Feuilleton. Speciale cinema
PICCOLI AUTORI
SENZA IMPORTANZA

di Eugenia Cavallari

Il cinema italiano, coltivato ormai da tempo in condizioni di serra, a base di articoli 28 e di finanziamenti Rai, è finalmente riuscito, quest’anno, a battere almeno in patria la concorrenza americana. Quasi tutto è dovuto all’esplosione di Pieraccioni, che ha dato improvvisamente, a un mercato bonsai, dimensioni quasi normali. Ma bisogna riconoscere che non è un fenomeno isolato. Sembra effettivamente esserci di nuovo un cinema italiano, con un suo pubblico generazionale e una nuova leva di attori ed autori. Il penoso divario tra ambizioni autoriali (alte) e resa effettiva (bassa), che affliggeva lo spettatore di film nazionali, si è ristretto. Ci sono meno registi che aspirano a essere Fellini, ma ci sono meno risultati tragicamente pedestri. Fino a pochi anni fa vigeva una diarchia senza speranza, tra film di cassetta di attori comici (Nuti, Verdone, Benigni, Troisi, oppure Vanzina & company) e tentativi, più o meno malriusciti, di raccogliere la dispersa eredità dei nostri grandi maestri. In mezzo, il deserto. Unica eccezione, e per questo amata in modo a volte eccessivo, Nanni Moretti. Oggi, invece, sembra cominciare a prendere corpo una produzione media, sia pure ridotta (nel 1997 si sono prodotti ancora meno film italiani, nonostante il tanto decantato sorpasso), che può diventare un terreno di coltura e di formazione. È questo che, infatti, ci è mancato per tanto tempo: un’industria media, professionale in tutte le sue componenti, da quelle produttive a quelle artigianali e creative, che costituisse una scuola e un deposito di conoscenze trasmesse attraverso i mille mestieri del cinema.

Per rendersi conto di quanto si è perso, basta consultare la bella trilogia di Fofi e Faldini, L’avventurosa storia del cinema italiano, raccontata attraverso le testimonianze di attori, produttori, registi, sceneggiatori, ma anche truccatori, fotografi di scena, operatori, sarte, maghi degli effetti speciali, e così via. Si ha sotto gli occhi, sfogliandone anche distrattamente le pagine, l’immenso serbatoio di talenti che sono stati i film di serie B, anche i peggiori, persino i filmacci di Pierino, con lo strascico di vitalità produttiva e di pubblico che la cinematografia media o infima si porta comunque dietro.

Oggi, a parte i comici nuovi e seminuovi, cominciano ad esserci attori, registi, sceneggiatori con un loro pubblico, magari cresciuto intorno a qualche fortunata esperienza teatrale, come Longoni, Marino, Quartullo o la rinnovata coppia Gassman-Tognazzi. A parte qualche insistente tentativo in direzione di un neorealismo impegnato, che finisce invece sempre per assumere un aspetto inattendibile da fiction televisiva, il nuovo cinema italiano si è concentrato, trovando una sua riconoscibilità, su piccole storie quotidiane, con un tocco di faciloneria sociologica che aborre le sfumature. Come nota Francesco Maiello nel suo articolo, il linguaggio visivo adottato rifiuta quasi ogni innovazione, e questo, lungi da essere semplicemente una scelta innocente o "formale", seleziona e restringe i possibili significati. Vediamo quali sono, questi significati, in quali contenuti, e quindi in quali riferimenti ideologici e culturali il pubblico di questi film si riconosce. Pieraccioni è solo il più geniale esemplificatore, quello che con più coraggio, e più immediata identificazione personale col suo pubblico, ha creato il prototipo di un genere, facendone un piccolo classico.

Si tratta, come abbiamo accennato, di piccole storie, piccole vite, piccoli problemi. In questo contesto un linguaggio meno tradizionale, meno visivamente sciatto sarebbe fuori posto. I tempi lunghi delle riprese (niente montaggi mozzafiato, bruschi salti, movimenti di camera troppo veloci) sono quelli proposti dalla vita, dalle giornate del protagonista, il cui tempo interiore coincide in tutto con l’esteriorità, lo scorrere pacifico dei giorni in qualche sereno paese di campagna, o in qualche piccola città di provincia. Quasi nessuno, se escludiamo la Napoli di Martone (L’amore molesto) e la Milano di Soldini (L’aria serena dell’Ovest), ha provato a mostrare l’Italia per quello che realmente è: un luogo dell’Occidente post-industriale. In generale, se togliamo il filone mafia-piovra-Ustica, sembra invece un luogo in cui succede assai poco. Un Paese, tutto sommato, antico: in cui si crede alla famiglia, all’amicizia, all’amore per sempre, in cui si accettano e si assorbono le diversità. Un Paese assai poco "cannibale", che ha molta voglia di conservare se stesso.

Basta vedere la marcata intergenerazionalità esibita nelle storie di Pieraccioni, che assumiamo come esempio aureo del genere. Nonostante si rivolga a un pubblico di coetanei, c’è sempre la figura di un adulto, o addirittura di un vecchio, che trasmette un sapere, un’antica saggezza da cui prendere esempio: che sia l’ex maestro, il nonno o il vicino di casa. Anzi, questo richiamo alle radici, il regista lo ha volutamente legato agli anni Sessanta, chiamando a interpretare il nonno invisibile, la cui voce echeggia nella campagna, Mario Monicelli, figura che riassume in sé un mondo e una tradizione cinematografica, quella della commedia all’italiana.

In questi film, se irrompe l’esotismo, la fascinazione dell’irregolarità e della diversità è vissuta come una vacanza, o ricondotta a una cifra casereccia, comprensibile e familiare. Le ballerine di flamenco di Il ciclone, con la loro carica erotica, entrano nelle case del pacifico paesotto toscano, vi portano una ventata di disordine, che però viene velocemente tradotta in elemento familiare e velocemente digerita. Infatti, il protagonista finisce con lo sposare la più carina e renderla madre.

Altrettanto succede se i registi italiani si spostano nel tempo e nello spazio, nella Cuba di oggi (Longoni, Facciamo fiesta) o nella Grecia di ieri (Salvatores, Mediterraneo). L’amore porta ordine e non caos, redime le prostitute, crea, o ricrea, la regola e il gruppo familiare. L’isola, per esempio, classico topos del selvaggio, viene riportata a significati meno spaventosi e lontani, annullandone ogni effetto di sovversione, ogni valore di rappresentazione del mito utopico/distopico. Sono isole di vacanza, transitorie, oppure isole in cui si ricrea il microcosmo familiare del paese di provenienza. Luoghi, vedi Mediterraneo, che hanno la funzione narrativa di isolare, appunto, dalla guerra, dalla storia dei grandi eventi, per mettere a fuoco quello che veramente importa: la quotidianità dell’esistenza e le esigenze, i sentimenti, i bisogni di tutti i giorni.

Accade così anche con l’amore, altra forza dirompente che può scatenare pericolose pulsioni profonde. Le donne troppo belle, sfuggenti, misteriose, vengono rifiutate o ricondotte alla normalità attraverso la maternità: così in Pieraccioni, Longoni, Virzì, eccetera. Non colpisce tanto il ricorso al ritorno all’ordine per creare la possibilità del lieto fine, poiché la tradizione del lieto fine è ormai un pezzo consistente e significativo della storia del cinema occidentale. Piuttosto colpisce il rifiuto di ogni seria possibilità di dare al disordine, al pericolo, alla novità o alla diversità una presenza reale, fisica e immanente. Esattamente quello che nel cinema americano viene invece variamente simboleggiato, ma che ha sempre una consistenza visibile, incarnata non solo in personaggi, ma in atmosfere, immagini, inquadrature: il male, il rischio, e quindi la suspence. Questo spiega perché sia impossibile al cinema italiano la produzione di un vero film di suspence, di fantascienza o politica, senza scadere nella pura imitazione dei canoni formali del genere, elaborati e definiti altrove (di solito, dal cinema americano). Oppure nella piatta imitazione della fiction televisiva, didascalica e fintamente realistica. I problemi che percorrono quasi ogni prodotto americano hanno a che fare con vere, profetiche, inconsce paure: riguardano l’anima e la macchina, i poteri inafferrabili che ci sovrastano, l’identità e la solitudine. Il cinema italiano, al contrario, si mantiene in superficie, traccia linee orizzontali, nel migliore dei casi descrive.

Ma, accantonando le nostre personali preferenze, poiché non possiamo scegliere astrattamente quale cinematografia avere, cerchiamo di capire che cosa caratterizza questo nuovo cinema, quale è il suo punto di maggior interesse. C’è, in primo luogo, una profonda, talvolta mascherata, talvolta negata o male interpretata, vocazione qualunquista.

La vita è quotidianità, è il passare dei giorni. Una sorta di lunga durata che tende a lasciare fuori dalla porta il rapporto con il potere e con i mutamenti epocali. In Pieraccioni questo si esprime nella dislocazione campagnola e idilliaca delle sue vicende; nell’essere tutti tipi e maschere più che personaggi, sempre uguali a se stessi; nella solidità dei valori tradizionali di cui abbiamo detto. In altri si esprime attraverso le piccole problematiche emotive, in cui l’intimismo serve come una forma di riduzione al piccolo, che miniaturizza i problemi e li rende immuni dalla storia; non solo la storia intesa come grandi mutamenti sociali, ma come quella corrente sotterranea che tocca le nostre percezioni, modifica la nostra umanità. I grandi scenari diventano presepi, ricostruzioni ambientali di colore in cui si muovono figurine che alludono a problemi da cui però non sono attraversate.

Per fare un esempio, in Ragazze Mike Leigh racconta il passaggio di due amiche dai trasgressivi e confusi anni della giovinezza a quelli attuali della carriera e della normalizzazione. La nevrosi attraversa i gesti, le parole, le inquadrature; la metafora del subire "sulla pelle" si materializza in una visibile ulcerazione sul volto di una delle protagoniste. Potremmo mettere a confronto il film di Leigh con Italia-Germania, 4 a 3 di Barzini, che narra un analogo strappo esistenziale col proprio passato, e la differenza salterebbe agli occhi. Ma anche in un prodotto più raffinato, come Verso sera della Archibugi, che tocca tematiche affini, tutto è solo e sempre detto, dichiarato; e alla fine è l’interpretazione degli attori (Mastroianni e la Bonnaire) che salva il film.

Il qualunquismo, però, spesso si maschera dietro ideologie di facciata: non si sa se per confusione mentale o per l’impossibilità di essere anormali, cioè non di sinistra. Non si tirano le conclusioni di quello che si racconta e di come lo si racconta, ed è per questo che Pieraccioni e Benigni rimangono campioni di incassi e di evidenza contenutistica dei due modi di fare film in Italia: un qualunquismo bonario e trionfante, il primo, e una piatta corrività ai modelli della vulgata buonista, il secondo.

In mezzo, in posizione scomoda, un altro giovane regista, Paolo Virzì.

Già in Ferie d’agosto la vena qualunquista di Virzì si dimostrava più articolata e motivata che nelle opere di altri autori. L’Italia antropologicamente spaccata in due tra destra e sinistra non trova, nel film, canali di comunicazione reciproca: la destra è familista, televisiva, volgare, cafona, repressa, e naturalmente bottegaia; la sinistra è invece promiscua, nostalgica, intellettuale, dedita agli spinelli, con famiglie allargate composte da padri multipli e distratti, e da madri bisessuali e femministe. La semplificazione sociologica, frequente del resto nel nostro cinema, può apparire fin troppo marcata. Ma se la riconciliazione finale, nella tribù di sinistra, approda a uno scontato happy end, tra gli appartenenti alla famiglia di destra circola invece un dolore vero, sordo, nascosto, una scontentezza sofferente e profonda, a cui non si offre soluzione. Per qualche momento il film è percorso da emozioni che si comunicano, da un’esperienza di dolore subìta e alla fine accettata, nella consapevolezza che non si può solo inseguire il proprio narcisismo o la sfuggente felicità dell’attimo. Ma Virzì gioca troppo al pareggio, strizza l’occhio allo spettatore, cerca nel finale di equilibrare i diversi conti con la vita.

Nell’ultima opera, Ovosodo, che ha avuto un buon successo di pubblico, la frenata ideologica del regista è ancora più fastidiosa. La sua provincia toscana è impregnata di un insolito populismo dolceamaro, da vita agra (ed è, del resto, una provincia limitrofa a quella di provenienza di Bianciardi). L’ovosodo del titolo è qualcosa che non va né su né giù, un desiderio rimasto per sempre in gola, una sorta di esistenziale impedimento alla felicità con cui non si può che convivere. Il film ci racconta che i poveri, di destra o di sinistra, dotati o no di talento, restano poveri, mentre i ricchi possono permettersi di essere rivoluzionari, trasgressivi, alternativi e sradicati, perché tanto restano ricchi e privilegiati. E anche che la vita è fatta di piccole cose, che si può venire a patti col proprio destino sociale scavandosi una nicchia tiepida nella quotidianità, amando una donna conosciuta fin dall’infanzia che ogni mattina, quando ti accompagna al lavoro, ti ripete: "Come sei bello". Temi, come si vede, di squisito qualunquismo, trattati con un piglio narrativo non comune tra i nuovi registi italiani.

Perché tanta insistenza su Virzì? Perché, avendo indubbiamente talento, ci sembra un caso tipico di cinema ai tempi dell’Ulivo, un peccato evidente di falsa coscienza ideologica. Se qualunquismo ha da essere, ebbene, sia: inutile girare a vuoto tra commediole insapori e intimismi superficiali. Pieraccioni ha, in questo senso, almeno il merito di mirare al cuore del problema, creando un universo irreale dai colori di favola. Se questo è il carattere del nostro cinema, se la tradizione più forte resta quella della commedia all’italiana, cerchiamo almeno di recuperarne il meglio, la capacità scanzonata di fare critica di costume, di non guardare in faccia nessuno, di corrispondere, nel bene e nel male, all’Italia piena di sapori della gente comune. Insomma: provate a darci ancora, se non Germi, almeno Monicelli e Alberto Sordi.

Ma graffiare ai tempi della Dc era certo altra cosa che farlo oggi: e disperatamente questi nuovi registi cercano di salvare capra e cavoli, girando intorno a umori qualunquisti senza mai osare essere ulivisticamente scorretti. Così facendo, mantengono la reputazione e il finanziamento Rai, ma non vanno molto lontano. Più coraggio, Virzì e compagni.

Eugenia Cavallari


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1998