1948.
Il 18 aprile delle libertà
L'ANNO DELLA SCELTA
DI CAMPO
di Elena
Aga-Rossi e Victor Zaslavsky
La guerra fredda, a
differenza di qualsiasi guerra vera, non ha una data d’inizio precisa.
Infatti, fu un processo graduale durato circa un anno, dal marzo 1947, con
l’annuncio della dottrina Truman, fino al colpo di Stato in Cecoslovacchia
del febbraio 1948, in cui le tensioni tra le superpotenze crebbero fino a
raggiungere uno stato di conflittualità permanente, che avrebbe coinvolto
prima l’Europa e poi il resto del mondo per quasi mezzo secolo. Per
l’amministrazione americana il periodo tra gli accordi di Yalta e la
proclamazione del piano Marshall fu quello della profonda revisione della
linea di Roosevelt verso l’Unione Sovietica. La politica di Roosevelt era
basata sulla ferma convinzione che il mondo futuro sarebbe stato organizzato
sul principio della libera impresa e del mercato aperto e che l’Unione
Sovietica prima o poi sarebbe stata costretta ad abbandonare il suo assurdo
sistema socioeconomico e ad entrare nel mondo nel quale, secondo i princìpi
della Carta Atlantica, a tutti gli Stati sarebbe stato garantito
"uguale accesso al mercato mondiale", mentre la collaborazione
economica tra le nazioni avrebbe permesso di ottenere per tutti
"migliori condizioni di lavoro, avanzamento economico e sicurezza
sociale".
Su questa previsione
ottimistica si basavano i piani americani per l’Europa del dopoguerra e
l’indifferenza nei confronti dell’Europa orientale. Come aveva scritto
lo stretto collaboratore del presidente, il sottosegretario di Stato Adolph
Berle, "i piccoli Paesi dell’Europa orientale non possono esistere
come unità isolate. Saranno dominati da qualcuno, dalla Russia o dalla
Germania [...]. Non vedo alcuna ragione perché dobbiamo obiettare al loro
inserimento nell’orbita della Russia, con la condizione che l’Urss non
userà il suo potere per sovvertire i loro governi" (nota
1). Il giudizio storico su Averell Harriman, uno dei principali
consiglieri di Roosevelt che, "cieco al vero carattere dello Stato
totalitario, era incapace di comprendere o prevedere le azioni dello Stato
sovietico" (nota 2), potrebbe essere
esteso a tutta l’amministrazione rooseveltiana. La previsione
rooseveltiana di un’eventuale convergenza tra le società democratiche e
quelle comuniste sotto la guida americana in un futuro non precisato era in
forte contrasto con la visione staliniana della guerra inevitabile tra il
campo socialista e quello capitalista che, secondo i postulati
dell’ideologia marxista-leninista, doveva concludersi con la vittoria del
socialismo su scala mondiale (nota 3).
La leadership
staliniana, d’altra parte, concepiva l’Unione Sovietica non come uno
Stato, un singolo elemento del sistema geopolitico internazionale, ma come
il nucleo di un sistema socialista in costante espansione che avrebbe infine
sostituito il capitalismo. Questa visione dell’Unione Sovietica spiega
l’attaccamento dei suoi leaders al concetto territoriale di sicurezza. La
dirigenza sovietica cominciò a fare piani per l’ordinamento post-bellico
sin dai mesi successivi all’attacco tedesco del giugno 1941, e verso la
fine del 1944 le due commissioni del ministero degli Esteri presentarono ai
massimi dirigenti del Cremlino le loro proposte. I diplomatici partivano dal
presupposto che la sicurezza dell’Urss sarebbe stata possibile solo se
l’Europa fosse diventata socialista e che questo scopo sarebbe stato
raggiunto entro 30-50 anni, nel corso di due generazioni (nota
4). Nell’immediato, gli esperti di Mosca raccomandavano di avanzare
ampie richieste territoriali al fine di ottenere il massimo di concessioni:
fare pressioni per includere nella sfera d’influenza sovietica Svezia,
Finlandia, Polonia, Ungheria, Cecoslovacchia, Romania, Bulgaria, Jugoslavia
e Turchia, e insistere sulla piena neutralizzazione di Norvegia, Danimarca,
Germania, Austria e Italia. Inoltre, suggerivano di fare tutti gli sforzi
per acquisire il controllo sugli stretti turchi nonché l’amministrazione
fiduciaria delle isole del Dodecanneso, della Tripolitania, della Somalia,
dell’Eritrea e persino della Palestina (nota
5). La posizione di Stalin e Molotov era ancora più rigida ed
espansionistica dei loro diplomatici: così, subito dopo la guerra, oltre a
premere sulla Turchia per ottenere il controllo sugli stretti del mar Nero,
pretesero l’amministrazione fiduciaria sulle ex colonie dell’Asse in
Africa e puntarono su un rafforzamento della loro posizione nelle regioni
settentrionali della Cina e dell’Iran.
Nell’ultimo periodo
di guerra la leadership sovietica elaborò due linee politiche per
l’ordinamento post-bellico dell’Europa. La prima consisteva in una
radicale riorganizzazione sociale e politica dell’Europa orientale,
realizzata dai partiti comunisti nazionali appoggiati dall’esercito
sovietico. Sperando di ricevere gli aiuti economici occidentali, Stalin
controllò il processo di sovietizzazione della propria sfera d’influenza,
essendo comunque preparato a portare i partiti comunisti al potere al
momento opportuno. La seconda prevedeva la mobilitazione e il rafforzamento
delle forze pro-sovietiche in quei Paesi dell’Europa occidentale, Italia e
Francia innanzitutto, in cui erano presenti forti partiti comunisti,
condizionati dall’influenza sovietica.
I primi due anni del
dopoguerra registrarono vistosi successi per la politica estera staliniana:
le truppe sovietiche controllavano le grandi capitali europee - Varsavia,
Berlino, Vienna, Budapest e Praga -; la politica di sovietizzazione
dell’Europa orientale procedeva nel modo programmato, anche se con
relativa lentezza, per non allarmare e non irrigidire l’Occidente. Nello
stesso tempo, la profonda crisi post-bellica, che investì molti Paesi
dell’Europa occidentale, fu accompagnata da un forte aumento
dell’influenza dei partiti comunisti, entrati nelle compagini governative
francese, italiana e belga. Come ricordò con molta soddisfazione Molotov,
"Roosevelt pensava che gli americani fossero tanto ricchi e noi tanto
poveri e indeboliti che avremmo dovuto inchinarci davanti a loro [...]. Ma
si sbagliavano. Loro non erano marxisti, noi invece sì. Soltanto dopo aver
perso mezza Europa si sono risvegliati" (nota
6).
Il famoso
"telegramma lungo" inviato a Washington dal rappresentante
americano a Mosca, George Kennan, il 22 febbraio 19467, segnò l’inizio di
un profondo ripensamento della politica Usa. Dopo aver fornito un’analisi
dettagliata della visione del mondo che aveva la leadership staliniana,
Kennan presentava l’espansionismo come la caratteristica centrale della
politica estera dell’Urss: "Dovunque sia considerato opportuno e
possibile, saranno fatti sforzi [...] per estendere il potere sovietico a
nuove aree". Kennan dedicava un’attenzione particolare agli
"organismi utilizzati per l’attuazione della politica sovietica a
livelli non ufficiali", cioè ai partiti comunisti, insistendo su
un’importante distinzione tra "il nucleo centrale interno dei partiti
comunisti, un direttorio del mondo comunista, che operava clandestinamente,
un Comintern nascosto, strettamente coordinato e diretto da Mosca" e i
semplici iscritti, i quali "non conoscono nemmeno le realtà del
movimento" e sono "del tutto innocenti del collegamento
cospiratorio con Stati stranieri".
A proposito della
tattica dei partiti comunisti, Kennan scriveva: "Nei Paesi in cui i
comunisti sono forti numericamente [...] sono utilizzati per penetrare,
influenzare o dominare altre organizzazioni non sospettabili di essere
strumenti del governo sovietico [...]: sindacati, organizzazioni giovanili e
delle donne, gruppi sociali, razziali e religiosi, associazioni culturali,
riviste liberali, case editrici, eccetera". Nella conclusione, Kennan
suggeriva la prima formulazione della politica di contenimento: i dirigenti
sovietici "impermeabili alla logica della ragione, sono molto sensibili
alla logica della forza. Essi possono facilmente tirarsi indietro ogni
momento e lo fanno generalmente quando incontrano una forte resistenza"
(nota 7). Ora che gli storici hanno
accesso ai resoconti stenografici degli incontri di Stalin del 1944 con i
leaders comunisti occidentali e alle sue direttive a Togliatti e a Thorez,
si può apprezzare in pieno la perspicacia dell’analisi di Kennan.
Nel periodo 1946-47 la
lenta ma decisa sovietizzazione dell’Europa orientale, la pressione sulla
Turchia e sull’Iran e la ripresa della guerra civile in Grecia
confermarono i sospetti da parte dell’amministrazione americana che le
dichiarazioni di Stalin che l’unica richiesta dell’Urss era di avere
"Stati-amici" lungo i propri confini non esprimessero le sue vere
intenzioni. Ma l’inerzia della politica estera rooseveltiana, che continuò
anche con l’amministrazione Truman, e l’atteggiamento favorevole
dell’opinione pubblica americana verso il popolo sovietico fecero sì che
il riorientamento americano fosse un processo lungo e graduale. Così nel
1946, malgrado il lungo telegramma di Kennan o il monito di Churchill, nel
suo discorso a Fulton, che "una cortina di ferro è discesa
sull’Europa", le tensioni tra le grandi potenze non portarono a una
rottura decisiva. Questa avvenne sul problema della Germania, la cui
industria e le cui risorse avevano da sempre costituito la forza-motrice
della crescita economica dell’Europa occidentale. La ricostruzione europea
non era possibile con la Germania divisa in quattro zone, senza una politica
economica comune e senza massicci aiuti americani. I ripetuti fallimenti
delle conferenze dei ministri degli Esteri delle potenze vincitrici per
trovare una soluzione alla questione tedesca convinsero gli anglo-americani
che Stalin stava deliberatamente bloccando la situazione per precipitare il
collasso economico europeo.
In retrospettiva, si
può affermare che la svolta nella politica estera americana avvenne nel
marzo-aprile del 1947. Già nel marzo 1947 Truman chiese al Congresso di
approvare gli aiuti economici e militari alla Turchia e alla Grecia per
appoggiarle contro "l’aggressione diretta o indiretta" da parte
dei "regimi totalitari". Nel corso dell’incontro svoltosi il 15
aprile 1947 tra il segretario di Stato americano George Marshall e Stalin,
ultimo incontro tra il dittatore sovietico e un membro di primo piano del
governo americano, Marshall ammonì che il continuo deterioramento economico
avrebbe potuto portare "all’eliminazione di ogni possibilità di
sopravvivenza democratica" in Europa. Stalin, imperturbato, ribattè
che "la situazione non era tragica" e suggerì a Marshall di
"aver pazienza e di non deprimersi" (nota
8), manifestando il suo ottimismo nelle prospettive a lungo termine.
L’atteggiamento del leader sovietico convinse Marshall che Stalin stava
solo cercando di guadagnare tempo, nella speranza che il crollo economico
dell’Europa occidentale creasse le condizioni favorevoli all’ulteriore
espansione dell’influenza sovietica nella regione.
Di fatto, l’Europa
occidentale era sull’orlo del collasso: tra la fine del 1946 e la prima
metà del 1947 la produzione in Europa occidentale era caduta dall’83% al
78% per cento dei livelli prebellici. Ernest Bevin, ministro degli Esteri
britannico, dopo un lungo soggiorno a Mosca nel marzo-aprile 1947 arrivò
alla conclusione che "tutto quello che i russi dovevano fare era
aspettare e la situazione si sarebbe sviluppata a loro vantaggio" (nota
9).
La grave crisi e le
crescenti tensioni sociali stavano generando una sempre maggiore instabilità
politica in Europa, creando ampie possibilità per la presa del potere da
parte dei partiti comunisti in Francia e in Italia. La situazione
dell’Italia era molto indicativa. Alle elezioni amministrative del
novembre 1946 la Dc aveva subìto un forte arretramento, mentre erano
cresciuti i partiti di sinistra. Il viaggio di De Gasperi a Washington, nel
gennaio 1947, per ottenere aiuti dall’amministrazione Truman, era stato un
successo soltanto parziale. Il governo americano aveva concesso il prestito
ma nello stesso tempo continuava a nutrire scarsa fiducia nelle capacità di
De Gasperi di essere all’altezza della difficile situazione e di riuscire
a mantenerne il controllo. In contrasto con l’opinione largamente diffusa
che ci fosse una forte pressione americana fin dal viaggio di De Gasperi a
Washington per una esclusione dei comunisti dal governo, la documentazione
mostra invece una notevole incertezza dell’amministrazione Usa nei primi
mesi del 1947.
Gli Stati Uniti
assistettero con crescente preoccupazione ai successi dei comunisti alle
elezioni amministrative nelle principali città, al loro controllo delle
organizzazioni sindacali e al processo di crescente destabilizzazione, ma
senza arrivare a una chiara linea politica. Il 1 maggio 1947 il segretario
di Stato Marshall scriveva una lettera allarmata all’ambasciatore James
Dunn, elencando i punti di forza del Pci e chiedendo un chiarimento sulle
alternative di un governo senza De Gasperi, un governo di De Gasperi senza i
comunisti o un governo tecnico senza la base parlamentare (nota
10). In risposta, Dunn sollecitò un’azione più decisa e aperta in
Italia, indicando che il governo americano "agli occhi degli italiani
aveva mantenuto un ruolo passivo sul problema della crescita del comunismo
italiano" (nota 11). Di fronte alla
decisione di De Gasperi di fare un governo senza le sinistre, però,
l’amministrazione Truman criticò l’assenza del partito
socialdemocratico, temendo che un governo composto soltanto dalla Dc e da
alcuni liberali, non potesse reggere alla pressione delle sinistre.
Sollecitando la partecipazione del Psli di Saragat al governo, Marshall
insisteva che "la situazione italiana esige la leale cooperazione, per
l’interesse nazionale, di tutti i democratici. Ai leaders della Dc
potrebbe sottolineare la necessità, comune oggi a tutti i governi europei,
di avere l’appoggio della sinistra democratica e la più ampia
rappresentanza possibile delle classi lavoratrici" (nota
12). Gli osservatori americani pensavano che il governo costituito da De
Gasperi fosse un rimedio soltanto transitorio, giudicandolo traballante e
fragile (nota 13).
Il piano Marshall segnò
un momento decisivo nelle relazioni tra l’Urss staliniana e l’Occidente
e in tutta la storia dell’Europa del dopoguerra. Il 5 giugno 1947 Marshall
pronunciò il famoso discorso all’università di Harvard, dichiarando che
gli Stati Uniti erano pronti a offrire aiuti all’Europa, per evitarne la
catastrofe economica. Il piano Marshall conteneva l’invito formale
all’Urss e ai Paesi dell’Europa orientale di partecipare alla sua
attuazione. Dal punto di vista americano, il piano Marshall rappresentò una
misura difensiva a sostegno delle economie europee e, nello stesso tempo,
una misura politica per ridurre l’influenza sovietica in quell’area.
L’ambasciatore sovietico negli Stati Uniti, Nikolai Novikov, ne sottolineò
immediatamente questo aspetto, affermando, in un telegramma a Mosca del 24
giugno 1947, che l’iniziativa americana era tesa "a fermare il
processo di democratizzazione dei Paesi europei, a stimolare le forze
antagoniste all’Unione Sovietica e a rafforzare le posizioni del capitale
americano in Europa e in Asia" (nota 14).
Se ricordiamo che "democratizzazione" nel vocabolario staliniano
aveva un preciso significato di imposizione di regimi filosovietici e di
sistemi monopartitici - sinonimo di "sovietizzazione" - la
conclusione dell’ambasciatore non era lontana dalla realtà.
Inizialmente a Mosca
prevalse, però, un’interpretazione diversa: sotto l’influenza
dell’ideologia marxista i dirigenti sovietici presero il piano Marshall
come manifestazione della necessità americana di offrire prestiti
all’Europa per evitare una grave depressione e ritardare una crisi di
sovraproduzione postbellica. Sperarono che con abili trattative avrebbero
potuto utilizzare l’imminente crisi americana per ottenere vantaggiosi
crediti senza offrire serie concessioni politiche. Così, alla fine del
giugno del 1947, una nutrita delegazione dell’Urss - più di cento
persone, con a capo Molotov - arrivò a Parigi per la conferenza dei
ministri degli Esteri di Gran Bretagna, Francia e Unione Sovietica sul piano
Marshall. Dopo i primi incontri, l’atteggiamento russo cambiò
bruscamente: il 2 luglio Molotov in un discorso accusò i Paesi occidentali
di voler spaccare l’Europa in due campi avversi e abbandonò la conferenza
di Parigi, rifiutando la partecipazione sovietica al piano Marshall.
L’Urss costrinse poi anche i Paesi dell’Europa orientale a respingere
gli aiuti economici americani.
Fino all’apertura
degli archivi sovietici le ragioni di questo improvviso ripensamento
rimanevano incomprensibili. La nuova documentazione rende ora possibile
ricostruire questo passaggio mancante del processo decisionale sovietico.
Alla mattina del 30 giugno Molotov ricevette da Mosca un telegramma cifrato
in cui i servizi segreti riferivano l’informazione dell’agente Donald
Maclean, membro del gruppo dei "cinque di Cambridge", primo
segretario dell’ambasciata britannica a Washington. Secondo Maclean, gli
aiuti del piano Marshall dovevano sostituire le gravose riparazioni tedesche
all’Urss richieste da Stalin (nota 15).
Dal punto di vista sovietico, inoltre, il controllo internazionale cui
sarebbero stati soggetti gli aiuti americani "era assolutamente
inaccettabile perché avrebbe impedito il consolidamento del controllo
nell’Europa orientale [...] dove i partiti comunisti sarebbero stati
privati delle leve economiche del potere" (nota
16).
In questa nuova
situazione il Cremlino riconsiderò gli avvenimenti della prima metà del
1947, razionalizzandoli a posteriori. Così, l’estromissione dei partiti
comunisti francese e italiano dai governi in Italia e in Francia - che aveva
preceduto l’annuncio del piano Marshall - inizialmente non aveva
preoccupato più di tanto i dirigenti sovietici, perché era stata
considerata una fase transitoria, dopo di che sarebbe stato possibile un
ritorno delle sinistre al governo. Dopo l’enunciazione del piano Marshall,
però, i sovietici cominciarono a interpretare l’estromissione dei
comunisti come parte integrante di una generale offensiva americana. Non
potendo contrastarla sul piano economico, la dirigenza staliniana optò per
una brusca accelerazione della sovietizzazione dell’Europa orientale e per
il rafforzamento del proprio controllo sul movimento comunista, riaffermando
il suo carattere di movimento internazionale per la difesa dell’Unione
Sovietica. La triplice risposta staliniana incluse, quindi,
l’accelerazione drastica del consolidamento del controllo sovietico
sull’Europa orientale, che sarebbe culminata nel colpo di Stato in
Cecoslovacchia del febbraio 1948, la ricostituzione formale del vecchio
Comintern, che risorgeva sotto la nuova veste del Cominform, e la direttiva
ai partiti comunisti occidentali di mettersi in contrapposizione frontale
con i propri governi che avevano accettato il piano Marshall. Si chiudeva
così il periodo di collaborazione sovietica con le altre potenze alleate e
terminava anche la strategia concordata da Stalin con i leaders dei partiti
comunisti francesi e italiani nel 1944.
La situazione in
Italia, il ruolo del Pci e l’importanza storica dell’esito delle
elezioni del 1948 non possono essere compresi senza vederli in stretto
collegamento con la complessa situazione internazionale del periodo. Nel
1947 il Pci e il Pcf furono gli unici tra i partiti comunisti occidentali a
far parte del Cominform, la cui creazione rispondeva alla necessità di
ristabilire un controllo più rigido sul movimento comunista, preparandolo
per il lavoro nelle nuove condizioni della guerra fredda. Alla prima
conferenza del Cominform del settembre 1947, il Pci e il Pcf subirono
pesanti critiche, introdotte e orchestrate dai dirigenti sovietici, e furono
accusati di una eccessiva fiducia nel parlamentarismo, di aver sottovalutato
la propria forza e di non essersi opposti all’estromissione dal governo.
La nuova direttiva staliniana definì "il rafforzamento della potenza
dell’Urss" e una massiccia mobilitazione contro il piano Marshall i
principali obiettivi dei pc occidentali (nota
17). Come prescritto dalla cultura politica dello stalinismo, i
dirigenti dei partiti occidentali accettarono le critiche e cambiarono
immediatamente la linea politica precedente. Così, per tutto il decennio
seguente, il Pci agì senza un programma realistico di sviluppo del Paese,
spesso come una forza ostruzionistica, organizzando violenti scioperi e
mobilitando le masse sotto la bandiera dell’anticapitalismo e
dell’antiamericanismo. Rifiutando gli "aiuti per stimolare
investimenti e produzione [...] i comunisti in un certo senso si posero al
di fuori del processo politico normale" (nota
18).
L’insistenza di
Zhdanov sulla divisione del mondo in due campi contrapposti, il duro attacco
al parlamentarismo e gli elogi al "modello greco" di un’aperta
guerra civile, pronunciati da alcuni delegati nella conferenza di Cominform,
ridiedero vita alla prospettiva insurrezionale dentro il Pci. Durante la
visita a Mosca del dicembre 1947 Pietro Secchia, il capo dell’ala
insurrezionale del partito, ventilò la possibilità di uno scontro armato
"difensivo", accusando indirettamente Togliatti di eccessiva
cautela, ma fu frenato dalla secca risposta di Stalin: "Su questo
problema non abbiamo divergenze. La valutazione della situazione e della
tattica presentata dal compagno Togliatti è giusta. Riteniamo che non
bisogna puntare sull’insurrezione, ma bisogna essere pronti se il nemico
ci attacca" (nota 19). La risposta
dimostrava che per Stalin i rapporti di forza del momento non avrebbero
giustificato una violazione della divisione del mondo sancita a Yalta.
Il colpo di Stato in
Cecoslovacchia del febbraio 1948, in cui i comunisti cecoslovacchi andarono
al potere con il pieno appoggio sovietico, potrebbe essere considerato
l’ultimo atto del processo di maturazione della guerra fredda. La nuova
documentazione archivistica dimostra inequivocabilmente che la piena
sovietizzazione dell’Europa orientale non fu la risposta sovietica
all’offensiva economica americana del 1947, ma fu fin dall’inizio la
linea generale staliniana. Il piano Marshall servì, però, da fattore
scatenante. Dopo la Cecoslovacchia la guerra fredda fu un fatto compiuto.
Così, le elezioni italiane dell’aprile 1948 furono il primo scontro
frontale tra le forze dei due campi. Le elezioni erano viste da molti
comunisti come un’occasione da non perdere per due ragioni essenziali.
Prima di tutto, le elezioni sembravano cadere nella fase culminante della
popolarità del Pci che, per le persone dotate di realismo politico, non
poteva durare più di tanto di fronte alla manifesta incapacità sovietica
di fornire aiuti economici e di contrastare l’offensiva economica
americana. Ancora più importante, dopo il successo cecoslovacco
un’atmosfera di grande entusiasmo si diffuse tra i settori più radicali
dei partiti comunisti europei, e del Pci in particolare, incoraggiati dal
passaggio alle azioni attive nella politica estera sovietica.
L’arrivo al potere
delle forze pro-sovietiche in un Paese appartenente alla sfera d’influenza
occidentale sarebbe stato il primo e non previsto caso di rovesciamento
della divisione di Yalta, raggiunto con metodi democratici. Tutte e due le
parti del conflitto si preparavano all’eventualità di scontri in seguito
ad un mancato riconoscimento e ad un annullamento dell’esito del voto. Le
speranze del Pci di vincere le elezioni erano così alte che il dibattito
interno ruotava non tanto sulla vittoria, che appariva quasi scontata,
quanto su come reagire nel caso l’opposizione democristiana non avesse
riconosciuto i risultati, ricorrendo a un intervento militare americano.
Come uno dei dirigenti del Pci disse a un diplomatico sovietico, la
prospettiva della guerra civile "non ci spaventa, perché ora le forze
della democrazia in Italia sono più forti e questa volta non saremo noi ad
andare in montagna" (nota 20).
Nello stesso momento il Consiglio di sicurezza nazionale degli Usa approvava
la politica di non-intervento "in un conflitto civile di carattere
interno in Italia", pur prevedendo la possibilità di inviare forze
militari in Sicilia e in Sardegna, ma soltanto nel caso di una presa
illegale del potere da parte del Pci (nota
21).
Per scongiurare il
pericolo di un’insurrezione organizzata dalla superzelante ala
rivoluzionaria del proprio partito, Togliatti, che dopo l’esperienza della
guerra in Spagna era diventato un convinto oppositore della guerra civile,
fece un insolito passo, organizzando un incontro segreto con
l’ambasciatore sovietico per chiedere "se si deve, nel caso di una o
più provocazioni da parte dei democristiani, iniziare l’insurrezione
armata delle forze del Fronte democratico popolare per prendere il
potere" (nota 22). Rassicurando
Mosca che in caso di estrema necessità il Pci sarebbe stato pronto a
ricorrere all’insurrezione armata, Togliatti sottolineò che, in seguito
all’insurrezione, poteva scoppiare una grande guerra, alla quale
"avrebbero partecipato non soltanto i Paesi europei, cioè dalla parte
del Fronte popolare la Jugoslavia e gli altri Paesi della nuova democrazia
e, dalla parte opposta, gli Usa, l’Inghilterra, la Francia e altri".
Presentando questo allarmante scenario del probabile scoppio di una terza
guerra mondiale in seguito alle elezioni italiane, Togliatti puntava sulla
prudenza e sulla cautela di Stalin, che aveva sempre avuto paura di
un’insurrezione prematura, non giustificata da un bilanciamento di forze.
La risposta di Mosca fu immediata e inequivocabile: "Per quanto
riguarda la presa del potere attraverso un’insurrezione armata,
consideriamo che il Pci in questo momento non può attuarla in alcun
modo".
Accantonata
l’alternativa dell’insurrezione armata, l’esito dello scontro dei due
campi opposti in Italia doveva essere deciso nelle cabine elettorali.
Malgrado la massiccia campagna propagandistico-ideologica organizzata da
entrambe le parti, la maggioranza della popolazione votò secondo la
percezione dei propri interessi immediati, valutando il peso dei concreti
aiuti americani contro le vaghe promesse di maggiore giustizia sociale e
benessere economico del lontano modello sovietico. È questo un raro caso
nella storia in cui il buon senso della maggioranza degli italiani fu
premiato negli anni immediatamente seguenti, come dimostrano queste cifre.
Tra il 1948 e il 1951 gli Usa fornirono all’Europa occidentale aiuti per
un valore di circa 13 miliardi di dollari - una cifra enorme per quel
periodo - due terzi dei quali furono ricevuti da Inghilterra, Francia,
Italia e Germania occidentale; dall’altra parte, nel periodo tra il 1948 e
la morte di Stalin nel 1953, l’Unione Sovietica si appropriò di beni dei
Paesi dell’Europa orientale per un valore di circa 14 miliardi di dollari (nota
23).
Note
1. B.
Berle e T. Jacobs (a cura di), Navigating the Rapids, 1918-1971: From the
Papers of Adolf Berle, New York, 1973, p. 401.
(torna al testo)
2. In
"The New Republic", 27 luglio 1992, p. 57.
(torna al testo)
3. E.
Aga-Rossi, Roosevelt’s European Policy and the Origins of the Cold War: A
Revaluation, in "Telos", 96, 1993, pp. 65-85.
(torna al testo)
4.
"Istochnik", 4, 1995, pp. 124-125.
(torna al testo)
5. M.
Litvinov, O perspektivax i vozmozhnoi baze sovetsko-britanskogo
sotrudnichestva, del 15 ottobre 1944, cit. in O. Rzheshevsky (a cura di),
Vtoraia mirovaia vojna, Moskva, Nauka, 1995, pp. 58-59.
(torna al testo)
6. F.
Chuev, Sto sorok besed s Molotovym, Moskva, Terra, 1991, p. 67.
(torna al testo)
7.
Foreign Relations of the United States: Diplomatic Papers (FRUS), 1946, vol.
6, pp. 696-709.
(torna al testo)
8.
FRUS, 1947, vol. 2, pp. 340-344.
(torna al testo)
9. A.
Bullock, Ernest Bevin. Foreign Secretary, 1945-1951, New York, Norton, 1983,
p. 418.
(torna al testo)
10.
FRUS, 1947, vol. 3, p. 889.
(torna al testo)
11.
FRUS, 1947, vol. 3, p. 891.
(torna al testo)
12.
The Secretary of State to the Embassy in Italy, 6 giugno 1947, FRUS, 1947,
vol. 3, Washington, D.C., 1972, p. 919.
(torna al testo)
13.
J. Campbell, The United States in World Affairs 1947-1948, Council on
Foreign Relations, New York, Harper, 1948, p. 56.
(torna al testo)
14.
Cit. in "Mezhdunarodnaia zhizn", 5, 1992, p. 121.
(torna al testo)
15.
Vyshinsky a Molotov, telegramma cifrato del 30 giugno 1947, cit. in M.
Narinsky, The Soviet Union and the Marshall Plan, Cold War International
History Project, 1994, p. 45.
(torna al testo)
16.
P. Sudoplatov, Special Tasks. The Memoirs of an Unwanted Witness-a Soviet
Spymaster, Boston, Little, Brown and Co, 1994, pp. 231-232.
(torna al testo)
17.
The Cominform. Minutes of the Three Conferences 1947/1948/1949, Milano,
Feltrinelli, 1994, pp. 452-461.
(torna al testo)
18.
Ch. Maier, The Politics of Productivity: Foundation of American
International Economic Policy after World War II, in "International
Organization", 1977, p. 626.
(torna al testo)
19.
E. Aga-Rossi e V. Zaslavsky, Togliatti e Stalin, Bologna, Il Mulino, 1997,
p. 296.
(torna al testo)
20.
G. Pajetta, cit. in E. Aga-Rossi e V. Zaslavsky, op. cit., p. 232 .
(torna al testo)
21.
Cfr. The Position of the United States with Respect to Italy, National
Security Council, 1/2, 10 febbraio 1948, FRUS, 1948, 1974, vol. 3, pp.
767-69.
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22.
Per una discussione dettagliata sul problema dell’insurrezione armata si
veda E. Aga-Rossi e V. Zaslavsky, op. cit., cap. 7, in cui sono riferite
questa e le altre citazioni.
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23.
Si veda D. Reynolds, The European Responses. Primacy of Politics, in
"Foreign Affairs", 3, 1997, p. 182.
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Elena
Aga-Rossi
Victor Zaslavsky
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1998
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