Editoriale
AL CENTRO DELLA POLITICA
di Domenico Mennitti

Quanti avevano esercitato pressioni affinché Forza Italia trovasse una forma organizzativa, avviasse la selezione del nuovo personale politico e definisse gli obiettivi della propria strategia, non dovranno più subire l’accusa di essere stati animati da eccessiva impazienza. Perché, se quelle insistenze - petulanti ed a volte polemiche - sono comunque valse ad affrettare l’appuntamento o anche a non farlo ulteriormente slittare, bisogna ammettere che le sollecitazioni a dotarsi dei mezzi idonei per navigare nel mare agitato della politica avevano fondamento reale. L’assise di Assago ha dimostrato che, per avviare lunghe marce, è necessario attrezzarsi convenientemente e che la stagione del cambiamento non è finita, la speranza di modernizzare il Paese non è morta. Il popolo del rinnovamento non si è disperso, non si è arreso, non vuole tornare indietro, anzi è deciso a rimettersi in marcia. Dopo la felice stagione elettorale di quattro anni fa, dopo la grande mobilitazione romana contro la legge finanziaria del 1996, si è ritrovato a Milano il 18 aprile scorso per riaffermare le ragioni della propria presenza e la determinazione a sostenerle ancora, sino in fondo.

Per capire il primo congresso nazionale di Forza Italia è necessario partire dalla fondamentale premessa che questo partito è giunto riluttante a proporsi di organizzare la categoria dei borghesi, che notoriamente non sopportano d’essere politicamente organizzati. Il movimento nacque come espressione dell’antipolitica ed i suoi simpatizzanti si incontravano nei club, strutture aperte alle quali si poteva accedere senza professare fedeltà ideologiche, con lo spirito di rivolgere alla politica domande semplici e precise: assicurare la garanzia dei diritti individuali, il funzionamento dei servizi, la correttezza delle gestioni. Questi cittadini prediligono modi di comportamento e di espressione profondamente diversi da quelli che caratterizzano (sarebbe più corretto scrivere "caratterizzavano") i militanti dei tradizionali partiti di massa, ai quali inopportunamente li raffrontiamo, spesso traendo giudizi approssimativi ed erronei. Si è ripetuto in questa circostanza nei confronti di Forza Italia l’atteggiamento di incomprensione che caratterizzò la fase della nascita. Quando si osservano fenomeni nuovi, bisogna essere carichi di buona fede e di volontà di capire per fermarsi a riflettere; la tentazione immediata è di gettarla in barzelletta, di abbondare nei toni caricaturali. Così, come nel 1994 la gara fu a tratteggiare Forza Italia partito virtuale, di plastica, perché privo delle connotazioni abituali dei partiti, identificabili però con le ragioni che ne avevano determinato la crisi, oggi gli appunti sono stati mossi agli effetti laser, alle luci psichedeliche, al tunnel buio, emblematico della fase di confusione entro la quale ci muoviamo. Magari accadrà che fra qualche anno, quando coglieranno innovazioni di questo tipo anche al congresso del Pds, i critici feroci di oggi saranno indotti a meditare sulla società che cambia e sulla necessità che anche i partiti aggiornino i modi di stare insieme e l’allestimento dei luoghi dove svolgono i loro incontri.

Ha funzionato persino la provocazione sul 18 aprile, che aveva suscitato perplessità notevoli anche all’interno del movimento. Perché alla fine è apparso evidente che l’intenzione non era di appropriarsi indebitamente di un evento che appartiene a chi lo determinò in un contesto profondamente diverso, ma di contraddire la cattiva abitudine di tagliare la storia a fette, riducendo il passato a tabula rasa. Quel 18 aprile di cinquant’anni fa gli elettori scelsero la libertà e collocarono l’Italia sul fronte delle democrazie occidentali, compiendo una scelta di campo che c’è ragione di celebrare; dopo, però, la Dc emarginò i protagonisti di quella vicenda, ed il processo politico si è sviluppato sulla traccia dell’intesa fra cattolici e comunisti, il cui superamento ha messo in crisi la prima Repubblica. I vecchi democristiani, ora dispersi in tanti rivoli, non hanno titolo a lamentarsi, quasi fosse stato perpetrato un furto alla loro storia, che in verità sono stati lesti a rinnegare.

Le cronache riferiscono che sono stati tributati molti e calorosi applausi ad Andreotti, intervenuto ad una manifestazione rievocativa del 18 aprile, ma gli atti parlamentari ricordano come il vecchio leader sia stato consegnato, con i voti dei suoi amici, ad una vicenda giudiziaria che sembra combinata per produrre una sentenza con effetti che incideranno sulla politica e addirittura sulla storia. Il Pds è alla ricerca di qualcosa che lo riabiliti rispetto alla lunga tradizione di ossequio moscovita, perciò ha attivato canali giudiziari e parlamentari per dimostrare che la Dc non governò il Paese con il consenso, ma servendosi di una fitta rete di complicità interne e internazionali, anche criminali, tali da giustificare l’atteggiamento del Pci. Contro la democrazia, che però era bacata, retta da bande terroristiche e mafiose.

Questa non è materia sulla quale i vecchi democristiani possano rivendicare un titolo esclusivo ad intervenire. Perché riguarda tutti ed incide sul futuro di tutti. Forza Italia ha colto questo tema per introdurre il dibattito congressuale ed è segno di scarsa sensibilità averlo valutato come un elemento propagandistico e marginale. Se non altro, indica la civile determinazione a non incoraggiare quelle pietose corse in soccorso del vincitore, che sono una brutta tradizione italiana. Il passato si supera, non si abiura; e chi si candida ad assumere il governo di una nazione deve prendere su di sé anche le esperienze precedenti.

Nel quadro delle preoccupazioni per il futuro assume valore determinante la capacità di produrre buone riforme costituzionali. Forza Italia aveva fatto irruzione sulla scena politica annunziando una grande carica innovatrice, impegnandosi a modernizzare il Paese con l’adozione di un nuovo sistema politico e costituzionale. In questi giorni il Parlamento è intento ad esaminare in prima lettura, alla Camera, i risultati del lavoro di elaborazione svolto nella Commissione Bicamerale per le riforme e siamo in una fase di stallo. Le forze che pure hanno approvato la bozza della Bicamerale sono state chiamate a svolgere riflessioni più approfondite. Nel Parlamento e nel Paese i rilievi sono molti e consistenti, si annunziano iniziative trasversali di referendum proposte con l’obiettivo di far saltare i risultati della Commissione; i dissensi più forti riguardano la congruità dell’ipotesi di organizzazione federalista, i poteri del capo dello Stato che dovrà essere eletto direttamente dal popolo, il sistema elettorale. Non si può dire che sia un dissenso facilmente componibile, ed il fatto che una sventurata stagione di larghe intese non dichiarate abbia portato a votare un modello semipresidenziale pericolosamente contraddittorio non costituisce motivo valido per perseverare sino in fondo.

Forza Italia in congresso ha riproposto l’argomento, mettendo in discussione innanzitutto se stessa per i consensi frettolosamente accordati in Commissione. A noi sembra che l’autocritica debba essere salutata con soddisfazione anche ai fini della ripresa del confronto fra i gruppi parlamentari, che per qualche mese si è svolto nella classica forma del dialogo fra sordi. Senza scossoni (e che siano stati salutari lo dimostra la ripresa del dialogo già nella settimana successiva, quando si sono registrati importanti passi in avanti), l’esito più prevedibile è che ci si vada ad infilare nel semestre bianco senza aver definito alcunché, con un evidente e grave rischio di implosione del sistema politico.

Non è stata riconosciuta buona fede a questa impostazione; anzi, si è mobilitato il fior fiore dei dietrologi per sostenere che il ripensamento di Berlusconi è strumentale e determinato dal fatto che non gli è stata corrisposta contropartita sul piano giudiziario. Il riferimento è alle vicende penali che lo riguardano più che alle linee generali di politica giudiziaria sostenute dal movimento. A questo riguardo, però, il congresso ha fatto registrare un salto di qualità, nel senso che la gestione della giustizia penale da parte di alcune procure ha assunto dimensione politica e trova schierato contro non un singolo personaggio, peraltro imputato, ma un intero movimento (otto milioni di elettori, centoquarantamila iscritti, una classe dirigente presente in tutte le istituzioni), che si riconosce pienamente nel documento illustrato dal senatore Pera ed approvato all’unanimità. Sono così cadute due ipotesi che hanno molto influito sul processo della democrazia italiana negli ultimi quattro anni: la prima è che da una parte ci siano imputati che vogliono sottrarsi alla giustizia e dall’altra angeli vendicatori ostacolati nello svolgimento della loro attività di moralizzazione. Il problema viene ricondotto alla dimensione politica, perché politica è la sua natura, politica è la sua gestione, politici sono i suoi effetti. Lo ha capito subito il pool di Milano che il giorno dopo è sceso sul campo politico, mobilitando Di Pietro.

La seconda ipotesi a cadere è che basti far fuori Berlusconi per disperdere milioni di elettori impegnati a sbarrare la strada alle forze collocate sulla sinistra dello schieramento politico.

Non è mai stato così, ma molti così speravano che fosse. A Milano Berlusconi ha consolidato il suo ruolo di leader non solo perché tale è stato acclamato da tutta l’assemblea dei tremila delegati, ma perché è al vertice di una struttura umana e politica vasta, articolata, organizzata. Il rapporto con il partito è stato storicamente avvertito con un certo fastidio dai leaders che sentono limitata la loro libertà d’iniziativa; in compenso, l’organizzazione del movimento conferisce una forza d’urto ed una capacità di presenza impossibili da realizzare senza un partito. Che il modello prescelto di organizzazione meriti già nuove riflessioni, soprattutto considerando la debolezza della formula nazionale, è altro discorso, che riguarda tutte le formazioni politiche più forti.

Anche Berlusconi ha compiuto con il congresso un salto di qualità politica che speriamo diventi un processo di progressiva maturazione. A Milano, infatti, si è avviata dentro Forza Italia una selezione della classe dirigente. Quanti si sono messi in discussione per i vari organi elettivi, vincitori e sconfitti, hanno fornito un grande contributo al superamento del rapporto fiduciario per sostituirlo con un chiaro rapporto politico. Da oggi ci sono dirigenti eletti direttamente dai delegati, altri insediati in ragione degli incarichi elettivi che ricoprono (perciò con una investitura che ha comunque radici democratiche), altri chiamati dal leader. Nessuno può negare che ci siano le condizioni e le sedi perché i dibattiti si svolgano e le decisioni vengano assunte collegialmente. Ora si misurerà la capacità degli uomini, il loro coraggio, il loro livello di responsabilità. Perché il grado di democrazia all’interno di un movimento politico non si misura soltanto sulla sensibilità del leader, ma anche sulla tenuta e la dignità della classe dirigente.

Abbiamo seguito il congresso da osservatori, senza enfasi e senza pregiudizi. Abbiamo tratto la sensazione che il percorso del cambiamento è più praticabile e che ci si sta attrezzando per non fermarsi alle prime difficoltà. Una piacevole sensazione di nuovo, dopo lunghi tempi di approssimazione, è che il movimento dei moderati ha ritrovato il suo leader. Berlusconi è inimitabile quando è se stesso, diventa superabile quando è tentato di porsi sul piano degli altri. A Milano ha ritrovato lo spirito dei giorni migliori, guadagnando il centro della scena. È tornato ad essere lo snodo dell’evoluzione politica italiana, eliminando quella fastidiosa sensazione di provvisorietà che da qualche tempo lo circondava. Gli immaginifici cacciatori di eredità, soprattutto centristi, ne tengano conto.

Domenico Mennitti


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1998