Soggetti
in transizione
FORZA ITALIA A CONGRESSO
di Roberto Chiarini
Sono trascorsi solo
quattro anni da quando Forza Italia ha fatto la sua apparizione, ma questi
quattro anni sono stati così densi di esperienze che valgono un intero
ciclo di vita. Accolta tra lo scetticismo generale, la neonata formazione ha
bruciato i tempi normali di sviluppo di un qualsiasi movimento politico.
Nell’arco di pochi mesi si è impiantata, ha unificato lo schieramento di
centro-destra (riuscendo là dove tutti avevano fallito prima), con questo
ha vinto le elezioni, ha ottenuto infine la premiership del governo.
Dopodiché, in tempi altrettanto rapidi, ha percorso la metà declinante
della traiettoria: prima il passaggio all’opposizione, poi la sconfitta
elettorale, da ultimo l’appannamento della leadership di coalizione. Oggi,
al tornante del suo primo congresso nazionale, si trova in un’impasse
quanto mai grave. I termini della sua sfida odierna si possono così
riassumere: se mantiene l’attuale assetto politico ed organizzativo
rischia di non essere attrezzata a sufficienza per arginare il presente
stato di fibrillazione del centro-destra - preludio forse di future, più
energiche spinte centrifughe -; se lo rivoluziona, rischia di perdere le
risorse (certe) che le hanno comunque permesso di attestarsi nelle
consultazioni politiche a ridosso del 20 per cento - quasi alla pari con il
Pds - in vista dell’(incerta) acquisizione di nuove risorse, capaci di
farla ritornare vincente.
La letteratura, già
copiosa, che si è esercitata sull’evento - di per sé eccezionale -
dell’apparizione di un nuovo soggetto politico nella desolata landa della
destra italiana è rimasta per lo più abbacinata dalla novità/anomalia del
"partito che non c’è", punto di coagulo di una generale
reazione di sbigottimento di fronte all’effetto-sorpresa della sua
affermazione. Ha faticato, in particolare, a sottrarsi alla maledizione
storica che accompagna dal ’45 qualsiasi espressione di destra nel nostro
Paese e che la condanna ad essere, sempre e comunque, parificata ad una
"minaccia della democrazia". Se agiva informalmente nella società
civile (valga per tutte la maggioranza silenziosa dei primi anni Settanta)
era rappresentata come "un’oscura minaccia"; se si strutturava
in partito, era additata come "un’aperta provocazione".
L’auspicio, nemmeno troppo sottaciuto, era che la destra non dovesse
esistere. Il riflesso condizionato innestato dalla lezione
gramscian-azionista portava a equiparare ogni espressione di destra ad una
semplice variante della stabile vocazione antidemocratica della borghesia
italiana, in quanto strutturalmente non "capace di sviluppare
l’economia e la società". Il fantasma che ha popolato i sogni di più
generazioni di "democratici" era inevitabile che apparisse ora
nelle vesti, più che sospette, del "partito che non c’è": un
sottile (im)pudico velo di copertura per poteri quanto meno impresentabili,
se non torbidi.
La sottolineatura
della novità/anomalia del cosiddetto "partito-azienda" - ma forse
è meglio chiamarlo "azienda-partito", dal ruolo determinante
svolto dal patrimonio di risorse umane ed infrastrutturali messe in campo da
Berlusconi come imprenditore della comunicazione -, estrapolata dal
contesto, finisce col dar corpo ai più inquietanti timori su un possibile
inquinamento della democrazia. Con il che il cerchio si chiude. Giunto alla
meta, il percorso conoscitivo ci riporta al punto da cui ha preso le mosse.
Dimostra, cioè, l’assioma di partenza dell’inaffidabilità e
dell’impresentabilità della destra. Nell’auspicata democrazia
dell’alternanza una destra deve pur esserci. L’antico rifiuto opposto
alla legittimità della destra si riclassifica nell’illegittimità non più
della destra in generale, ma di questa destra. La preoccupazione conoscitiva
si risolve in risorsa politica, pronta ad essere proficuamente impiegata
nell’occasione più propizia, come in effetti è stato. Con il risultato
di intentare un processo all’(unica) "destra che c’è" in nome
di un’(improbabile) "destra che ci dovrebbe essere". E - si sa -
"il dover essere" è spesso il miglior modo per negare
"l’essere".
Intendiamoci, il
rilievo dell’anomalia del partito patrimoniale - per riprendere una felice
definizione di Marco Maraffi - era, ed è, fondato ma troppo assolutizzato
per non risultare un wishful thinking. Per essere sottratto ad un uso
polemico quel dato va ricollegato ai tanti altri dati originali
caratterizzanti il fenomeno Forza Italia. Altrimenti si manca l’obiettivo
precipuo di un sincero sforzo intellettuale che dovrebbe essere appunto
quello di cogliere, al di là delle personali inclinazioni politiche,
l’intero portato dell’impasse in cui si dibatte oggi il "partito
degli azzurri".
Il primo tratto
anomalo di Forza Italia, anomalo nel senso di inusuale nella genesi di un
partito - e da sottolineare perché particolarmente gravido di conseguenze
per la vita futura del partito -, è che la creatura di Berlusconi non vede
la luce al termine di una gestazione: non conta se più o meno lunga, se più
o meno tribolata, ma comunque a coronamento di un’elaborazione di idee e/o
di un travaglio di gruppi dirigenti politici approdati alla decisione di
autonomizzarsi per dare attuazione ad un proprio progetto di partito. Essa
nasce, al contrario, a posteriori. Nasce non per trovare un posto a qualcosa
che c’è ma per riempire un vuoto che s’è improvvisamente aperto.
Il riscontro genetico
è doppiamente istruttivo. Istruttivo sull’affanno (e
sull’improvvisazione) con cui nell’immediato si rimedia ad
un’emergenza (e si coglie un’opportunità). Istruttivo soprattutto sul
deficit di risorse che si incamera, in prospettiva, nell’impresa avviata.
Ed è proprio nello scarto tra la soluzione adottata nel breve periodo e
quella - non conta se esplicitamente o solo implicitamente - accettata nel
lungo, che si coglie il carico dei problemi e delle sofferenze riversatosi
col tempo sulle spalle di Forza Italia e ragione oggi della sua impasse.
Nella voragine
spalancatasi al centro del sistema politico a seguito del terremoto messo in
moto da Tangentopoli, la soluzione Berlusconi non era solo (realisticamente)
l’unica risposta possibile alla sfida della rappresentanza dei cosiddetti
ceti moderati orfani dei partiti governativi. Era anche la risposta a suo
modo confacente al tipo di sfida apertasi nel mercato politico a seguito del
crollo di fiducia e di credibilità della forma-partito tradizionale,
connotata dal professionismo politico e sbrigativamente parificata
nell’immaginario collettivo a "sentina di tutti i mali". Il
patron della più importante emittente televisiva privata era l’unico che
potesse mettere in campo un network altamente professionale e collaudato
nella comunicazione di massa, immediatamente adattabile ai fini della
raccolta di consenso elettorale e dell’allestimento, in tutta fretta, di
un ceto politico sostitutivo. Al contempo, era in possesso di altre due
risorse politiche decisive. Personalmente, si offriva come il prototipo
dell’imprenditore fai-da-te di cui un’opinione pubblica nutrita di
antipartitismo aveva disperatamente fame. Collettivamente, era il titolare
di un’infrastruttura di comunicazione dal profilo politico per così dire
solo neutro - a parte ovviamente quello indiretto, implicito nella natura di
impresa privata operante nel settore dell’intrattenimento televisivo della
sua emittente -, quindi perfettamente fungibile alla messa in valore di un
segmento di mercato politico frammentato nelle appartenenze pregresse e
sospinto dall’impetuoso vento di "nuovismo" spirante
nell’opinione pubblica a premiare una rappresentanza con debole caratura
partitica e viceversa con forte capacità di espressione della società
civile.
Tutt’altro discorso
si deve fare per il carattere della sfida nel più lungo termine. La
soluzione adottata nell’immediato aveva (ed ha) probabilità di innestare
una spirale virtuosa ai fini del consolidamento di un partito, nuovo e
vincente, sul fronte del centro-destra solo se concepita in modo per così
dire modulare, come soluzione-tampone in grado di coprire nell’immediato
un vuoto che doveva (e deve) essere col tempo riempito. Aveva senso,
insomma, se era "di servizio", ossia in grado di avviare un
processo che si proponesse di rimediare il carico - pesantissimo - di
ritardi e passività che pesavano, e col tempo avrebbero sempre più pesato,
sull’ambizione di costruire uno stabile, e mai esistito, "partito
liberale di massa". Il vuoto di cultura, di uomini, di classe
dirigente, di reti associative di sostegno, persino di luoghi elementari di
sociabilità coerenti col disegno politico era così spesso e così di lunga
data da richiedere una cura particolarissima per essere riempito, peraltro
solo col tempo e solo grazie ad un’attenzione privilegiata.
Chi si appella in
Italia a una tradizione di cultura liberale deve ricordarsi che da noi essa
ha una storia specialissima. È anzitutto, per definizione, cultura d’élite.
Inoltre, ha perso, dal tempo almeno del fascismo, ogni concretezza politica
per sperdersi, alla sua caduta, in diversi rivoli, per di più incorporando
una mai del tutto ricomposta avversione tra laici e cattolici. Ha
conservato, infine, un’antica piega giacobina che l’ha spinta a
declinarsi preferibilmente, e con più profitto anche in questo dopoguerra,
con progetti di respiro dirigista e politicista alla stregua del Partito
d’Azione.
Quanto a risorse umane
ed organizzative, qui lo scompenso è ancor più grave e consolidato. Un
progetto di partito liberale è per definizione socio-centrico e il suo
referente non può che essere la borghesia. Ebbene, sappiamo tutti che, se
la borghesia è per definizione un aggregato sociale difficilmente
mobilitabile nelle forme collettive dei cosiddetti "partiti
d’integrazione di massa", quella italiana è addirittura restia a
qualsiasi impegno politico diretto. La sua norma comportamentale è
riassumibile nella massima "casa e bottega" (quando è produttiva)
o prevalentemente inscritta nelle forme del patronato (quanto è
impiegatizia o commerciale); il che l’ha portata a nutrire un radicato
pregiudizio sfavorevole, in generale, alla politica e, nello specifico, ai
partiti. L’individualismo asociale della borghesia italiana è talmente
spinto che, a parte una copiosa produzione di "associazioni
d’interesse" finalizzate alla difesa particolaristica appunto degli
interessi di categoria, non ha sedimentato una vera rete - com’è stato
invece, ad esempio, nei Paesi anglosassoni - di "associazioni di
solidarietà", luoghi privilegiati di elaborazione di un’identità
collettiva e di una cultura civica, in assenza delle quali è impresa vana
aspirare ad esercitare una qualche forma di egemonia nella società.
Si coglie a questo
punto nella sua interezza la portata della sfida ingaggiata da Forza Italia,
una sfida che non è esagerato definire storica e che quindi, per essere
vinta, richiedeva un impegno assiduo ed uno sforzo di fantasia non comune
nell’inventare una forma-partito adeguata alle ambizioni. Anzi, a voler
esser sinceri, a tutto ciò andava aggiunto dell’altro. In primo luogo,
l’avvertenza di non deflettere mai dal contrastare l’inevitabile spinta
ad una sua "integrazione passiva" al modello partitocratico che,
nonostante i proclami ufficiali in senso contrario, sovraintende (per i fin
troppo noti motivi) alla logica del sistema politico, se non altro per forza
inerziale. In secondo luogo, la consapevolezza che la scelta organizzativa
socio-centrica non era un’opzione contrattabile ma un vero imperativo
categorico da rispettare, se almeno essa voleva evitare che l’ambizione di
"essere nuova" non scadesse nel solo "apparire nuova", e
che l’originaria carica anti-partitocratica e anti-establishment, sua vera
linfa nutritiva all’origine, non venisse annullata al momento
dell’istituzionalizzazione del movimento in partito.
Non può sorprendere
che, a fronte di un siffatto carico di sfide nel lungo periodo, nel breve
siano emersi molti, e gravi, motivi di disagio. A parte il margine di
discrezionalità goduta dalla leadership di un "partito
patrimoniale" (con il corollario del conflitto d’interessi, tuttora
in attesa di essere sciolto), a parte l’intrinseca difficoltà di
mobilitazione dell’opinione pubblica in mancanza di innervazioni vitali
nella società, a parte il problema irrisolto del reclutamento di una
stabile, preparata ed autorevole classe dirigente, a parte tutto questo - e
non è poco, ma è già stato più volte rimarcato -, c’è un ulteriore
riscontro: un partito alla mercé di un vertice autocratico ha un rapporto
necessariamente precario e instabile con la base ed una gestione politica
esposta a continue oscillazioni, con le conseguenze negative intuibili in
termini di presa elettorale e di credibilità presso l’opinione pubblica.
Come si vede, per i
dirigenti di Forza Italia (e, più in generale, per tutti quelli che
aspirano a disporre di un forte partito, o schieramento, liberale di
centro-destra) ce n’è abbastanza per farli disperare di riuscire
nell’impresa. Ma ce n’è anche per i loro antagonisti. Per l’opinione
pubblica che crede davvero sia il sale della democrazia la competizione
aperta tra una sinistra ed una destra entrambe liberali, lo sforzo di Forza
Italia richiederebbe un’attenzione meno preconcettamente liquidatoria. Se
ne sono accorti anche molti dirigenti dell’Ulivo, quando hanno paventato
di veder franare con la "destra che c’è" pure l’abbozzo di
"democrazia bipolare che c’è".
Roberto
Chiarini |

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