Feuilleton
STORICI MIEI,
FASCISTI DI SINISTRA

di Piero Craveri

Una fitta schiera di intellettuali di sinistra, non saprei come altrimenti definirli, è presa da una strana sindrome. Poiché le illusioni di cui si è nutrita per un cinquantennio sono ridotte ad un cumulo di macerie, essa pratica la strada dell’omologazione con la seguente apostrofe a ipotetici interlocutori: eravamo così perché avevamo contro voi, che siete responsabili di altrettante false rappresentazioni, le quali sono anzi, nel caso vostro, veri e propri crimini, giacché in questo Paese eravate voi dalla parte di chi governa. Di qui essa opera anche un capovolgimento delle parti e recita: siamo noi i veri interpreti della parte migliore di voi, quella tradizione liberal-democratica che ha vinto la sua sfida con il comunismo, e che voi non potete dire di aver rappresentato, se non con l’inganno e la mistificazione.

La storia contemporanea, ma non solo quella, è naturalmente il campo di sperimentazione di questi impulsi psicolabili. Non sono tesi storiografiche, sebbene molti storici di professione non solo le sottoscrivano, ma si esercitino nelle sue analisi più estreme. Sono tesi politiche e in quanto tali vanno analizzate. Alcuni responsabili della politica della sinistra forse le condividono, ma si guardano bene dall’esprimerle, recitando un ruolo più equanime, il più possibile sopra le parti, in cui gli errori del passato sono ammessi, il merito degli avversari riconosciuto e la strada verso il futuro sgomberata il più possibile da inutili polemiche: fino al paradosso di cui si è valso di recente Massimo D’Alema, ponendo i dirigenti del partito comunista cinese di fronte al dilemma se il marxismo-leninismo sia mai esistito. Certo, questi atteggiamenti di D’Alema non possono propriamente dirsi rispettosi della storia, perché tendono a porsi al di sopra di essa. Conoscendo i tratti fondamentali della formazione di D’Alema, potremmo dire che il primato della politica tenderebbe in lui a sostituirsi interamente alle sue premesse storicistiche.

Ce ne sono però altri di questi politici in cui la storia non è questione soltanto di cauta revisione e opportuna omissione, ma diventa uno dei luoghi privilegiati su cui esercitare un vero e proprio delirio di onnipotenza. È il caso, ad esempio, di Luciano Violante. La sua visione della recente nostra storia nazionale non ha alcuna rilevanza storiografica: appartiene piuttosto ad un approccio fideistico, anzi fanatico, oggi si direbbe fondamentalista, non solo della storia, ma della stessa realtà, che sempre si manifesta nelle distinzioni manichee tra bene e male, donde altre derivate contrapposizioni, quali antifascismo e fascismo, corruzione ed onestà, malavita organizzata e Stato (etico). Una visione che in principio non dovrebbe comportare alcuna possibilità di "pacificazione", almeno per il passato, ma questo è piuttosto un problema dell’onorevole Fini, a meno che anch’egli non condivida l’assunto fondamentalista del suo interlocutore, con l’ovvio pregiudizio che ciascuno si riserva di dichiararsi, per il passato e per il presente, dalla parte del bene.

Al di là di questo aspetto, nel caso dell’onorevole Violante c’è anche qualcosa di più grave. Il suo fondamentalismo è di lunga data e si nutre di una cultura politica e storiografica che risale ad almeno un decennio e più (ma non di più), e di cui egli è stato un antesignano, fin dalla sua iniziale attività di magistrato. Questa ideologia fondamentalista nasce infatti nel circuito giudiziario e da lì si è venuta sviluppando in un sistema istituzionale più complesso. Gli storici, infatti, sono venuti dopo, e a ben vedere si capisce il perché. Fino a quando la natura consociativa del sistema politico comprendeva la sinistra, il male è rimasto per loro commisto al bene e viceversa. Fu dopo, alla metà degli anni ’80, quando con Craxi la conventio ad excludendum incominciò a volgersi contro l’assetto consociativo stesso, che iniziarono i ripensamenti e con essi crebbero le sintonie con le posizioni giustizialiste di una parte sempre più rilevante della magistratura. Il passaggio ulteriore fu l’uso delle Commissioni parlamentari d’inchiesta, a partire dalla Commissione stragi, che ormai è diventata una specie di Bicamerale permanente e, nell’indeterminatezza del mandato, ha assunto come oggetto d’indagine l’intera storia dell’Italia repubblicana.

Ora, se a un organo politico, anzi parlamentare, è demandato il compito di stabilire la vera storia di un Paese e se quest’organo, come è avvenuto ed avviene, si colloca all’interno di un circuito istituzionale più vasto, esercitando una funzione di sintesi politica dell’azione giudiziaria e di indirizzo della stessa verso nuovi orizzonti politici, e inoltre si avvale dell’opera di consulenza e di propaganda di una parte della corporazione degli storici, coniugando la natura principalmente politica di queste operazioni con l’aggettivo della scienza, è evidente che siamo in presenza di un mostruoso tentativo di cancellazione della necessaria distinzione tra cultura e politica, che è a fondamento di qualsivoglia società liberale e civile. Con un’aggravante: che la verità storica, che è sempre una continua ricerca ed un confronto critico, le cui regole sono esclusivamente di carattere morale ed intellettuale, quando viene stabilita a colpi di maggioranza parlamentare, non può che generare profonde contrapposizioni, allontanando la formazione di quella coscienza comune sui fondamenti della storia nazionale, sulla quale soltanto è possibile dar vita ad un effettivo bipolarismo, ad una democrazia dell’alternanza.

La sindrome inconfessata, a cui si faceva più sopra cenno, è dunque semplicemente un pericoloso revival di intolleranza culturale e politica in cui intellettuali, in particolare gli storici, sono a rimorchio delle più strumentali manipolazioni politiche e ci mettono del loro per estremizzare le più arrischiate ipotesi da gettare nella mischia. Gli episodi che qui di seguito Roberto Chiarini e Vittorio Macioce espongono sono manifestazioni esemplari di questa sindrome di una parte della cultura di sinistra. Il caso di Chiarini è quello della negazione a priori di un’ipotesi critica contraria; quello di Macioce corrisponde ad una appropriazione indebita, con sostituzione del materiale all’ideale. Questo tipo di intolleranza nella storia contemporanea del nostro Paese ha avuto due precedenti significativi: il fascismo e lo stalinismo. Poiché le basi strutturali dello stalinismo sono crollate e nessuno può pensare di ricostruirle, sebbene la parentela prossima di questo aggressivo isterismo sia quest’ultimo, pensiamo sia più esatto parlare di un "fascismo di sinistra". E se continua così, questo ammorberà sempre più l’aria e lacererà sempre più in profondità il Paese, perché a nessuno, credo, piace veder insultati i propri morti, rubate le proprie icone, falsificati i propri testi, come è avvenuto in passato sotto altri regimi.

Piero Craveri


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1998