Congetture & confutazioni
SE QUARANTA ORE
VI SEMBRAN TROPPE...

di Antonio Marzano

Nella storia dell’economia industriale si sono verificate ripetute riduzioni dell’orario di lavoro, né si ricordano situazioni in cui l’evento abbia suscitato effetti traumatici. Significa questo che si possa ridurre a piacimento l’orario di lavoro? Naturalmente no. Devono sussistere alcune condizioni che permettano di lavorare meno, senza che questo provochi effetti destabilizzanti sulle imprese. La condizione generale, necessaria ma non sufficiente, è che si verifichi un aumento della produttività del lavoro. Se in media ogni operaio rende, ad esempio, un 10 per cento in più, riducendo del 10 per cento il suo orario di lavoro la produzione rimane inalterata. Qualora la domanda del prodotto crescesse, la produzione potrebbe anche aumentare, e sarebbe necessario a tale scopo assumere più operai. Ecco un caso in cui si riduce l’orario di lavoro e cresce l’occupazione. Ma si noti che, affinché si riduca l’orario, è necessario l’aumento della produttività; e affinché cresca l’occupazione è invece necessario che aumenti la domanda. Sarebbe improprio attribuire l’aumento dell’occupazione alla riduzione in sé dell’orario. Del resto, si può dire che le riduzioni dell’orario avvenute nel corso di questo secolo non hanno mai rappresentato uno "strumento" per accrescere l’occupazione. Sono state, semmai, un modo per migliorare la qualità della vita, un aspetto sul quale si tornerà più avanti.

Come si diceva, l’aumento della produttività è però una condizione necessaria ma non sufficiente. Supponiamo che, infatti, all’aumento della produttività corrisponda un aumento proporzionale del salario, richiesto dai lavoratori o dai loro sindacati. Se agli aumenti salariali dovesse corrispondere anche una riduzione dell’orario di lavoro, le imprese subirebbero una pressione dei costi: lavorare di meno a salari più alti significa costare di più. Quali le conseguenze?

Delle due l’una. O le imprese riducono i propri margini di profitto, e probabilmente restringono l’occupazione e gli investimenti. Oppure le imprese scaricano sui prezzi l’aumento dei costi. Ma a ben vedere, in tempi di globalizzazione, l’esito non è molto diverso: si perde competitività, e quindi si restringono la produzione e l’occupazione. Vi è dunque una seconda condizione necessaria, affinché la riduzione dell’orario di lavoro non destabilizzi l’economia.

Comunque, occorre un aumento congruo della produttività e, in ogni caso, se si sceglie la via della riduzione dell’orario di lavoro, occorre rinunciare al resto. In particolare, è necessario rinunciare agli aumenti salariali, ma si può dire in generale che occorre rinunciare a tutti quei benefici che comportano più costi per le imprese: ferie, servizi ai lavoratori, periodi di riposo, migliore ambiente di lavoro, eventualmente partecipazione agli utili e così via. Naturalmente, è anche possibile immaginare un mix di questi benefici ma, se si impone uno di essi, si riducono i margini di contrattazione sugli altri.

L’esperienza storica conferma che la questione si pone nei termini suddetti. Infatti, all’inizio del secolo, correva lo slogan del "tre volte otto": otto ore per dormire, otto ore per lavorare, otto per il tempo libero. Otto ore per sei giorni fanno quarantotto ore a settimana. Oggi siamo mediamente a quaranta ore. In un secolo, l’orario si è ridotto grosso modo del 16 per cento, mentre la produttività è aumentata almeno del 300 per cento. Come si spiega che l’aumento della produttività si sia solo in piccola parte risolto in riduzione di orario? La spiegazione è che esso ha dato spazio ad altri benefici, soprattutto rappresentati da aumenti di salario e da miglioramenti della qualità e delle condizioni di lavoro: benefici, questi, addirittura rivoluzionari se confrontati alla condizione operaia del secolo passato, e incommensurabili se confrontati alle condizioni di sacrificio e di pena dei lavoratori nei regimi comunisti (a bassissima produttività).

Ora dobbiamo chiederci cosa può accadere se la riduzione dell’orario di lavoro viene prevista per legge. Innanzitutto, non è che per legge si possa fissare anche l’aumento della produttività. Sarebbe bello, ma nemmeno il più statalista dei governi ha un simile potere. La produttività è molto influenzata dal progresso della tecnologia, che non è sempre di eguale intensità: un rallentamento del progresso - si badi, non un regresso - della tecnologia comporta minori aumenti della produttività. Una legge che riduca l’orario di lavoro è dunque una legge inconsapevole di quello che potrà accadere, non potendo predire e tanto meno predeterminare l’andamento futuro della produttività. La seconda osservazione è che, con la legge, il governo sceglie al posto dei lavoratori (e delle imprese). Nessuno può essere certo che di fronte ad un aumento della produttività (quale che sia) i lavoratori non preferiscano, anziché la riduzione dell’orario, aumenti dei salari o altri benefici. Proprio in questi giorni il governo inglese di Tony Blair propone di dare ai lavoratori, in accordo con gli imprenditori, la facoltà di lavorare più del limite di 48 ore settimanali stabilito dalla direttiva comunitaria. È esattamente il contrario di quanto fa il governo italiano, che priva lavoratori ed imprese della facoltà di contrattare e di scegliere liberamente in materia.

Riassumiamo. Primo, se non si verificherà un aumento della produttività congruo rispetto alla prevista riduzione dell’orario, si creano difficoltà alle imprese, con effetti negativi sull’occupazione. Secondo, se l’aumento di produttività si verificherà, si costringono i lavoratori a rinunciare in proporzione a maggiori salari, a più ferie, eccetera. Terzo, in alternativa o ad integrazione delle prime due ipotesi, è possibile che si verifichi un esodo delle imprese o verso altri Paesi, o verso il sommerso: anche in questo caso, con effetti negativi sull’occupazione, o di altro genere. Questi effetti negativi sono tanto più verosimili nelle regioni dove la produttività del lavoro ha una dinamica più lenta, come in alcune zone del Meridione.

Vi è una quarta possibilità, e cioè che il governo ricorra a disincentivi ed incentivi per indurre le imprese ad adattarsi alla legge. Nel primo caso, esso si rende direttamente responsabile di aumenti del costo a carico delle imprese: di nuovo, ne deriveranno conseguenze negative sull’occupazione. Nel secondo caso, quello degli incentivi, bisogna sempre chiedersi chi paga: ossia, chi dovrà lavorare di più per consentire ad altri di lavorare di meno. Anche in questo caso, vi saranno effetti negativi sull’occupazione.

Queste considerazioni si propongono di portare qualche chiarificazione circa i vari possibili effetti della riduzione per legge dell’orario. Non sono quindi rivolti né all’onorevole Prodi, né al ministro Ciampi, i quali non sembrano avere dubbi in materia. L’onorevole Prodi, infatti, il 24 maggio 1996 al Senato dichiarava: "Io non sono d'accordo a diminuire a trentacinque ore l'orario di lavoro, perché spacchiamo la nostra economia e nessun paese è in grado di farlo". Il ministro del Tesoro Ciampi, il 26 novembre 1997 a Bruxelles ha dichiarato che le 35 ore per tutti sono "una stupidaggine economica".

Forse si tratta di qualcosa in più di questo. Il nostro è un Paese in cui i lavoratori dipendenti accedono volentieri allo straordinario e dunque vogliono lavorare di più e guadagnare di più. Del resto, i lavoratori autonomi lavorano non 35, non 40, ma 60 e talvolta più ore alla settimana. La riduzione per legge dell’orario rappresenta allora una violazione di libertà, la libertà di lavorare.

È una violazione grave, perché cade in un momento in cui la situazione economica generale è tale da far desiderare alla grande maggioranza dei lavoratori di poter fare l’opposto di quello che un governo centralista stabilisce. E se questo è ciò che gli italiani veramente desiderano, nemmeno la qualità della vita, oltre che l’occupazione, si potrà dire migliorata dalle 35 ore. La qualità della vita migliora quando si avvicina a ciò che si desidera, non quando se ne allontana. È quindi almeno dubbio che la riduzione per legge dell’orario migliori la stessa qualità della vita.

Resta una domanda di natura politica: perché mai un presidente del Consiglio ed un ministro dell’economia danno il via libera ad una legge che giudicano negativamente? Come mai fingono di credere ad una concezione sbagliata dell’impresa, come quella di Rifondazione comunista? Ossia, una concezione dell’impresa intesa come una specie di caserma dove, se si riduce la durata della leva, occorre arruolare più soldati per avere un eguale risultato. Le cose, come abbiamo visto, sono un tantino più complicate.

Quando un governo vara leggi che non lo convincono, vuol dire che l’obiettivo della sua azione non è fare l’interesse generale del Paese, così come esso stesso lo raffigura. Vuol dire invece che il suo obiettivo è soltanto quello di restare comunque al potere, accada quel che accada al Paese.

Antonio Marzano


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1998