poi un Paese latino-americano (Brasile), uno africano (Nigeria), l’India e infine, naturalmente, uno islamico oppure la rappresentanza dell’Organizzazione della Conferenza islamica. Huntington focalizza, dunque, l’attenzione sull’effettività delle istituzioni: quanto più esse rispecchiano la distribuzione del potere, tanto più saranno predisposte a funzionare.

Devo ammettere che le ultime pagine del volume di Huntington stupiscono, e non poco. Egli si chiede se non esista un minimo comune denominatore delle culture, smentendo, almeno in via apparente, quanto affermato nelle precedenti 300 pagine. Conferma, quindi, per l’ennesima volta la sua avversità all’utilizzo di concetti e ragionamenti troppo rigidi. In fondo, egli si limita forse a fare (un banale) riferimento alla possibile comune avversione ai cosiddetti "crimini contro l’umanità". Quindi, viene "tirato fuori dal cappello" proprio quel concetto di civilizzazione al singolare (leggi: "civiltà") che dovrebbe essere comune a tutte le diverse culture, anche se in forme e modalità diverse. L’appello (teosofico?) è rivolto a ciascuna civilizzazione, affinché siano combattute, nel massimo rispetto delle specificità, le diverse barbarie, si chiamino esse mafia, criminalità, schiavitù, svariate immoralità...

A questo punto, non resta che "passare la patata bollente" agli intellettuali "pluralisti", sia di destra che di sinistra, invitandoli ad animare il dibattito sui temi cruciali sollevati da Huntington. Aggiungo che tale dibattito dovrebbe, in linea di principio, interessare soprattutto gli ambienti intellettuali liberali e conservatori.

Il libro di Huntington contiene inoltre, a mio avviso, molti spunti che toccano da vicino il dibattito sulla politica estera italiana. Ad esempio, che senso ha promuovere un seggio permanente italiano al Consiglio di sicurezza? Huntington suggerisce invece (Andreotti docet) di accorpare i seggi europei all’Onu. Non dimentichiamo, poi, che la politica estera economica italiana si sta indirizzando verso aree geografiche appartenenti ad altre civilizzazioni: l’Est Europa, il Mediterraneo, l’Asia. Infine - ammettiamolo pure senza pudori - l’ispirazione vagamente nazionalista della nostra politica estera ha da troppo tempo perso capacità propositive; a mio avviso, essa può essere rivitalizzata proprio prendendo spunto dalle "provocazioni scientifiche" dello studioso di Harvard.

Fabio Fossati


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1998