Feuilleton. Speciale cinema
ASCESA (POLITICA)
E CRISI DELLA CRITICA

di Renato Filizzola

Aveva pur sempre una qualche dignità la professione del critico cinematografico intesa come compensazione e rivalsa dalla delusione e dall’amarezza di aver tentato invano di fare cinema non al di qua ma al di là dello schermo, e di non esserci riusciti per sfortuna o incapacità di padroneggiare l’ispirazione, la fiction e la macchina da presa.

Così come ce l’aveva l’interpretazione goliardica del critico come spettatore privilegiato che si distingue dalla massa degli spettatori perché trova dove poter scrivere ciò che gli altri pensano o, al massimo, si appuntano. Uno che guadagna denaro sull’altrui tempo libero (l’osservazione è di Morando Morandini), spiegando come e perché ciò che hanno visto o vedranno è bello o brutto.

Oggi i critici hanno abbracciato il ruolo di annunciatori di Eventi, ovvero grandi film, inserendosi per sventatezza o altro in una logica di mera promozione. I privilegi sopravvissuti alla crisi categoriale - anteprime, anticipazioni, visioni riservate - non fanno altro che sottolineare la loro sudditanza. Sotto lo stretto controllo degli uffici stampa della produzione e della distribuzione, il nuovo soggetto professionale fornisce succose anticipazioni sui film in lavorazione, intervista il regista, partecipa con seriose domande alle conferenze stampa delle attrici protagoniste sguinzagliate qua e là per fare pubblicità, nuovo Zelig fra telecamere e fotografi. Gli è consentito ancora emettere giudizi, a patto che giungano a campagna promozionale conclusa e passino inosservati.

Agli inizi, nei primissimi anni del dopoguerra, in una società ancora povera d’immagini, il critico cinematografico è un tramite essenziale fra il cinema e lo spettatore che vuole sapere se questo o quel film valga il costo del biglietto. Le buone recensioni affollano le sale; le cattive le vuotano. Quando, però, il critico si organizza come categoria e diventa sindacato, nel momento stesso in cui si rigenera in operatore culturale e assume un ruolo politico, incomincia la sua strumentalizzazione e la sua resa.

Lo Stato lo arruola come esperto per assegnare premi e ristorni erariali, per concedere finanziamenti e organizzare festival. Produttori e distributori hanno bisogno di tenersi buona la categoria per assicurare ai loro film la migliore accoglienza. Più ci si allontana dagli anni del dopoguerra, dal cinema ancora in bianco e nero, e più cambia il mestiere del critico: tentato, circuito, ammorbidito.

Omologati al sistema produttivo del cinema, i critici italiani cercano un riscatto e lo trovano politicizzandosi. Abbracciata, dunque, una fede politica, meglio se di sinistra, il critico, per calcolo o per ingenuità, ne diventa zelante interprete e crede di servire la giusta causa con giudizi ora animosamente negativi ora smaccatamente elogiativi. "Andate a vedere Sul Volga, andate a vedere La fabbrica del grano - prorompe Tommaso Chiaretti sull’Unità - a vedere questa gente felice che lavora per la pace, con il sorriso sul volto. È uno spettacolo che a noi apre il cuore e ci fa camminare con fiducia e gioia sulla nostra strada".

Una storia da dimenticare e su cui non infierire troppo, se non avesse influito sulla produzione italiana, presentando i film come veicoli di un messaggio da accogliere o da respingere, classificandoli in buoni e in cattivi anzichè in belli e in brutti, secondo il principio che i buoni (ideologicamente) sono anche belli, mentre i cattivi (sempre ideologicamente valutando) sono sempre brutti.

Il cinema italiano del dopoguerra si rinnova con il neorealismo, ma cerca un mercato con i film di evasione. Mentre il neorealismo gode presso la critica di un appoggio incondizionato sia per la novità dello stile sia soprattutto per i temi che tratta - l’antifascismo, la lotta partigiana, la condizione del proletariato, la condanna dello sfruttamento capitalistico - compatibili con gli obiettivi politici delle sinistre e anche della Democrazia Cristiana - che li condivide in larga parte, specie nelle sue componenti di sinistra -, i film di evasione, e tanto più quelli che propongono modelli di vita disinvolti o spregiudicati, non trovano protettori politici e quindi neppure critici benevoli. La vittima più illustre è il poi compianto ed esaltato Totò, i cui film i titolari della critica dei principali giornali italiani rifiutano di recensire, inviando i loro vice a vederli e talvolta ignorandoli affatto.

Questa linea mantenuta costantemente dalla critica si è in pratica espressa come pregiudiziale contro i film popolari, ma non populisti, della commedia all’italiana, cioè il genere più congeniale alla produzione nazionale. Fatto oggetto di tanto ostracismo, dopo una promettente fioritura che coincide fra l’altro con il periodo (gli anni ’60) in cui i film italiani eguagliavano per numero e per incassi quelli americani, il genere entra in crisi. Vengono meno sia gli investimenti dei produttori in questi film sia la disponibilità degli autori a dedicarsi ad opere che, per il fatto stesso di non avere il crisma dell’impegno politico-ideologico, si sa che avranno un’accoglienza quanto meno fredda se non ostile.

Alla commedia all’italiana la maggioranza dei critici per militanza o per sudditanza di sinistra non perdona che faccia sorridere, che rappresenti l’Italia del boom e dell’incipiente benessere. Il Paese, invece, va raccontato come lo vede l’opposizione comunista con tutti i suoi rancori: i soggetti cinematografici debbono rappresentare lo sfruttamento dei deboli, l’arroganza e la corruzione dei potenti, la miseria, l’emarginazione. In clima di guerra fredda, la vita è bella solo nelle democrazie popolari: dove queste si propongono senza l’aggettivo è sempre un inferno.

Nell’impossibilità di contrapporre film ispirati al realismo socialista, presto abbandonato anche dai più fervidi sostenitori del primato della cinematografia sovietica, sono legittimati come politically correct quei film che almeno nulla concedono al pubblico se non l’onore di essere destinatario di un messaggio tanto personalizzato da risultare il più delle volte incomprensibile. Via libera, dunque, sulla scia del maestro Michelangelo Antonioni, ai film "difficili", autoriali, titolari fin dal momento del concepimento di contributi e sovvenzioni statali e destinati non tanto ad assicurare incassi nelle sale quanto a rappresentare il cinema italiano alle mostre e ai festival. Più risaltano il linguaggio ellittico, il carattere provocatorio dei messaggi, la scabrosità delle situazioni e delle immagini, tanto più appagata sarà la critica.

Da una parte, dunque, una commedia all’italiana vituperata, di cui presto si impadroniranno produttori di pochi scrupole e registi di secondo livello per riproporla in chiave di volgarità e di banalità, avviandola a prematura fine; dall’altra, il cinema d’autore sempre più élitario e supponente. Queste due tendenze concomitanti hanno sottratto al cinema italiano milioni di spettatori, in particolare quel pubblico familiare che andava al cinema con regolarità e assicurava gli incassi. Il successo che ha premiato sporadicamente opere di indubbia qualità o anche, insieme con esse, film capaci di creare scandalo, polemiche e talvolta il rigetto da parte dello spettatore "medio", non ha compensato per entità e continuità la base economica ben più solida e consistente, che assicurava un cinema diversamente orientato come quello americano. Che, infatti, ha dominato e domina tuttora sugli schermi italiani appunto per il suo carattere popolare; a dispetto dei giudizi tutt’altro che entusiasmanti della nostra critica nei suoi confronti.

Tutti i film che non rientrano nel concetto di impegno, com’è formulato e codificato a sinistra, che propongono una visione del mondo diversa da quella marxista, sono automaticamente classificati "di destra". In qualche caso vi si aggiunge un sospetto di fascismo, in qualche altro ci si sbriga assegnandoli alla vasta quanto vaga categoria del qualunquismo. Qualunquista è per esempio André Cayatte i cui film sono accolti da un vero e proprio fuoco di sbarramento, specie dopo che alla Mostra di Venezia Il passaggio del Reno soffia il Leone d’oro a Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti, suscitando tra i critici al seguito reazioni quasi isteriche.

La diffidenza non risparmia il grande Roberto Rossellini allorché si dedica ai film per la TV e firma Gli atti degli apostoli, Pascal, Cartesius, Agostino d’Ippona, Socrate e La presa del potere da parte di Luigi XIV. Fin dall’esordio Franco Zeffirelli è presentato come un’autentica calamità per il cinema italiano. Lapidaria la sentenza del giovane critico dell’Unità, Gillo Pontecorvo, quando appare Notorious di Alfred Hitchcock: "Il film è assolutamente sprovvisto di qualità artistiche". Un giudizio sulla stessa lunghezza d’onda di Rinascita, settimanale culturale del Partito comunista italiano, che nello stesso periodo - gli anni dello stalinismo - definiva Thomas Stearn Eliot "un pallone gonfiato" e Ignazio Silone "un poco di buono".

Gli anni passano ma il vizio rimane. Il cacciatore, di Michael Cimino, fa andare fuori dei gangheri la critica militante di sinistra. Alberto Moravia si scusa per il fatto stesso di doverlo recensire per L’Espresso e sul contenuto cita Oscar Wilde: "Bisognerebbe avere un cuore di pietra per non ridere". Tullio Kezich su Panorama ne rileva "l’aspetto sguaiato e inaccettabile: la raffigurazione dei vietcong come mostri che torturano barbaramente i prigionieri sotto il ritratto di zio Ho" e si dichiara solidale con la decisione dell’Urss e degli altri paesi dell’Est europeo che ritirano le loro delegazioni al festival di Berlino dove il film di Cimino sarà presentato.

Chi ha un po’ di memoria, non senza sorpresa ha appreso che Il cacciatore è stato allegato in videocassetta come gadget promozionale a L’Unità del 25 novembre 1995; e più ancora si stupisce allorché il quotidiano del Pds, per giustificare una scelta che evidentemente ritiene ancora imbarazzante, fa autocritica riconoscendo che nel 1979, quando apparve il film, benché Stalin e il XX congresso del Pcus fossero passati da un pezzo, una pesante cappa ideologica pesava ancora sulla cultura e sulla critica cinematografica di sinistra. Da ciò una ammissione illuminante: per un certo periodo di tempo - spiega dottamente L’Unità - la funzione della critica fu alterata da motivazioni politiche e da necessità di allineamento.

Il problema è che la critica continua a prestarsi alle strumentalizzazioni politiche; vi aggiunge, anzi, quelle promozionali e commerciali.

Nel 1995 esce Sostiene Pereira di Roberto Faenza, dall’omonimo romanzo di Antonio Tabucchi. I riconoscimenti vengono assegnati sulla parola. Nessuno ha visto neppure uno spezzone del film, ma intanto inviati speciali vengono spediti a Lisbona a spese della produzione, per fornire anticipazioni o intervistare Mastroianni. Quando Sostiene Pereira finalmente entra nelle prime visioni, si deve prendere atto che è andata sprecata l’attesa per un prodotto che si rivela come la banalizzazione fumettistica del racconto. I personaggi della storia sono figure convenzionali, didascaliche, cui si affida la rappresentazione dello scontro tra fascismo e antifascismo e la tesi che nessuno deve credere di poter restare estraneo. Si salva solo Mastroianni con la sua compostezza e misura d’interprete benché neppure lui possa sottrarsi al flop drammaturgico.

I critici, per non deludere l’attesa da essi stessi creata, ricorrono ai trucchi del mestiere. Eccoli allora lodare, come Tullio Kezich sul Corriere della Sera, il "devoto rispecchiamento" del romanzo e il valore democratico dell’interpretazione di Mastroianni; o, come Irene Bignardi su Repubblica, il sentimento della favola politica di Tabucchi-Faenza che invita "di questi tempi" a non restare neutrali e indifferenti. Insomma, Sostiene Pereira è brutto e noioso, falso e patinato, ma politically educativo; quindi da vedere.

Evviva, allora, la sincerità di Alberto Crespi (L’Unità). Noi critici - scrive - arriviamo ultimi, perché il film, prima ancora di essere girato, era già un caso culturale, ma non possiamo tirarci indietro, dobbiamo portare il nostro contributo "alla vigilia di un tour de force elettorale tutt’altro che tranquillo (si tratta delle elezioni regionali del 1995. Nda), in un’epoca di berlusconismo rampante e per nulla rassegnato".

La vocazione alla sudditanza o alla complicità non solo verso i politici ma anche verso i produttori, o tutti e due insieme, si conferma lo stesso anno di Sostiene Pereira allorché, fra divertimento e stupefazione, si assiste alla vicenda di Il postino di Michael Radford, che segna l’ultima apparizione sullo schermo di Massimo Troisi. Del film non sfuggono la sceneggiatura zoppicante, puntellata qua e là da invenzioni di cinema amatoriale, e la retorica pretesa di inserire la gracile storia nel contesto di un’epoca di forti contrapposizioni ideologiche. Ma che importa? Vi si rievoca il soggiorno in Italia di Pablo Neruda, uno dei simboli del comunismo internazionale, e tanto basta perché sia invitato alla Mostra di Venezia.

Quando entra tra i candidati al premio Oscar 1996 con cinque nomination, il film diventa addirittura la sfida del cinema italiano progressista al cinema hollywoodiano delle majors, l’esempio di un cinema "buono" - da poco è stato inaugurato il buonismo veltroniano -, la risposta europea alla spazzatura ideologica dei film americani, al modello di società violenta, consumistica, edonistica che essi propongono. Non pago, il Pds, patrocinando il rimpianto per Troisi, immagina di poter fruire di riflesso della simpatia e dell’affetto che circondano la memoria dell’attore di cui si autonomina custode ed esecutore testamentario. Per la notte degli Oscar, a Napoli si organizzano ben tre veglie collettive davanti ai megaschermi, che costringono Antonio Bassolino a correre trafelato dall’una all’altra, cercando di raccogliere nel nome di Massimo applausi e consensi per se stesso.

Pochi critici si sottraggono allo sdegno pilotato dalla sinistra per la mancata vittoria. La manifestazione, da sommo e ineguagliabile premio della cinematografia mondiale, è immediatamente retrocessa a sagra hollywoodiana di celebrità, finalizzata a servire interessi di bottega. C’è chi sostiene che la sconfitta del film italiano sia il risultato di una campagna diffamatoria e chi scopre improvvisamente che l’Oscar, esaltato fino al giorno prima, non ha tutta l’importanza che gli viene attribuita: è stato inventato solo per fare pubblicità al film americano.

L’episodio non segna, però, un ripensamento in generale, un ritrovato distacco critico da ciò che il cinema inventa per vendere se stesso. Gli spazi che i giornali e le riviste riservavano alla critica si sono ristretti. La recensioni non seguono più rigorosamente le uscite dei film in prima visione; sono pubblicate quando c’è l’opportunità per farlo e, nei grandi quotidiani, spesso sono estromesse dalle pagine nazionali per finire nelle cronache locali e cittadine.

Il critico cinematografico finisce per essere utilizzato come cronista di spettacolo, in subordine ai colleghi che si occupano di televisione, alla quale il largo ascolto del pubblico assicura anche il posto d’onore nei giornali.

Il bilancio non potrebbe essere più scoraggiante. Ai critici non resta che aggrapparsi, per non affondare, ai festival, alle mostre, ai premi, e non perché si richieda specificamente il loro giudizio sulle selezioni che vi sono presentate, ma in quanto avvenimenti di grande richiamo che compongono insieme spettacolo e mondanità, esibizionismi e dirette, passerelle divistiche e pettegolezzi al seguito; e richiedono quindi di essere seguiti da più giornalisti e cronisti. La frequentazione e la consuetudine di questi appuntamenti ha qualificato i critici come esperti e, un poco alla volta, ne ha fatto anche degli organizzatori e dei promotori.

Le firme più accreditate vanno in cerca di sponsors, coltivano assessori regionali e comunali, inventano premi e rassegne, si fanno incessanti distributori di targhe, coppe, anfore e statuette. Altri sono stati arruolati dalle tv in qualità di esperti e consulenti nell’acquisto dei film offerti dal mercato, e non hanno scrupoli nell’accreditare come film di qualità autentici avanzi di magazzino. Ma è un ripiego quasi giustificabile di fronte alla crisi di un ruolo, al quale non si offre che di anticipare l’opinione degli spettatori, senza mai contraddirla. Debbono accontentarsi d’improvvisare, ricamando sulle impressioni ricevute, codificando umori personali, spacciando per buoni i più vieti luoghi comuni. Ma può toccar loro di peggio, come compilare pagelle dei film e doversi esprimere con palline, rombi, asterischi, faccette ridenti o arrabbiate.

Giustificata e quasi attesa appare, dunque, la rivolta di Goffredo Fofi, che si è scagliato contro La tregua di Rosi, dal racconto di Primo Levi, quando ancora il film era in lavorazione. "Non l’ho visto - ha scritto - e forse non mi piace". Un modo barricadiero di riprendere una identità: il critico come deterrenza.

Sempre meglio che avviarsi, rassegnati o complici, verso l’estinzione, non avendo più un oggetto chiaro a cui applicarsi. Liberi, come gli indiani delle riserve, soltanto di scorazzare nei territori assegnati, dentro e attorno ai palazzi del cinema.

Renato Filizzola


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1998