1948. Il 18 aprile delle libertà
L'ANNO DELLA SCELTA
DI CAMPO

di
Elena Aga-Rossi e Victor Zaslavsky

La guerra fredda, a differenza di qualsiasi guerra vera, non ha una data d’inizio precisa. Infatti, fu un processo graduale durato circa un anno, dal marzo 1947, con l’annuncio della dottrina Truman, fino al colpo di Stato in Cecoslovacchia del febbraio 1948, in cui le tensioni tra le superpotenze crebbero fino a raggiungere uno stato di conflittualità permanente, che avrebbe coinvolto prima l’Europa e poi il resto del mondo per quasi mezzo secolo. Per l’amministrazione americana il periodo tra gli accordi di Yalta e la proclamazione del piano Marshall fu quello della profonda revisione della linea di Roosevelt verso l’Unione Sovietica. La politica di Roosevelt era basata sulla ferma convinzione che il mondo futuro sarebbe stato organizzato sul principio della libera impresa e del mercato aperto e che l’Unione Sovietica prima o poi sarebbe stata costretta ad abbandonare il suo assurdo sistema socioeconomico e ad entrare nel mondo nel quale, secondo i princìpi della Carta Atlantica, a tutti gli Stati sarebbe stato garantito "uguale accesso al mercato mondiale", mentre la collaborazione economica tra le nazioni avrebbe permesso di ottenere per tutti "migliori condizioni di lavoro, avanzamento economico e sicurezza sociale".

Su questa previsione ottimistica si basavano i piani americani per l’Europa del dopoguerra e l’indifferenza nei confronti dell’Europa orientale. Come aveva scritto lo stretto collaboratore del presidente, il sottosegretario di Stato Adolph Berle, "i piccoli Paesi dell’Europa orientale non possono esistere come unità isolate. Saranno dominati da qualcuno, dalla Russia o dalla Germania [...]. Non vedo alcuna ragione perché dobbiamo obiettare al loro inserimento nell’orbita della Russia, con la condizione che l’Urss non userà il suo potere per sovvertire i loro governi" (nota 1). Il giudizio storico su Averell Harriman, uno dei principali consiglieri di Roosevelt che, "cieco al vero carattere dello Stato totalitario, era incapace di comprendere o prevedere le azioni dello Stato sovietico" (nota 2), potrebbe essere esteso a tutta l’amministrazione rooseveltiana. La previsione rooseveltiana di un’eventuale convergenza tra le società democratiche e quelle comuniste sotto la guida americana in un futuro non precisato era in forte contrasto con la visione staliniana della guerra inevitabile tra il campo socialista e quello capitalista che, secondo i postulati dell’ideologia marxista-leninista, doveva concludersi con la vittoria del socialismo su scala mondiale (nota 3).

La leadership staliniana, d’altra parte, concepiva l’Unione Sovietica non come uno Stato, un singolo elemento del sistema geopolitico internazionale, ma come il nucleo di un sistema socialista in costante espansione che avrebbe infine sostituito il capitalismo. Questa visione dell’Unione Sovietica spiega l’attaccamento dei suoi leaders al concetto territoriale di sicurezza. La dirigenza sovietica cominciò a fare piani per l’ordinamento post-bellico sin dai mesi successivi all’attacco tedesco del giugno 1941, e verso la fine del 1944 le due commissioni del ministero degli Esteri presentarono ai massimi dirigenti del Cremlino le loro proposte. I diplomatici partivano dal presupposto che la sicurezza dell’Urss sarebbe stata possibile solo se l’Europa fosse diventata socialista e che questo scopo sarebbe stato raggiunto entro 30-50 anni, nel corso di due generazioni (nota 4). Nell’immediato, gli esperti di Mosca raccomandavano di avanzare ampie richieste territoriali al fine di ottenere il massimo di concessioni: fare pressioni per includere nella sfera d’influenza sovietica Svezia, Finlandia, Polonia, Ungheria, Cecoslovacchia, Romania, Bulgaria, Jugoslavia e Turchia, e insistere sulla piena neutralizzazione di Norvegia, Danimarca, Germania, Austria e Italia. Inoltre, suggerivano di fare tutti gli sforzi per acquisire il controllo sugli stretti turchi nonché l’amministrazione fiduciaria delle isole del Dodecanneso, della Tripolitania, della Somalia, dell’Eritrea e persino della Palestina (nota 5). La posizione di Stalin e Molotov era ancora più rigida ed espansionistica dei loro diplomatici: così, subito dopo la guerra, oltre a premere sulla Turchia per ottenere il controllo sugli stretti del mar Nero, pretesero l’amministrazione fiduciaria sulle ex colonie dell’Asse in Africa e puntarono su un rafforzamento della loro posizione nelle regioni settentrionali della Cina e dell’Iran.

Nell’ultimo periodo di guerra la leadership sovietica elaborò due linee politiche per l’ordinamento post-bellico dell’Europa. La prima consisteva in una radicale riorganizzazione sociale e politica dell’Europa orientale, realizzata dai partiti comunisti nazionali appoggiati dall’esercito sovietico. Sperando di ricevere gli aiuti economici occidentali, Stalin controllò il processo di sovietizzazione della propria sfera d’influenza, essendo comunque preparato a portare i partiti comunisti al potere al momento opportuno. La seconda prevedeva la mobilitazione e il rafforzamento delle forze pro-sovietiche in quei Paesi dell’Europa occidentale, Italia e Francia innanzitutto, in cui erano presenti forti partiti comunisti, condizionati dall’influenza sovietica.

I primi due anni del dopoguerra registrarono vistosi successi per la politica estera staliniana: le truppe sovietiche controllavano le grandi capitali europee - Varsavia, Berlino, Vienna, Budapest e Praga -; la politica di sovietizzazione dell’Europa orientale procedeva nel modo programmato, anche se con relativa lentezza, per non allarmare e non irrigidire l’Occidente. Nello stesso tempo, la profonda crisi post-bellica, che investì molti Paesi dell’Europa occidentale, fu accompagnata da un forte aumento dell’influenza dei partiti comunisti, entrati nelle compagini governative francese, italiana e belga. Come ricordò con molta soddisfazione Molotov, "Roosevelt pensava che gli americani fossero tanto ricchi e noi tanto poveri e indeboliti che avremmo dovuto inchinarci davanti a loro [...]. Ma si sbagliavano. Loro non erano marxisti, noi invece sì. Soltanto dopo aver perso mezza Europa si sono risvegliati" (nota 6).

Il famoso "telegramma lungo" inviato a Washington dal rappresentante americano a Mosca, George Kennan, il 22 febbraio 19467, segnò l’inizio di un profondo ripensamento della politica Usa. Dopo aver fornito un’analisi dettagliata della visione del mondo che aveva la leadership staliniana, Kennan presentava l’espansionismo come la caratteristica centrale della politica estera dell’Urss: "Dovunque sia considerato opportuno e possibile, saranno fatti sforzi [...] per estendere il potere sovietico a nuove aree". Kennan dedicava un’attenzione particolare agli "organismi utilizzati per l’attuazione della politica sovietica a livelli non ufficiali", cioè ai partiti comunisti, insistendo su un’importante distinzione tra "il nucleo centrale interno dei partiti comunisti, un direttorio del mondo comunista, che operava clandestinamente, un Comintern nascosto, strettamente coordinato e diretto da Mosca" e i semplici iscritti, i quali "non conoscono nemmeno le realtà del movimento" e sono "del tutto innocenti del collegamento cospiratorio con Stati stranieri".

A proposito della tattica dei partiti comunisti, Kennan scriveva: "Nei Paesi in cui i comunisti sono forti numericamente [...] sono utilizzati per penetrare, influenzare o dominare altre organizzazioni non sospettabili di essere strumenti del governo sovietico [...]: sindacati, organizzazioni giovanili e delle donne, gruppi sociali, razziali e religiosi, associazioni culturali, riviste liberali, case editrici, eccetera". Nella conclusione, Kennan suggeriva la prima formulazione della politica di contenimento: i dirigenti sovietici "impermeabili alla logica della ragione, sono molto sensibili alla logica della forza. Essi possono facilmente tirarsi indietro ogni momento e lo fanno generalmente quando incontrano una forte resistenza" (nota 7). Ora che gli storici hanno accesso ai resoconti stenografici degli incontri di Stalin del 1944 con i leaders comunisti occidentali e alle sue direttive a Togliatti e a Thorez, si può apprezzare in pieno la perspicacia dell’analisi di Kennan.

Nel periodo 1946-47 la lenta ma decisa sovietizzazione dell’Europa orientale, la pressione sulla Turchia e sull’Iran e la ripresa della guerra civile in Grecia confermarono i sospetti da parte dell’amministrazione americana che le dichiarazioni di Stalin che l’unica richiesta dell’Urss era di avere "Stati-amici" lungo i propri confini non esprimessero le sue vere intenzioni. Ma l’inerzia della politica estera rooseveltiana, che continuò anche con l’amministrazione Truman, e l’atteggiamento favorevole dell’opinione pubblica americana verso il popolo sovietico fecero sì che il riorientamento americano fosse un processo lungo e graduale. Così nel 1946, malgrado il lungo telegramma di Kennan o il monito di Churchill, nel suo discorso a Fulton, che "una cortina di ferro è discesa sull’Europa", le tensioni tra le grandi potenze non portarono a una rottura decisiva. Questa avvenne sul problema della Germania, la cui industria e le cui risorse avevano da sempre costituito la forza-motrice della crescita economica dell’Europa occidentale. La ricostruzione europea non era possibile con la Germania divisa in quattro zone, senza una politica economica comune e senza massicci aiuti americani. I ripetuti fallimenti delle conferenze dei ministri degli Esteri delle potenze vincitrici per trovare una soluzione alla questione tedesca convinsero gli anglo-americani che Stalin stava deliberatamente bloccando la situazione per precipitare il collasso economico europeo.

In retrospettiva, si può affermare che la svolta nella politica estera americana avvenne nel marzo-aprile del 1947. Già nel marzo 1947 Truman chiese al Congresso di approvare gli aiuti economici e militari alla Turchia e alla Grecia per appoggiarle contro "l’aggressione diretta o indiretta" da parte dei "regimi totalitari". Nel corso dell’incontro svoltosi il 15 aprile 1947 tra il segretario di Stato americano George Marshall e Stalin, ultimo incontro tra il dittatore sovietico e un membro di primo piano del governo americano, Marshall ammonì che il continuo deterioramento economico avrebbe potuto portare "all’eliminazione di ogni possibilità di sopravvivenza democratica" in Europa. Stalin, imperturbato, ribattè che "la situazione non era tragica" e suggerì a Marshall di "aver pazienza e di non deprimersi" (nota 8), manifestando il suo ottimismo nelle prospettive a lungo termine. L’atteggiamento del leader sovietico convinse Marshall che Stalin stava solo cercando di guadagnare tempo, nella speranza che il crollo economico dell’Europa occidentale creasse le condizioni favorevoli all’ulteriore espansione dell’influenza sovietica nella regione.

Di fatto, l’Europa occidentale era sull’orlo del collasso: tra la fine del 1946 e la prima metà del 1947 la produzione in Europa occidentale era caduta dall’83% al 78% per cento dei livelli prebellici. Ernest Bevin, ministro degli Esteri britannico, dopo un lungo soggiorno a Mosca nel marzo-aprile 1947 arrivò alla conclusione che "tutto quello che i russi dovevano fare era aspettare e la situazione si sarebbe sviluppata a loro vantaggio" (nota 9).

La grave crisi e le crescenti tensioni sociali stavano generando una sempre maggiore instabilità politica in Europa, creando ampie possibilità per la presa del potere da parte dei partiti comunisti in Francia e in Italia. La situazione dell’Italia era molto indicativa. Alle elezioni amministrative del novembre 1946 la Dc aveva subìto un forte arretramento, mentre erano cresciuti i partiti di sinistra. Il viaggio di De Gasperi a Washington, nel gennaio 1947, per ottenere aiuti dall’amministrazione Truman, era stato un successo soltanto parziale. Il governo americano aveva concesso il prestito ma nello stesso tempo continuava a nutrire scarsa fiducia nelle capacità di De Gasperi di essere all’altezza della difficile situazione e di riuscire a mantenerne il controllo. In contrasto con l’opinione largamente diffusa che ci fosse una forte pressione americana fin dal viaggio di De Gasperi a Washington per una esclusione dei comunisti dal governo, la documentazione mostra invece una notevole incertezza dell’amministrazione Usa nei primi mesi del 1947.

Gli Stati Uniti assistettero con crescente preoccupazione ai successi dei comunisti alle elezioni amministrative nelle principali città, al loro controllo delle organizzazioni sindacali e al processo di crescente destabilizzazione, ma senza arrivare a una chiara linea politica. Il 1 maggio 1947 il segretario di Stato Marshall scriveva una lettera allarmata all’ambasciatore James Dunn, elencando i punti di forza del Pci e chiedendo un chiarimento sulle alternative di un governo senza De Gasperi, un governo di De Gasperi senza i comunisti o un governo tecnico senza la base parlamentare (nota 10). In risposta, Dunn sollecitò un’azione più decisa e aperta in Italia, indicando che il governo americano "agli occhi degli italiani aveva mantenuto un ruolo passivo sul problema della crescita del comunismo italiano" (nota 11). Di fronte alla decisione di De Gasperi di fare un governo senza le sinistre, però, l’amministrazione Truman criticò l’assenza del partito socialdemocratico, temendo che un governo composto soltanto dalla Dc e da alcuni liberali, non potesse reggere alla pressione delle sinistre. Sollecitando la partecipazione del Psli di Saragat al governo, Marshall insisteva che "la situazione italiana esige la leale cooperazione, per l’interesse nazionale, di tutti i democratici. Ai leaders della Dc potrebbe sottolineare la necessità, comune oggi a tutti i governi europei, di avere l’appoggio della sinistra democratica e la più ampia rappresentanza possibile delle classi lavoratrici" (nota 12). Gli osservatori americani pensavano che il governo costituito da De Gasperi fosse un rimedio soltanto transitorio, giudicandolo traballante e fragile (nota 13).

Il piano Marshall segnò un momento decisivo nelle relazioni tra l’Urss staliniana e l’Occidente e in tutta la storia dell’Europa del dopoguerra. Il 5 giugno 1947 Marshall pronunciò il famoso discorso all’università di Harvard, dichiarando che gli Stati Uniti erano pronti a offrire aiuti all’Europa, per evitarne la catastrofe economica. Il piano Marshall conteneva l’invito formale all’Urss e ai Paesi dell’Europa orientale di partecipare alla sua attuazione. Dal punto di vista americano, il piano Marshall rappresentò una misura difensiva a sostegno delle economie europee e, nello stesso tempo, una misura politica per ridurre l’influenza sovietica in quell’area. L’ambasciatore sovietico negli Stati Uniti, Nikolai Novikov, ne sottolineò immediatamente questo aspetto, affermando, in un telegramma a Mosca del 24 giugno 1947, che l’iniziativa americana era tesa "a fermare il processo di democratizzazione dei Paesi europei, a stimolare le forze antagoniste all’Unione Sovietica e a rafforzare le posizioni del capitale americano in Europa e in Asia" (nota 14). Se ricordiamo che "democratizzazione" nel vocabolario staliniano aveva un preciso significato di imposizione di regimi filosovietici e di sistemi monopartitici - sinonimo di "sovietizzazione" - la conclusione dell’ambasciatore non era lontana dalla realtà.

Inizialmente a Mosca prevalse, però, un’interpretazione diversa: sotto l’influenza dell’ideologia marxista i dirigenti sovietici presero il piano Marshall come manifestazione della necessità americana di offrire prestiti all’Europa per evitare una grave depressione e ritardare una crisi di sovraproduzione postbellica. Sperarono che con abili trattative avrebbero potuto utilizzare l’imminente crisi americana per ottenere vantaggiosi crediti senza offrire serie concessioni politiche. Così, alla fine del giugno del 1947, una nutrita delegazione dell’Urss - più di cento persone, con a capo Molotov - arrivò a Parigi per la conferenza dei ministri degli Esteri di Gran Bretagna, Francia e Unione Sovietica sul piano Marshall. Dopo i primi incontri, l’atteggiamento russo cambiò bruscamente: il 2 luglio Molotov in un discorso accusò i Paesi occidentali di voler spaccare l’Europa in due campi avversi e abbandonò la conferenza di Parigi, rifiutando la partecipazione sovietica al piano Marshall. L’Urss costrinse poi anche i Paesi dell’Europa orientale a respingere gli aiuti economici americani.

Fino all’apertura degli archivi sovietici le ragioni di questo improvviso ripensamento rimanevano incomprensibili. La nuova documentazione rende ora possibile ricostruire questo passaggio mancante del processo decisionale sovietico. Alla mattina del 30 giugno Molotov ricevette da Mosca un telegramma cifrato in cui i servizi segreti riferivano l’informazione dell’agente Donald Maclean, membro del gruppo dei "cinque di Cambridge", primo segretario dell’ambasciata britannica a Washington. Secondo Maclean, gli aiuti del piano Marshall dovevano sostituire le gravose riparazioni tedesche all’Urss richieste da Stalin (nota 15). Dal punto di vista sovietico, inoltre, il controllo internazionale cui sarebbero stati soggetti gli aiuti americani "era assolutamente inaccettabile perché avrebbe impedito il consolidamento del controllo nell’Europa orientale [...] dove i partiti comunisti sarebbero stati privati delle leve economiche del potere" (nota 16).

In questa nuova situazione il Cremlino riconsiderò gli avvenimenti della prima metà del 1947, razionalizzandoli a posteriori. Così, l’estromissione dei partiti comunisti francese e italiano dai governi in Italia e in Francia - che aveva preceduto l’annuncio del piano Marshall - inizialmente non aveva preoccupato più di tanto i dirigenti sovietici, perché era stata considerata una fase transitoria, dopo di che sarebbe stato possibile un ritorno delle sinistre al governo. Dopo l’enunciazione del piano Marshall, però, i sovietici cominciarono a interpretare l’estromissione dei comunisti come parte integrante di una generale offensiva americana. Non potendo contrastarla sul piano economico, la dirigenza staliniana optò per una brusca accelerazione della sovietizzazione dell’Europa orientale e per il rafforzamento del proprio controllo sul movimento comunista, riaffermando il suo carattere di movimento internazionale per la difesa dell’Unione Sovietica. La triplice risposta staliniana incluse, quindi, l’accelerazione drastica del consolidamento del controllo sovietico sull’Europa orientale, che sarebbe culminata nel colpo di Stato in Cecoslovacchia del febbraio 1948, la ricostituzione formale del vecchio Comintern, che risorgeva sotto la nuova veste del Cominform, e la direttiva ai partiti comunisti occidentali di mettersi in contrapposizione frontale con i propri governi che avevano accettato il piano Marshall. Si chiudeva così il periodo di collaborazione sovietica con le altre potenze alleate e terminava anche la strategia concordata da Stalin con i leaders dei partiti comunisti francesi e italiani nel 1944.

La situazione in Italia, il ruolo del Pci e l’importanza storica dell’esito delle elezioni del 1948 non possono essere compresi senza vederli in stretto collegamento con la complessa situazione internazionale del periodo. Nel 1947 il Pci e il Pcf furono gli unici tra i partiti comunisti occidentali a far parte del Cominform, la cui creazione rispondeva alla necessità di ristabilire un controllo più rigido sul movimento comunista, preparandolo per il lavoro nelle nuove condizioni della guerra fredda. Alla prima conferenza del Cominform del settembre 1947, il Pci e il Pcf subirono pesanti critiche, introdotte e orchestrate dai dirigenti sovietici, e furono accusati di una eccessiva fiducia nel parlamentarismo, di aver sottovalutato la propria forza e di non essersi opposti all’estromissione dal governo. La nuova direttiva staliniana definì "il rafforzamento della potenza dell’Urss" e una massiccia mobilitazione contro il piano Marshall i principali obiettivi dei pc occidentali (nota 17). Come prescritto dalla cultura politica dello stalinismo, i dirigenti dei partiti occidentali accettarono le critiche e cambiarono immediatamente la linea politica precedente. Così, per tutto il decennio seguente, il Pci agì senza un programma realistico di sviluppo del Paese, spesso come una forza ostruzionistica, organizzando violenti scioperi e mobilitando le masse sotto la bandiera dell’anticapitalismo e dell’antiamericanismo. Rifiutando gli "aiuti per stimolare investimenti e produzione [...] i comunisti in un certo senso si posero al di fuori del processo politico normale" (nota 18).

L’insistenza di Zhdanov sulla divisione del mondo in due campi contrapposti, il duro attacco al parlamentarismo e gli elogi al "modello greco" di un’aperta guerra civile, pronunciati da alcuni delegati nella conferenza di Cominform, ridiedero vita alla prospettiva insurrezionale dentro il Pci. Durante la visita a Mosca del dicembre 1947 Pietro Secchia, il capo dell’ala insurrezionale del partito, ventilò la possibilità di uno scontro armato "difensivo", accusando indirettamente Togliatti di eccessiva cautela, ma fu frenato dalla secca risposta di Stalin: "Su questo problema non abbiamo divergenze. La valutazione della situazione e della tattica presentata dal compagno Togliatti è giusta. Riteniamo che non bisogna puntare sull’insurrezione, ma bisogna essere pronti se il nemico ci attacca" (nota 19). La risposta dimostrava che per Stalin i rapporti di forza del momento non avrebbero giustificato una violazione della divisione del mondo sancita a Yalta.

Il colpo di Stato in Cecoslovacchia del febbraio 1948, in cui i comunisti cecoslovacchi andarono al potere con il pieno appoggio sovietico, potrebbe essere considerato l’ultimo atto del processo di maturazione della guerra fredda. La nuova documentazione archivistica dimostra inequivocabilmente che la piena sovietizzazione dell’Europa orientale non fu la risposta sovietica all’offensiva economica americana del 1947, ma fu fin dall’inizio la linea generale staliniana. Il piano Marshall servì, però, da fattore scatenante. Dopo la Cecoslovacchia la guerra fredda fu un fatto compiuto. Così, le elezioni italiane dell’aprile 1948 furono il primo scontro frontale tra le forze dei due campi. Le elezioni erano viste da molti comunisti come un’occasione da non perdere per due ragioni essenziali. Prima di tutto, le elezioni sembravano cadere nella fase culminante della popolarità del Pci che, per le persone dotate di realismo politico, non poteva durare più di tanto di fronte alla manifesta incapacità sovietica di fornire aiuti economici e di contrastare l’offensiva economica americana. Ancora più importante, dopo il successo cecoslovacco un’atmosfera di grande entusiasmo si diffuse tra i settori più radicali dei partiti comunisti europei, e del Pci in particolare, incoraggiati dal passaggio alle azioni attive nella politica estera sovietica.

L’arrivo al potere delle forze pro-sovietiche in un Paese appartenente alla sfera d’influenza occidentale sarebbe stato il primo e non previsto caso di rovesciamento della divisione di Yalta, raggiunto con metodi democratici. Tutte e due le parti del conflitto si preparavano all’eventualità di scontri in seguito ad un mancato riconoscimento e ad un annullamento dell’esito del voto. Le speranze del Pci di vincere le elezioni erano così alte che il dibattito interno ruotava non tanto sulla vittoria, che appariva quasi scontata, quanto su come reagire nel caso l’opposizione democristiana non avesse riconosciuto i risultati, ricorrendo a un intervento militare americano. Come uno dei dirigenti del Pci disse a un diplomatico sovietico, la prospettiva della guerra civile "non ci spaventa, perché ora le forze della democrazia in Italia sono più forti e questa volta non saremo noi ad andare in montagna" (nota 20). Nello stesso momento il Consiglio di sicurezza nazionale degli Usa approvava la politica di non-intervento "in un conflitto civile di carattere interno in Italia", pur prevedendo la possibilità di inviare forze militari in Sicilia e in Sardegna, ma soltanto nel caso di una presa illegale del potere da parte del Pci (nota 21).

Per scongiurare il pericolo di un’insurrezione organizzata dalla superzelante ala rivoluzionaria del proprio partito, Togliatti, che dopo l’esperienza della guerra in Spagna era diventato un convinto oppositore della guerra civile, fece un insolito passo, organizzando un incontro segreto con l’ambasciatore sovietico per chiedere "se si deve, nel caso di una o più provocazioni da parte dei democristiani, iniziare l’insurrezione armata delle forze del Fronte democratico popolare per prendere il potere" (nota 22). Rassicurando Mosca che in caso di estrema necessità il Pci sarebbe stato pronto a ricorrere all’insurrezione armata, Togliatti sottolineò che, in seguito all’insurrezione, poteva scoppiare una grande guerra, alla quale "avrebbero partecipato non soltanto i Paesi europei, cioè dalla parte del Fronte popolare la Jugoslavia e gli altri Paesi della nuova democrazia e, dalla parte opposta, gli Usa, l’Inghilterra, la Francia e altri". Presentando questo allarmante scenario del probabile scoppio di una terza guerra mondiale in seguito alle elezioni italiane, Togliatti puntava sulla prudenza e sulla cautela di Stalin, che aveva sempre avuto paura di un’insurrezione prematura, non giustificata da un bilanciamento di forze. La risposta di Mosca fu immediata e inequivocabile: "Per quanto riguarda la presa del potere attraverso un’insurrezione armata, consideriamo che il Pci in questo momento non può attuarla in alcun modo".

Accantonata l’alternativa dell’insurrezione armata, l’esito dello scontro dei due campi opposti in Italia doveva essere deciso nelle cabine elettorali. Malgrado la massiccia campagna propagandistico-ideologica organizzata da entrambe le parti, la maggioranza della popolazione votò secondo la percezione dei propri interessi immediati, valutando il peso dei concreti aiuti americani contro le vaghe promesse di maggiore giustizia sociale e benessere economico del lontano modello sovietico. È questo un raro caso nella storia in cui il buon senso della maggioranza degli italiani fu premiato negli anni immediatamente seguenti, come dimostrano queste cifre. Tra il 1948 e il 1951 gli Usa fornirono all’Europa occidentale aiuti per un valore di circa 13 miliardi di dollari - una cifra enorme per quel periodo - due terzi dei quali furono ricevuti da Inghilterra, Francia, Italia e Germania occidentale; dall’altra parte, nel periodo tra il 1948 e la morte di Stalin nel 1953, l’Unione Sovietica si appropriò di beni dei Paesi dell’Europa orientale per un valore di circa 14 miliardi di dollari (nota 23).

Note

1. B. Berle e T. Jacobs (a cura di), Navigating the Rapids, 1918-1971: From the Papers of Adolf Berle, New York, 1973, p. 401.
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2. In "The New Republic", 27 luglio 1992, p. 57.
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3. E. Aga-Rossi, Roosevelt’s European Policy and the Origins of the Cold War: A Revaluation, in "Telos", 96, 1993, pp. 65-85.
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4. "Istochnik", 4, 1995, pp. 124-125.
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5. M. Litvinov, O perspektivax i vozmozhnoi baze sovetsko-britanskogo sotrudnichestva, del 15 ottobre 1944, cit. in O. Rzheshevsky (a cura di), Vtoraia mirovaia vojna, Moskva, Nauka, 1995, pp. 58-59.
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6. F. Chuev, Sto sorok besed s Molotovym, Moskva, Terra, 1991, p. 67.
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7. Foreign Relations of the United States: Diplomatic Papers (FRUS), 1946, vol. 6, pp. 696-709.
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8. FRUS, 1947, vol. 2, pp. 340-344.
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9. A. Bullock, Ernest Bevin. Foreign Secretary, 1945-1951, New York, Norton, 1983, p. 418.
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10. FRUS, 1947, vol. 3, p. 889.
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11. FRUS, 1947, vol. 3, p. 891.
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12. The Secretary of State to the Embassy in Italy, 6 giugno 1947, FRUS, 1947, vol. 3, Washington, D.C., 1972, p. 919.
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13. J. Campbell, The United States in World Affairs 1947-1948, Council on Foreign Relations, New York, Harper, 1948, p. 56.
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14. Cit. in "Mezhdunarodnaia zhizn", 5, 1992, p. 121.
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15. Vyshinsky a Molotov, telegramma cifrato del 30 giugno 1947, cit. in M. Narinsky, The Soviet Union and the Marshall Plan, Cold War International History Project, 1994, p. 45.
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16. P. Sudoplatov, Special Tasks. The Memoirs of an Unwanted Witness-a Soviet Spymaster, Boston, Little, Brown and Co, 1994, pp. 231-232.
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17. The Cominform. Minutes of the Three Conferences 1947/1948/1949, Milano, Feltrinelli, 1994, pp. 452-461.
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18. Ch. Maier, The Politics of Productivity: Foundation of American International Economic Policy after World War II, in "International Organization", 1977, p. 626.
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19. E. Aga-Rossi e V. Zaslavsky, Togliatti e Stalin, Bologna, Il Mulino, 1997, p. 296.
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20. G. Pajetta, cit. in E. Aga-Rossi e V. Zaslavsky, op. cit., p. 232 .
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21. Cfr. The Position of the United States with Respect to Italy, National Security Council, 1/2, 10 febbraio 1948, FRUS, 1948, 1974, vol. 3, pp. 767-69.
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22. Per una discussione dettagliata sul problema dell’insurrezione armata si veda E. Aga-Rossi e V. Zaslavsky, op. cit., cap. 7, in cui sono riferite questa e le altre citazioni.
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23. Si veda D. Reynolds, The European Responses. Primacy of Politics, in "Foreign Affairs", 3, 1997, p. 182.
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Elena Aga-Rossi
Victor Zaslavsky


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