Intervista a Sali Berisha
"ITALIA, ATTENTA:
L'ALBANIA E' ALLA DERIVA"

di Stefano Mensurati

Ad oltre nove mesi dall’ascesa al potere del Partito Socialista, l’Albania si trova più che mai in un vicolo cieco. Anche gli intellettuali di sinistra voltano ora le spalle al governo di Fatos Nano, mai così impopolare da quando, nel luglio scorso, successe al governo di transizione di Bashkim Fino imposto dalla diplomazia internazionale. Tanto impopolare che a Tirana dicono che la classe politica socialista stia con un piede nel palazzo e con uno all’aeroporto. Ma non è una battuta: le famiglie della nomenklatura - compresa quella di Nano - sono già da mesi al sicuro all’estero, in Francia, negli Stati Uniti, in Grecia. La grave crisi economica, l’arroganza del potere politico, la criminalità e la corruzione dilaganti, il mancato ritorno degli investitori stranieri, gli strascichi del crac delle società piramidali ed ora il riacutizzarsi della tensione nel vicino Kosovo rischiano di far saltare da un momento all’altro i fragilissimi equilibri sui quali si regge un Paese sfiancato e deluso. Ne abbiamo parlato con l’ex presidente albanese Sali Berisha, leader del Partito Democratico ora all’opposizione, incominciando dal casus belli della rivolta della scorsa primavera, che ha portato il Paese nel caos: il fallimento delle cosiddette "finanziarie", che hanno rastrellato milioni di dollari promettendo interessi da capogiro. Ma il colloquio con Berisha tocca altri temi spinosi, come la politica seguìta dal governo italiano, la vicenda della nave albanese affondata e la drammatica situazione nel Kosovo.

Presidente, cosa si rimprovera nella gestione della crisi delle finanziarie, che fu all’origine del ritorno dei socialcomunisti alla guida dell’Albania?

L’aver sottovalutato le conseguenze alle quali ci avrebbe condotto lo schema delle società piramidali è stato un errore imperdonabile, non posso negarlo. Ma quando ci siamo resi conto del pericolo e abbiamo cercato di fermare la truffa era troppo tardi: a quel punto è stata la stessa gente a rivoltarsi, perché temeva che con la chiusura delle finanziarie avrebbe perso tutti i suoi risparmi. In soli tre mesi, mentre noi pensavamo preoccupati come arrestare la corsa all’investimento facile, il patrimonio delle finanziarie è sestuplicato. Eppure, fino al ’96 nessuno, dico nessuno, aveva paventato il rischio cui andavamo incontro. Ciò premesso, va però ricordato cosa è successo dopo. È proprio sulla crisi delle finanziarie che si è innestata la spirale di violenza, scatenata dagli agit-prop comunisti per la conquista del potere. Mentre le bande mafiose davano l’assalto alle caserme e alle carceri, gli ex agenti della Sigurimi - la polizia segreta di Enver Hoxha - diffondevano la voce, in Albania e all’estero, che il Partito Democratico aveva costruito le società piramidali e si era arricchito rubando milioni di dollari agli ignari investitori. A un anno di distanza, la Commissione parlamentare d’inchiesta ha invece riconosciuto la nostra totale estraneità, ma questa è soltanto metà della verità. Perché il 97% di quelli che hanno partecipato alla costruzione e al funzionamento delle società piramidali, dai semplici cassieri ai presidenti, erano o membri della nomenklatura comunista, o agenti della Sigurimi o esponenti della malavita locale. Tutti personaggi che dopo le elezioni sono divenuti alti dignitari di corte: ministri, capi dei servizi segreti, ambasciatori. Il ministro delle Finanze, Arben Malaj, è stato il principale consigliere di tre di quelle società, intascando per le sue "consulenze" oltre mezzo milione di dollari. A metà aprile la commissione d’inchiesta ha presentato al premier Nano un dossier coi nomi dei responsabili: la lista comprende 180 esponenti della sua banda. La triste verità è che l’Albania è diventata il paradiso della mafia regionale. Si è più volte parlato di fuga di capitali. Perché nessuno indaga sui milioni di dollari portati in Grecia dai capi dell’attuale regime?

Lei ha più volte accusato il governo di essere implicato nel contrabbando. Ne è veramente convinto?

Assolutamente. E di mezzo c’è anche il primo ministro Nano, che anzi dirige tutti i traffici. Tutti sapevano, per esempio, che Fino era in combutta con la mafia dei carburanti di Argirocastro. Eppure, anche in Italia, lo avete scambiato per un grande statista. Se in nove mesi neanche un pacchetto di sigarette ha pagato le tasse doganali, e lo stesso è avvenuto per la benzina e per gli alcolici, questo significa che ci sono due dogane, una per lo Stato, che non incassa nulla, e l’altra per la cricca al potere, che si arricchisce. Persino la stampa di sinistra ora attacca il governo, denunciando le connivenze con il contrabbando ed il mancato controllo di porti, aeroporti e frontiere terrestri. Il giornale Shekull, diretto dall’attuale consigliere politico del presidente Meidani, citando una fonte del ministero degli Interni parla di mancati introiti per circa 300 milioni di dollari al mese. Una cifra che si spiega col fatto che non bisogna contare soltanto i dazi di ingresso ma anche quelli d’uscita, perché per numerosissime merci il nostro territorio è soltanto un punto di transito. L’Albania, insomma, è diventata in poco tempo il crocevia di tutti i traffici sporchi della regione.

Fra questi, a preoccupare molto l’Italia c’è anche quello della droga.

Senza dubbio. Ma non c’è solo la droga di passaggio. Il governo ora tollera anche le coltivazioni di marijuana nel sud, e in alcune zone stanno addirittura sperimentando la coltivazione della coca. L’Intelligence antidroga italiana lo sa ed ha avvertito il vostro governo. Le cui immaginabili pressioni sul regime di Tirana non hanno però avuto alcun effetto.

Ma come è possibile combattere efficacemente una criminalità così diffusa?

Non sarà facile e avremo bisogno dell’aiuto delle forze di polizia europee. Ma non c’è alcun dubbio che la rinascita del Paese incominci proprio da qui: senza una sconfitta delle mafie non ci sarà alcun futuro per l’Albania. Quando nel ’92 vinsi le prime elezioni libere, il Paese era a pezzi. Eppure dissi che il problema numero uno non era la crisi economica, ma il ristabilimento dell’ordine pubblico. Adesso ci ritroviamo nella stessa situazione di anarchia, anzi, stiamo peggio di allora. Il crimine organizzato dilaga ed ora è anche super-armato: durante la rivolta dello scorso anno sono spariti dalle caserme oltre un milione di fucili e altrettante cartucce, un centinaio di bazooka, circa 200 mitragliatrici pesanti, bombe di ogni tipo e persino una quindicina di carri armati. E, naturalmente, a questo governo screditato e connivente nessuno pensa di restituire neanche un bossolo.

Come spiega l’appoggio dell’Europa e degli Stati Uniti al governo Nano e soprattutto alla sua campagna elettorale dello scorso anno?

In primo luogo ci sono coloro che hanno creduto che il Partito Democratico avesse perso il diritto a governare a causa dello scandalo delle finanziarie. Secondo, ci sono quelli che hanno puntato sui comunisti semplicemente per simpatia politica, convinti così di estendere la loro influenza sulla regione. Fra questi un ruolo di primo piano lo ha avuto il Pds, che attraverso Fassino ha riorientato a suo piacimento la politica estera dell’Italia nei nostri confronti.

Insomma, lei ricorda ancora la dichiarazione dell’8 aprile ’97, quando il sottosegretario agli Esteri disse: "Che Berisha se ne debba andare è chiarissimo. Almeno per noi, e quando dico noi non dico solo il Pds ma anche il governo".

Prodi mi ha immediatamente inviato una lettera di scuse e di spiegazioni. Sta di fatto che Fassino rimane un comunista vero e proprio, più vicino a Rifondazione che al Pds. Ecco perché era così affascinato dalla mafia comunista albanese, che secondo lui stava facendo la rivoluzione. I cui risultati sono sotto gli occhi di tutti.

Come giudica nel suo complesso l’atteggiamento del governo italiano nei confronti della crisi albanese?

Dico solo questo: ora si ritrovano al potere quelli che hanno sfacciatamente appoggiato. All’interno del vostro governo c’erano alcuni che non condividevano questa linea, ma sono stati immediatamente ridotti al silenzio. E sono sicuro, anche se non lo ammetteranno mai, che Fassino e i suoi compagni si rendano perfettamente conto delle gravi scorrettezze e delle indebite interferenze che hanno contraddistinto la loro azione politica.

In piena crisi delle finanziarie, con la rivolta che covava sotto le ceneri, c’è poi stato l’affondamento della nave albanese, con 89 morti.

Un atto gravissimo, che poteva essere evitato. Non si può certo immaginare che il governo italiano avesse ordinato alle sue navi di speronare i barconi con i clandestini, ma non si può nemmeno proteggere la stupidità o l’imperizia di un comandante che in acque internazionali cola a picco un imbarcazione carica di profughi. Quanto all’inchiesta, sono sempre stato per l’istituzione di una commissione internazionale anziché bilaterale. Soluzione alla quale il governo albanese si è sempre opposto. E sa perché? Il ministro delle Finanze Malaj, il presidente del Parlamento Gjinushi e il ministro della Difesa Brocaj sono immischiati nel caso fino al collo: sono stati loro a obbligare la nave militare albanese a lasciare il porto di Saranda, carica di clandestini, di armi e di droga.

Una tragedia che rimanda più in generale alla questione immigrazione. Cosa ne pensa?

Si tratta di un problema che deve essere preso sul serio prima di tutto dagli albanesi. L’Italia è un Paese membro di Schengen: ha obblighi precisi nei confronti dei suoi partners e dunque non può spalancare le sue frontiere. C’è poi il problema della criminalità, che a sua volta può generare pericolose forme d’intolleranza nei confronti della nostra gente, coinvolgendo anche quanti - e sono decine di migliaia - lavorano onestamente nel vostro Paese. Ecco che il controllo delle frontiere deve avvenire già sulle nostre coste, per bloccare questo traffico indegno. D’altro canto, però, i lavoratori stagionali sono necessari tanto alla nostra economia, che è fortemente sostenuta dalle rimesse degli emigranti, quanto alla vostra, che ha bisogno di mano d’opera per lavori che gli italiani ormai non fanno più. Ma mentre l’Italia dell’Ulivo non ha ancora una politica chiara sull’emigrazione e oscilla tra linea dura e linea morbida, l’Albania comunista la sua scelta l’ha fatta da subito: nessun freno all’emigrazione clandestina né agli altri traffici lucrosi tra le due sponde dell’Adriatico. La prova più lampante della connivenza tra il regime e la mafia ce la offre Zani Caushi, il bandito che capeggiò la rivolta di Valona, quello che si presentò a ricevere Prodi offrendogli la sua protezione. Ebbene, Caushi è in prigione da diversi mesi e ha già fatto sapere che quando sarà interrogato parlerà di tutto e di tutti. E, guarda caso, il processo non è mai incominciato.

Quali sono le principali ragioni della sua sconfitta elettorale?

Indubbiamente sono molteplici. In primo luogo il clima di terrore instaurato nella parte meridionale del Paese che, oltre a impedirci la campagna elettorale, ha pesantemente condizionato il voto, contraddistinto da intimidazioni e da brogli. Secondo, l’incredibile promessa di Nano di restituire agli albanesi i soldi perduti. E questo mentre io avevo detto chiaro e tondo che lo Stato non avrebbe mai potuto accollarsi un debito che non aveva mai contratto e che quindi avremmo soltanto distribuito i fondi rimasti nelle casse delle società fallite. Sono passati nove mesi e naturalmente Nano non ha restituito neanche un lek. Terzo, il ruolo della stampa internazionale, in cerca di sensazionalismi e pronta a mestare nel torbido. Particolarmente grave, a questo proposito, l’influenza della vostra televisione, seguitissima qui da noi. Della demolizione della mia persona e dell’enfatizzazione della rivolta Raitre ne aveva fatto addirittura una bandiera, divenendo praticamente il megafono dei comunisti albanesi. Erano così faziosi che mi ricordavano la tv dei tempi di Enver Hoxha. Ma la Rai, come televisione di Stato, non dovrebbe essere imparziale?

Eppure gli osservatori internazionali non hanno espresso un giudizio così negativo sulla regolarità delle elezioni. Come lo spiega?

Non è esatto. A parere quasi unanime si è trattato delle peggiori elezioni finora svolte in Europa. Noi le abbiamo accettate per due semplici ragioni: l’Albania aveva bisogno di un governo e i socialcomunisti avevano assicurato la restituzione dei soldi. Con una promessa concreta: riavrete indietro ciò che avete perduto. Non accettare il responso bugiardo delle urne avrebbe significato assumersi la responsabilità di una guerra civile.

Non crede che tra i suoi errori ci sia anche quello di non aver represso fin dall’inizio la rivolta di Valona, quando poche decine di persone presero d’assalto la locale caserma di polizia?

È vero, a dare il via alla rivolta armata sono stati piccoli gruppi di banditi. Ma la loro sommossa trovava terreno fertile nel malcontento popolare per il crac delle finanziarie. Un malcontento - lo avevo dichiarato pubblicamente - che doveva essere convogliato nelle urne, alle quali volevo affidare il giudizio del Paese sul mio operato e su quello del mio governo. Ma la rivolta, sulla quale la criminalità e i comunisti gettavano benzina, è divenuta ben presto incontrollabile. Anche perché la mia prudenza e il mio senso di responsabilità nel tentare di evitare a tutti i costi un bagno di sangue sono stati scambiati per debolezza, e gli sforzi dei ribelli si sono allora moltiplicati. Facendosi incredibilmente scudo con donne e bambini, messi in prima fila sulle barricate, e spargendo la voce che da Tirana stava arrivando l’esercito per massacrare i rivoltosi. E questo mentre ad arrivare era solo l’appoggio economico, strategico e militare dei servizi segreti dei nostri due vicini, la Serbia e la Grecia: Atene, che non ha mai nascosto le sue mire egemoniche sull’Albania meridionale, e Belgrado che, col nostro Paese allo sbando, per di più guidato da un governo della stessa matrice ideologica, può finalmente avere mano libera nella sua repressione nel Kosovo.

Una regione a un passo dalla guerra. Cosa si può ancora fare per evitare una nuova Bosnia?

La questione era passata in secondo piano proprio a causa della crisi bosniaca, sulla quale convergevano non solo le attenzioni della diplomazia internazionale ma anche gli sforzi militari e le pressioni politiche del regime di Belgrado. Che ora è tornato ad interessarsi a modo suo della regione kossovara, dove vivono 2 milioni di albanesi. Il conflitto è già incominciato. A metà marzo, per la seconda volta, gli abitanti del Kosovo avevano pacificamente votato per loro indipendenza, da raggiungere attraverso il dialogo politico. Milosevic ha colto così l’occasione per imprimere un ulteriore giro di vite, massacrando decine di civili inermi. La reazione del Gruppo di Contatto è stata immediata ma debole. E questo perché al suo interno esistono preoccupanti divergenze di opinione. Noto con stupore l’esitazione dell’Italia, che è il Paese sul quale si farebbero maggiormente sentire le conseguenze di una deflagrazione della parte meridionale dei Balcani. Un’esitazione che mi spiego in tre modi: innanzitutto, l’Italia è sempre restia ad assumere una qualsiasi iniziativa, la sua politica estera è quella di conservare lo status quo; in secondo luogo, non escludo una certa simpatia ideologica nei confronti di Milosevic; infine, a condizionarne il basso profilo è l’imbarazzato silenzio del governo di Tirana, che da un lato non può ignorare il grido di dolore che giunge dal Kosovo, ma dall’altro deve pagare a Belgrado il prezzo dell’appoggio ottenuto per salire al potere. Dire agli albanesi del Kosovo che non avranno mai diritto all’autodeterminazione, è stupido, è un nonsenso politico. Come è altrettanto folle promettere l’indipendenza. L’unica soluzione alla crisi kossovara passa attraverso l’armonizzazione di queste due tesi contrapposte. Ciò che è stato raggiunto nel nord della ex Jugoslavia a prezzo di guerre sanguinose, nel sud deve essere ottenuto con mezzi pacifici. Del resto qui non è più in gioco la "Grande Serbia": il sogno di Milosevic è definitivamente svanito in Bosnia, dove il 25% della popolazione è di etnia serba. Il Montenegro, ad esempio, pur facendo parte della federazione jugoslava, ha oggi molta più autonomia di quella che aveva il Kosovo nel ’74, ai tempi di Tito. Inoltre, nel Kosovo i serbi sono soltanto il 2% della popolazione. Dunque il richiamo del sangue non c’entra nulla, in ballo c’è soltanto la lotta per il potere in corso a Belgrado, dove la gente non ne può più della crisi economica, dell’embargo e di una folle dittatura.

Non le pare un po’ grottesco che Fatos Nano, condannato per le tangenti della cooperazione italo-albanese, evaso di prigione durante la rivolta e personalmente graziato proprio da lei, sia ora un rispettabile primo ministro?

Tutta la documentazione in base alla quale il signor Nano è stato condannato è stata messa più volte a disposizione di commissioni internazionali, venute in Albania per verificare che durante il processo a suo carico non ci fossero stati abusi. E gli esperti hanno convenuto sull’evidenza delle prove, altro che persecuzione politica. Se la condanna è stata pesante lo deve al vecchio codice comunista, lasciatoci in eredità dai suoi padrini politici. Ad ogni modo, a più riprese, gli ho ridotto la pena togliendogli diversi anni di prigione. Fuggito di galera, con la vittoria alle elezioni era stato praticamente legittimato dal popolo, per cui gli ho interamente condonato la pena residua. Non era però in mio potere cancellare la multa di circa 11 milioni di dollari che deve rimborsare allo Stato per la sottrazione di fondi pubblici: l’amnistia totale spettava al Parlamento, al quale l’ho subito invitato a rivolgersi. Ma lui, invece, cosa ha fatto? Ha incominciato a smantellare l’intero apparato giudiziario, obbligando alle dimissioni tutti i giudici considerati non ossequiosi. Inoltre, ha deciso la cooptazione nell’Alta Corte di Giustizia del suo avvocato, che in questi giorni è chiamato a organizzare un secondo processo contro le sue ruberie, dal quale, ci potrete scommettere, uscirà totalmente assolto.

Dunque, lunga vita a Nano e al suo governo...

Tutt’altro, politicamente Nano è giunto al capolinea. Ma il nostro primo obiettivo è quello di evitare una nuova esplosione di violenza. I presupposti ci sono tutti: l’ordine pubblico è inesistente, la criminalità controlla intere zone del Paese, imponendo le sue leggi alla popolazione inerme, la crisi economica è più grave che mai, in soli nove mesi i disoccupati sono aumentati di oltre 150mila unità. Inoltre, gli investitori stranieri stanno alla larga dall’inflazione galoppante, da un regime fiscale assolutamente svantaggioso, in una parola dal caos. Per scongiurare un’altra insurrezione popolare ho proposto un governo tecnico, soluzione che è stata sprezzantemente respinta dai comunisti, che hanno preferito un semplice rimpasto per allontanare chi incominciava a manifestare qualche perplessità sulla conduzione della cosa pubblica. Ora faremo di tutto per convincere il governo a sottoporsi al giudizio degli elettori: la sua impopolarità è enorme, come ho avuto modo di verificare personalmente in numerosi comizi che sto svolgendo in ogni angolo del Paese, incluse le zone che lo scorso anno mi erano state interdette dai servizi segreti comunisti e dalla criminalità. Ormai Nano si vede solo coi suoi, ha abolito persino le conferenze stampa. Per il bene dell’Albania, si faccia finalmente da parte.

Stefano Mensurati


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1998