Congetture & confutazioni
LA "MEMORIA CORTA"
DEI POST-COMUNISTI

di Sergio Bertelli

Abbiamo appreso da Ralf Dahrendorf che dobbiamo liberarci dall’"ossessione del passato", invitati a volgere la nostra attenzione "al futuro delle opportunità globali". Cessiamo, dunque, di parlare di nazismo e di comunismo; smettiamola di reclamare pentimenti e abiure; finiamola con la pretesa di dare patenti di ravvedimento a chi, tra l’altro, al tempo dei regimi totalitari non era ancora nato o emetteva i primi vagiti. Tutti concordi, da Fini a D’Alema, nel ritenere ormai superflua ogni ulteriore abiura. C’è ben altro cui pensare! Non sono bastati gli "strappi" berlingueriani e i boccali dell’acqua di Fiuggi?

Eppure, solo pochi anni fa, nel 1993, l’anticipazione di una lettera di Palmiro Togliatti a Vincenzo Bianco, rintracciata negli archivi del Comintern da Franco Andreucci, aveva sollevato una canea inimmaginabile. I latrati erano stati aperti da Giulietto Chiesa, giornalista corrispondente da Mosca, simpatizzante per la banda Khasbulatov. Di che cosa si trattava? Nel febbraio del ’43, a una richiesta di come poter agire per alleviare le sofferenze dei prigionieri italiani in Russia, Togliatti replicava cinicamente che "il fatto che per migliaia e migliaia di famiglie la guerra di Mussolini, e soprattutto la spedizione contro la Russia, si concludano con una tragedia, con un lutto personale, è il migliore e il più efficace degli antidoti".

Era forse falsa questa lettera? Vi erano stati solo dei trascurabili errori, dovuti alla fretta con la quale il documento era stato copiato e trasmesso. Ma furono quegli errori a dare l’appiglio per gridare alla provocazione. Gli studenti dell’Ateneo pisano - nel quale Andreucci insegna - appesero tatze-bao; il direttore di quel Dipartimento di storia si sentì in dovere di dissociarsi, quasi ne fosse colpita l’onorabilità degli studi storici. La casa editrice, alla quale Andreucci era legato, fu ugualmente attaccata, tanto che le memorie della segretaria russa di Togliatti, Nina Bocenina, da me curate e già in stampa, attesero due anni prima di essere mandate in libreria. Nel 1995, quando però l’intero carteggio, ed altri documenti ugualmente agghiaccianti, furono pubblicati da Renato Risaliti (Togliatti fra Gramsci e Neciaev), si preferì il silenzio. Seguìto, in tempi più recenti, da un nuovo equilibrismo storico: trasformare il comunista Togliatti in un politico "sostanzialmente riformista" (Francesco Barbagallo).

Un uguale silenzio (e colpevole indifferenza) ha coperto un’altra storia che ci tocca da vicino: quella della deportazione dell’intera comunità italiana di Crimea. A rompere questa congiura, sempre nel 1995, appariva il libro-testamento di François Furet, Il passato di un’illusione. Benché troppo gallocentrica, si tratta di un’opera che andrebbe messa utilmente a confronto con Il secolo breve (Age of Extremes) di Eric Hobsbawm, stampato appena un anno prima. Quella volta, l’imbarazzo fu ancora più grande. Scriveva Furet: "Il regime sovietico è uscito di soppiatto dal teatro della storia, dove era entrato in modo spettacolare [...]. L’universo comunista si è dissolto da solo [...]. Il mondo comunista s’è sempre gloriato, oltre che di quello che era, di quello che voleva diventare e quindi stava per diventare. Il problema è stato definitivamente risolto con la sua fine: oggi quel mondo appartiene interamente al passato".

A prima vista, Furet sembrava dunque anticipare l’invito di Dahrendorf: lasciamo il passato alle nostre spalle, occupiamoci del futuro. Già, ma quale futuro, se non prendiamo consapevolezza del passato? Torniamo allora a Furet: "Per capire la forza delle mitologie politiche che hanno riempito di sé il XX secolo, bisogna risalire al momento in cui sono nate o quantomeno cresciute; è il solo motivo che resta per cogliere parte della risonanza che hanno avuto. Il fascismo, prima di venir disonorato dai propri crimini, è stato una speranza. Ha sedotto non solo milioni di uomini, ma anche molti intellettuali. Quanto al comunismo, siamo ancora vicini alla sua stagione migliore, visto che come mito politico e come idea sociale è a lungo sopravvissuto ai propri crimini e misfatti".

Sopravvive nell’immarcescibile Armando Cossutta, per il quale non vi è nulla da rinnegare. Che la sua "stagione migliore" non sia ancora definitivamente tramontata lo dimostra Maria Antonietta Macciocchi, narcisistica maîtresse à penser della gauche francese, che riesce a trovare ospitalità su un grande quotidiano italiano, perdendo l’occasione di farsi dimenticare. Adesso che ottant’anni di "crimini, terrore, repressione" vengono documentati in un Livre noir a cura di un gruppo di studiosi francesi, ci sentiamo dire che essi ("ahimè, modesti") hanno lavorato "freneticamente sugli archivi", per mettere insieme un libro "più massiccio della Bibbia, [...] illeggibile come un elenco del telefono".

Ora, quanto alla nostra capacità di affrontare una raccolta di documenti di oltre mille pagine, credo che siamo in grado di giudicare da soli. Ma ci piacerebbe sapere se è una colpa lavorare negli archivi (forse che i documenti prodotti sono falsi?). La Macciocchi eccepisce che questi storici "avanzano a ritroso" come i dannati della quarta bolgia dantesca. Ma che altro dovrebbe fare, uno storico? Prendere a modello Mantova o Cassandra? "La memoria del presente viene oscurata!" grida la nostra maîtresse, che si fregia di un’agrégation discussa nel febbraio del 1977 nell’Amphi della Sorbonne rigurgitante di gauchistes in delirio. "Col collo girato all’indietro, non si vedono più bambini e madri sgozzati in Algeria, navi albanesi colate a picco col carico di donne e creaturine [...]".

Eh no! Un tale benaltrismo non fa sorridere, fa semplicemente indignare. Di certo non siamo qui per formare nuovi tribunali della storia. Ma, vivaddio, vogliamo sapere, capire, isolare chi, con sovrana improntitudine, per anni ci ha ingannato e pretende ancora oggi di avere la parola. Da dei Giovanni Botero in sedicesimo veniamo rimproverati di confondere storia, etica e politica. Ma noi vogliamo rompere "l’assordante silenzio" e intendiamo chiarire, ai Soloni che tengono banco da anni sulla stampa italiana di sinistra, che non ci basta restare sul piano strettamente storiografico. Ci rivolgiamo verso il passato non da storici, ma da uomini liberi. Non per rilasciare gratuite dichiarazioni liberatorie, ma per capire come sia stato possibile questo secolo, che a me non pare affatto "breve".

Torniamo ad aprire quel fondamentale libro di Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo, e rileggiamo la sua ricostruzione del tramonto dello Stato nazionale e la fine dei diritti umani, che lei individua nei postumi della Grande Guerra. In questo libro mi sembra importante la distinzione fra "dittatura" (il fascismo italiano) e "totalitarismo" (nazista e comunista): "Mussolini, che tanto amava il termine "Stato totalitario", non tentò di instaurare un regime totalitario in piena regola, accontentandosi della dittatura del partito unico. Dittature sostanzialmente non diverse sorsero in Romania, in Polonia, negli Stati baltici, in Ungheria, in Portogallo e infine in Spagna". Se queste dittature non si trasformarono in totalitarismi, ciò fu solo perché "questi Paesi non disponevano di un sufficiente materiale umano per sopportare le enormi perdite di vite richieste continuamente da un apparato di potere totale". Un sistema politico che si rivolse contro i suoi stessi "sudditi", pianificandone il parziale genocidio. Fu l’irruzione della plebe nella storia (cosa ben diversa dalle folle di Gustave Le Bon) che lo permise: "Fatto caratteristico, i movimenti totalitari europei, quelli fascisti come quelli comunisti dopo il 1930, reclutarono i loro membri da questa massa di gente manifestamente indifferente, che tutti gli altri partiti avevano lasciato da parte perché troppo apatica o troppo stupida. Il risultato fu che in maggioranza essi furono composti da persone che non erano mai apparse prima sulla scena politica". La Macciocchi impari: è proprio prendendo coscienza delle forme efferate del totalitarismo che possiamo meglio intendere un integralismo islamico che si rivolge contro i propri correligionari.

I modi per l’ascesa al potere del totalitarismo sono stati la menzogna più spudorata (Lenin che, minoritario al congresso di Londra del 1903, si proclama maggioritario: bol’sevik. A proposito: si è saputo quanti "milioni" di "padani" hanno eletto il Parlamento leghista?) e l’assassinio politico (Röhm, Kirov). "La propaganda totalitaria perfeziona la tecnica della propaganda di massa, ma non ne inventa né ripropone i temi. Questi sono già pronti, preparati dal cinquantennio dell’ascesa dell’imperialismo, della disintegrazione dello Stato nazionale e della comparsa della plebe sulla scena politica. Al pari dei vecchi capi della plebe, i portavoce dei movimenti totalitari possedevano un infallibile istinto per tutto ciò che la normale propaganda di partito e l’opinione pubblica passavano sotto silenzio. Ogni cosa nascosta o ignorata acquistava rilievo, a prescindere dalla sua importanza intrinseca. La plebe credeva realmente che la verità fosse quel che la società rispettabile aveva ipocritamente taciuto, o dissimulato con la corruzione".

La costruzione del regime totalitario avviene con la saldatura tra la plebe e "la società di bohemiens armati", secondo la definizione datane da Konrad Heiden: "Dal naufragio delle classi estinte sorge la nuova classe di intellettuali e alla sua testa marciano i più spietati, quelli con meno da perdere, quindi i più forti: i bohemiens armati per i quali la guerra è il focolare e la guerra civile la Patria".

Sono costoro che forniscono al movimento totalitario le basi del "nativismo", del tempo mitico di fondazione, attorno al quale si sostanzia il rituale: l’Hermannsdenkmal, il monumento al mitico Ermanno, e il Niederwalddenkmal costruito sulle rive del Reno e dei quali ci ha parlato George Mosse; ma anche la mummia di Lenin (sulle cui vicende disponiamo oggi della testimonianza di uno dei suoi imbalsamatori: Ilya Zbarski, A l’ombre du Mausolée) o, nel nostro piccolo, Alberto da Giussano e il Carroccio di Legnano.

Una ennesima saldatura, in queste nuove "opportunità globali", può sempre verificarsi. Conoscere, allora, per prevenire. Non sono, quelle che ho qui descritto, situazioni che si addicono anche alle fibrillazioni del nostro attuale mondo politico?

Sergio Bertelli


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1998